Medana (Slovenia), cinema-teatro e memoriale Gradnik e Zorzut
11-13 settembre
Giunto al traguardo non trascurabile del quindicesimo anno di vita, il Brda Contemporary Music Festival – sotto la direzione artistica del batterista e percussionista Zlatko Kaučič – ha confermato la propria vocazione di festival transfrontaliero. Un termine, quest’ultimo, che deve essere interpretato sotto molteplici aspetti. Prima di tutto, per la sua collocazione nella Goriška Brda, l’area slovena del Collio, a pochi chilometri dal confine con l’Italia; nei primi dodici anni nel borgo di Šmartno, negli ultimi tre nel paesino di Medana. In secondo luogo, come encomiabile esempio di una cooperazione tra musicisti sloveni e italiani (questi ultimi per la maggior parte friulani) che dura da lungo tempo. Inoltre, la sempre consistente presenza di altri musicisti europei rende il festival un autentico punto di incontro e confronto tra culture diverse, quantomai opportuni in tempi cupi come quelli che stiamo attraversando. Infine, sul piano strettamente musicale la manifestazione si prefigge di documentare vari approcci a un’improvvisazione in larga parte non idiomatica.
Secondo una sana abitudine, il programma prevedeva anche l’aspetto didattico, con i workshop gestiti dalla vocalist tedesca Ute Wassermann e da Michael Moore. Assistere, anche solo in parte, a un seminario condotto da Moore significa constatare il piacere e la leggerezza con cui il sassofonista e clarinettista americano gestisce il lavoro. Propone vari approcci e criteri per l’improvvisazione allo scopo di instillare nei partecipanti consapevolezza e autodisciplina. Sottolinea l’importanza della ricerca dell’affiatamento e la necessità di una corretta articolazione. Invita a suonare come se si stesse sviluppando una conversazione ordinaria in un luogo pubblico. Sollecita un’improvvisazione aperta senza segnali prestabiliti di durata e tempo. Suddivide il gruppo in coppie, in modo che si stabiliscano dialoghi e una circolazione efficace di idee. Suggerisce di individuare tre spunti sui quali lavorare, alternandoli continuamente. Infine, dispone un lavoro corale su una singola melodia.
11 settembre. Introdotta dall’esibizione, all’interno del memoriale Gradnik e Zorzut, della percussionista e perfomer giapponese Moe Yoshida e del clarinettista basso sloveno Enej Gala, la prima serata – svoltasi nella sede del cinema-teatro – ha indicato direzioni diverse.
Formato da Daniele D’Agaro al sax tenore e al clarinetto, Giovanni Maier al contrabbasso e Gal Furlan alla batteria, il Soča Trio conduce un’improvvisazione controllata, basata su tracce riconoscibili e su una minuziosa ricerca timbrica. Tenorista dal suono fortemente radicato nella tradizione, ma in passato immerso nelle scene creative olandese e tedesca, D’Agaro inizialmente dissemina singole cellule sul percorso e poi misura anche le frasi più spigolose. In alcuni frangenti il canto dello strumento evoca gli inni di Albert Ayler o il Dewey Redman lirico della Liberation Music Orchestra. Al clarinetto alterna timbri cristallini, suoni ruvidi e sporcati ad arte, uso del soffiato e passaggi densi di un sottile senso del blues. Maier costruisce poderosi pedali, produce linee pregnanti con un pizzicato scarno e fa un uso frequente ed espressivo dell’arco. Furlan si cala in questo contesto con discrezione forse anche eccessiva, contribuendo comunque ad arricchire la gamma timbrica nei momenti di maggior libertà e rispettando gli equilibri di un trio che ha il suo tratto distintivo in un elevato grado di ascolto reciproco. Del resto, D’Agaro e Maier vantano una lunghissima frequentazione, nonché la comune esperienza nel trio Disorder At The Border, condiviso in anni recenti con Kaučič.

Tutt’altra dimensione è quella del Frika Trio, composto da Anton Lorenzutti (chitarra ed elettronica), Jošt Drašler (basso elettrico) e Marek Fakuč (batteria ed elettronica), elementi provenienti dal Kombo, ensemble diretto da Kaučič. In questo contesto l’elettronica è uno strumento per filtrare e modificare i timbri (anche il kazoo e la m’bira utilizzati da Lorenzutti), e per integrare la tavolozza sonora. Ne consegue un’esplorazione da cui scaturiscono un potente impatto materico, grovigli intricati e loops ossessivi che però trovano una ragion d’essere nella coesione interna del gruppo. Si avverte decisamente l’impronta del rock indipendente (nella fattispecie, noise e no wave) e qualche eco delle frange più sperimentali del rock progressivo. Possibili influenze? Bill Laswell, Elliott Sharp, The Ex, Sonic Youth, Can, Hugh Hopper (segnatamente per la distorsione del basso elettrico). In definitiva, un uso espressivo del rumorismo.

