Da poco insignito del quattordicesimo EJN Award for Adventurous Programming, assegnato da Europe Jazz Network per l’approccio innovativo e coraggioso nell’esplorare insoliti territori musicali, integrando il palinsesto alle peculiarità paesaggistiche del luogo e alle comunità locali, Saalfelden Jazz Festival non muta la formula di questa 45esima edizione che si conferma vincente: qualità delle proposte d’ascolto, localizzate in svariati punti della raccolta cittadina austriaca e dei dintorni. Si va dal quartier generale della kermesse, il Centro Congressi, ai rifugi in alta quota, dall’anima industriale della Otto-Gruberhalle alla spiritualità dell’eremo Einsiedelei. Per quattro giorni, in questi ed altri luoghi, si sono esibiti 184 artisti per un totale di 60 concerti. I dati confermano anche la cospicua e positiva ricaduta economica che il festival produce da anni sulle attività commerciali e turistiche del territorio, oltre all’importante impatto sociale. Tuttavia, nel frequentarlo, un elemento balza agli occhi e un quesito riguardante il pubblico sorge spontaneo: se dalla totalità escludessimo quella fetta che va dai 50 anni in su, che percentuale resterebbe? Perché è evidente che Saalfelden Jazz Festival è sostenuto da un foltissimo zoccolo duro di “veterani” che probabilmente lo frequenta con fedeltà e affezione indefesse più o meno dagli albori, ovvero dalla fine degli anni ’70, quando per partecipare si piantava semplicemente una tenda nel “ranch” di Herr Karl Niemeyer…
Sarà curioso seguirne l’evoluzione anche da questo punto di vista.

Passando agli ascolti, segnaliamo il progetto Weird Of Mouth (venerdì 22 agosto, al Centro Congressi), nato dall’incontro della sassofonista danese Mette Rasmussen con due teste di serie d’oltreoceano, il pianista Craig Taborn ed il batterista Ches Smith. Il live austriaco ha letteralmente tolto il fiato per intensità, coesione d’intenti, creatività e sconfinata maestria.
Un fulmine a ciel sereno in cui il sax di Rasmussen ha squarciato il silenzio come un taglio di Fontana. Reiterati acuti si sono susseguiti a profusione quali ideale apripista a percorsi spericolati su cui, con chirurgico aplomb, si sono innestati il tocco magistrale di Taborn e la irruente flessuosità di Smith, infittendo la trama di ardite tessiture sonore. Questa ascesa imperiosa e irrefrenabile trova un minimo di riposo grazie al brano in solo eseguito da Taborn, dalle note cristalline e di una profondità struggente. Ora, anche il suono di Rasmussen, che nel frattempo avvicenda vari tipi di sassofoni, si è fatto d’un tratto più morbido, rotondeggiando un po’, per poi accartocciarsi, rapprendersi e distendersi nuovamente. Le soluzioni messe in campo dai tre sono indiscutibilmente avvincenti, alla stregua di una finale notturna degli US Open…

Taborn è parte anche della formazione che ha chiuso splendidamente (domenica 24 agosto, al Centro Congressi) questa 45esima edizione: il quartetto completato da Ethan Iverson al contrabbasso e Dave King alla batteria – fondatori dei Bad Plus – e Chris Potter al sassofono. La scaletta eseguita da questi quattro re del jazz statunitense, che ha fatto toccare ai nostri cuori vette altissime, è un sincero omaggio alla musica di Keith Jarrett ed in particolar modo al repertorio del suo quartetto americano imbastito tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 con Charlie Haden, Paul Motian e Dewey Redman. Introducendo il live, Iverson ha tenuto a sottolineare quanto queste registrazioni siano di fondamentale importanza e di costante ispirazione per loro e, in effetti, quello che viene trasmesso in questa ora e mezza di jazz sublime è un magistrale atto d’amore e di rispetto profondo, costruito su fondamenta solidissime dettate da tecnica, timing, creatività ed interplay impeccabili. Sbalorditiva l’esecuzione di Silence, che porta la firma di Haden, tra altri brani. Pare che questo progetto non rappresenti un’esclusiva austriaca, perciò occhio ai palinsesti dei maggiori festival a venire.
Impressionante anche la performance di [Ahmed], quartetto co-fondato dal pianista inglese Pat Thomas insieme all’altosassofonista Seymour Wright e completato da Joel Grip al contrabbasso e Antonin Gerbal alla batteria (sabato 23 agosto, Sala Congressi). Il punto di partenza di [Ahmed] risiede nella musica e idee di Ahmed Abdul-Malik (suonatore di oud e contrabbassista per Monk e Coltrane tra altri), trampolino di lancio che conduce ad individuare nell’idioma jazzistico l’ideale vettore di una ricerca più che condivisa, oserei visceralmente vissuta.
In sessanta minuti non stop – la parola pausa è pura eresia – ci troviamo davanti ad un’enciclopedia del jazz che ci entra inevitabilmente nelle viscere e, storditi, quasi non ci accorgiamo di quel che sta accadendo. La musica di Ahmed è senza tempo, o meglio è il presente, quel che accade hic et nunc; essa ingloba il jazz allo stato embrionale e il suo futuro, comprese le ere di mezzo. È tutto concentrato in questi sessanta-minuti-sessanta in cui assistiamo ad un serrato call and response tra il piano ed il sassofono, perfettamente sostenuti da basso e batteria, e a micro variazioni di un motore a propulsione che potrebbe procedere all’infinito e condurci in uno stato di trance.

Foto di Julian Gruber
Chiudiamo questo diario di note con una menzione al concerto in technicolor del sassofonista, polistrumentista, Tomoki Sanders. La genetica non mente, Tomoki assomiglia al padre Pharoah, e altrettante affinità balzano alle orecchie in svariati momenti del live austriaco. A lui è dedicato il brano dal titolo The Master Plan Never Ends. Tomoki è un’esplosione di vitalità e colore, la sua musica è fresca e solare, condita da una dose di naïveté (più o meno gradita) che riesce tuttavia nell’intento di far ballonzolare, a tarda ora, l’avvizzito e stoico pubblico di Saalfelden grazie ad un inatteso medley gravitante attorno ad un tormentone pop anni ’90: Gipsy Woman di Crystal Waters. La da dee la dee da…
Eleonora Sole Travagli