È molto raro vedere uno spartito sul palco del Brda Contemporary Music Festival. Tuttavia, questo è accaduto nel caso dello sloveno Combo X diretto dal chitarrista Igor Bezget, vecchio compagno di avventure di Kaučič, con il quale in gioventù aveva viaggiato e suonato in mezza Europa. Qui siamo al cospetto di una musica più strutturata, spesso modellata su impianti modali e articolata su fluide progressioni armoniche sostenute da Jošt Drašler (qui al contrabbasso al posto dell’annunciata Zsofia Klacmann) e dal batterista Aleš Zorec. Musica certamente aperta all’improvvisazione ma comunque contraddistinta da temi circolari normalmente enunciati all’unisono da chitarra e tromba (Filip Dihpol), che instaurano una dialettica abbastanza efficace. Timbriche delicate e mezze tinte per degli esiti aggraziati, ma non sempre convincenti e sicuramente non in linea con i presupposti del festival.
12 settembre. La seconda serata si è aperta all’insegna dell’improvvisazione radicale con il solo di Lotte Anker. Cimentandosi al soprano e all’alto, l’esperta sassofonista danese ha lavorato essenzialmente sui registri estremi. Ne ha ricavato lunghe sequenze fatte di schegge e microcellule progressivamente aggregate in frasi guizzanti ma essenziali, culminanti in acuti e sovracuti taglienti, con rari abbozzi (all’alto) di sprazzi melodici spartani. Sequenze disseminate da un campionario di suoni frullati, stoppati nell’ancia (con la tecnica slap tongue), stridenti e rantolanti, con frequenti impennate e occasionale ricorso al soffiato e, molto più spesso, a timbriche rugose, vetrose, ispide. Niente di nuovo sotto il sole, ma un percorso a suo modo coerente e saldamente legato all’avanguardia europea degli anni Settanta.

Molto diverso, e più produttivo, è risultato il duo eseguito da Anker con Michael Moore. Quest’ultimo, protagonista della scena creativa olandese fin dai primi anni Ottanta, ha orientato con lucidità il processo, instaurando una dialettica proficua e ricca di stimolanti contrasti, con interessanti combinazioni strumentali e timbriche. Il dialogo fra i due contralti, basato sul continuo inseguirsi e ritrovarsi, ha visto Moore mantenersi su un terreno sostanzialmente melodico, con particolare attenzione alla forma e al controllo delle dinamiche, e Anker contrapporvi un disegno segmentato e spigoloso. Il duo tra clarinetto e soprano ha preso il via da dinamiche rarefatte espresse attraverso il soffiato ed è stato animato da una combinazione di suoni frullati, per poi svilupparsi grazie alle ornamentazioni di Moore contrastate da note ripetitive di Anker. Quindi, clarinetto e alto (anche senza imboccatura) hanno imbastito un gioco di sovracuti e timbri estremi. Infine, alto e soprano – integrato da vocalizzi – hanno stabilito un’interazione sempre più strutturata prendendo giocosamente spunto da un dettaglio banale come lo scricchiolio di alcune assi del palco.

Protagonista di un solo apprezzatissimo, Ute Wassermann – vocalist di ambito contemporaneo – impiega la voce come uno strumento vero e proprio per produrre una vasta gamma di timbri e sfumature, arricchita ed estesa anche dall’uso di oggettistica varia, tra cui richiami per uccelli e risuonatori. Ne risulta uno stupefacente caleidoscopio sonoro senza soluzione di continuità, fatto di sequenze percussive, rantoli, sussurri, miagolii, risonanze cavernose che a tratti si risolvono in un soffio vitale. Un’esplorazione nei recessi nascosti e nelle risorse recondite della voce che senz’altro ha radici profonde. Si ricollega alla lontana alle esperienze di Cathy Berberian, ma è apparentabile alla ricerca condotta in ambiti diversi da Shelley Hirsch, Joan La Barbara, Lauren Newton, ma soprattutto Phil Minton, con il quale non a caso la camaleontica Wassermann ha collaborato.

Forti di una lunga collaborazione, il violinista Emanuele Parrini e il contrabbassista Giovanni Maier si sono presentati in trio con il batterista Urban Kušar, anche lui ex allievo di Kaučič. Ne sono scaturite esecuzioni che spesso prendevano vita dall’accumulo di cellule e grumi sonori su tempo libero, per poi assumere forme più compiute e coese grazie ai possenti pedali di basso (anche con arco) e a degli efficaci crescendo dinamici. Molto feconda e ricca di forti contrasti si è rivelata la dialettica tra Parrini e Maier, sia nei passaggi eseguiti con l’arco che nel ricorso al pizzicato. Il contributo di Kušar è risultato essenziale, tanto nelle figurazioni libere e nella scelta delle dinamiche, quanto in un groove sul quale Parrini si è prodotto in un assolo infuocato e denso di nuances. Il suono, scuro e a tratti ruvido, e il fraseggio puntuto e abrasivo del violino devono qualcosa sia a Stuff Smith che al primo Jean-Luc Ponty, ma guardano spesso all’avanguardia afroamericana di Leroy Jenkins e Billy Bang. Tuttavia, in questo contesto la ricerca timbrica si avvicina non poco alla poetica di Phil Wachsmann.

13 settembre. Come da tradizione, la giornata conclusiva si è aperta con l’evento pomeridiano dedicato al connubio tra poesia e musica, come sempre improntato alla collaborazione italo-slovena. Da una parte, Petra Koršič, accompagnata dalla pianista Mojca Zupančič; dall’altra, Patrizia Dughero, affiancata dal trombettista Sandro Carta, impegnato anche all’elettronica. Quanto ai concerti serali, nell’elettronica si è specializzata Maja Osojnik. Slovena, da tempo residente a Vienna e molto attiva nella composizione per il teatro, la danza e il cinema, Osojnik utilizza un imponente apparato da cui genera lunghe sequenze ossessive, loop e corpose masse sonore, sovrapponendovi ora il tono declamatorio della sua voce, ora manipolazioni spasmodiche e frequenti disturbi. Un labirinto sonoro apocalittico, ma freddo, occasionalmente interrotto da una cadenza che ricorda un adagio per archi. Simbolo della decadenza dell’arte e della civiltà occidentale post-industriale?
Il successivo concerto del trio formato dal sassofonista inglese John Butcher, dal pianista catalano Agustí Fernández e da Zlatko Kaučič alla batteria ha coinciso con uno dei vertici della manifestazione. L’operato del trio è caratterizzato da una grande coesione e da uno straordinario livello di ascolto reciproco, in cui anche fruscii metallici, sfregamenti sulla cordiera del piano e soffi nell’imboccatura del sax tenore assumono un senso compiuto. L’azione collettiva si sviluppa attraverso cellule isolate, scambi e rimandi, episodi di efficace interazione con il silenzio a cui fanno riscontro vertiginose progressioni. Un esempio aggiornatissimo di free music offerto da tre maestri dell’improvvisazione. L’uso espressivo della respirazione circolare e dei suoni parassiti di Butcher (peraltro capace anche di una parentesi lirica) sia al tenore che al soprano; l’incredibile capacità di Fernández di trarre valenze musicali dall’intera superficie del piano; la prontezza di Kaučič nel cogliere gli stimoli dettati dai colleghi, aggiungendovi colori e sottigliezze anche con oggetti vari. Tutti questi elementi compongono un mosaico coerente.

Il festival si è chiuso con il proverbiale concerto finale dei workshop, stavolta in versione tripla. Prima, all’interno del memoriale Gradnik e Zorzut, la divertente performance della formazione vocale assemblata da Ute Wassermann, evento gioioso e liberatorio. Poi, di nuovo nel cinema-teatro, l’ingegnosa improvvisazione del sestetto allestito da Michael Moore, seguita da un altro progetto da lui curato in collaborazione con l’Associazione Armonie di Sedegliano, in provincia di Udine: il concerto della Baby Big Band, in massima parte formata da giovani e giovanissimi, alle prese con brani di Duke Ellington, Misha Mengelberg, Sean Bergin e dello stesso Moore.
In definitiva, Brda Contemporary Music Festival significa scambio, comunicazione, condivisione e gioia di suonare e vivere la musica.
Enzo Boddi
Foto di Žiga Koritnik