Pisa, Giardino Scotto
8 luglio
Senz’altro annoverabile tra gli eventi di spicco del cartellone di Pisa Jazz Rebirth, il concerto del sassofonista Isaiah Collier – per la prima volta in Italia alla testa del quartetto The Chosen Few – ha fornito spunti utili per parecchie riflessioni. The Universal Language è il titolo scelto dal direttore artistico Francesco Mariotti per l’edizione di quest’anno, con l’intenzione di sottolineare il carattere di linguaggio universale assunto dal jazz nell’epoca contemporanea, in quanto capace di assorbire ed integrare altri idiomi e differenti modalità di improvvisazione.
Nativo di Chicago, il ventottenne Collier si propone come ideale continuatore di una tradizione jazzistica derivante dai fermenti che caratterizzarono alcune delle frange più avanzate della scena afroamericana degli anni Sessanta. Non tanto il free, che segnò un punto di rottura con le convenzioni ritmico-armoniche ammantandosi in molti casi anche di valenze politiche. Né tantomeno le sperimentazioni condotte dai musicisti legati al circuito dell’AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians) sorto proprio nella natia Chicago. Semmai, la proposta di Collier si riallaccia alla transizione da modale a informale esplorata in primis da John Coltrane.
Proprio al Coltrane del periodo 1964-1967 facevano esplicito riferimento i primi due brani eseguiti nel concerto pisano, tratti dal recente «The World Is On Fire», come del resto tutto il repertorio proposto per l’occasione. La loro struttura si basa su impianti modali talvolta anche scarni, sottolineati da blocchi di accordi e arpeggi – sulla scia di McCoy Tyner – da parte della pianista Liya Grigoryan, dai pedali della contrabbassista Emma Dayhuff e in certi passaggi dalle piccole percussioni (portatrici di echi di un africanismo atavico) utilizzate dal sassofonista. Tenorista formidabile, Collier vi costruisce e sovrappone quelle che il critico americano Ira Gitler aveva chiamato sheets of sound, cortine di suono, per definire lo stile di Coltrane. Lo fa animato da una furiosa urgenza espressiva, inanellando per parecchie misure fraseggi riccamente articolati e sempre più serrati. Nel suono e nel linguaggio si colgono richiami ad altri storici interpreti dello strumento: ad Archie Shepp, per il vigoroso e sanguigno blues feeling, non disgiunto da occasionali risvolti lirici; a Pharoah Sanders, per le incursioni sui sovracuti e il ricorso al frullato; a Sonny Rollins, per il potente e torrenziale impatto sonoro.
Tuttavia, in alcuni frangenti proprio questo irrefrenabile impulso di esplorare finisce per limitare, se non addirittura soffocare, l’apporto delle pur brave colleghe, già penalizzate dalla preponderanza (si potrebbe anche azzardare: dall’invadenza) delle figurazioni tutt’altro che variegate del batterista Timothy Regis. Quando invece viene concesso spazio agli interventi misurati di Grigoryan e Dayhuff, le esecuzioni godono di maggior respiro e di un’interazione apprezzabile.
Collier concepisce la propria musica come veicolo di messaggi socio-politici, con espliciti riferimenti alla situazione americana: la discriminazione nei confronti degli afroamericani, di cui George Floyd è diventato simbolo; le folli politiche sociali di Donald Trump e dei suoi accoliti, che accrescono il divario fra i ceti; le misure coercitive contro gli immigrati; l’inaccettabile giustificazione dell’attacco a Capitol Hill; la libertà d’azione concessa a gruppi estremisti come i White Supremacists. Paradigmatico in tal senso risulta il messaggio racchiuso in America The Ugly, titolo concepito deliberatamente in opposizione al vecchio inno patriottico America The Beautiful. Il tema principale è una parodia dell’inno nazionale Star Spangled Banner, Gli sviluppi sono alimentati da un sostrato blues, arricchiti dal contributo lirico di piano e contrabbasso, integrati da una citazione di Someday My Prince Will Come e coronati da una variazione sul tema dell’inno Amazing Grace.
Dunque, nella musica di Collier & The Chosen Few il legame con il passato è evidente e saldo, almeno quanto il tentativo di attualizzarne gli insegnamenti. Data la giovane età, da un musicista di questa statura è lecito aspettarsi un’ulteriore maturazione foriera di nuovi sviluppi.
Infine, merita una doverosa citazione il concerto di apertura della serata, eseguito dal quintetto Giraffe diretto dal trombonista Matteo Paggi, già rivelatosi con i Fearless Five di Enrico Rava. Il gruppo ha presentato composizioni originali, tutte firmate da Paggi, basate su costruzioni modulari, talvolta sviluppate senza soluzione di continuità e comunque caratterizzate da frequenti cambi metrici. Sull’impianto ritmico-armonico imbastito da Vittorio Solimene (piano), Andrea Grossi (contrabbasso) e Andrea Carta (batteria), Paggi stabilisce una proficua interazione con Lorenzo Simoni (sax alto), contraddistinta da efficaci impasti timbrici, controcanti e contrappunti. Dalle esecuzioni emergono un certo qual gusto per lucenti melodie e una scrupolosa attenzione alle dinamiche. Tuttavia, il gruppo sembra dare il meglio di sé in alcuni passaggi informali, nei crescendo e nei collettivi, frangenti in cui raggiunge la massima intensità espressiva. Non ci si può che rallegrare che un festival come Pisa Jazz Rebirth garantisca spazio e visibilità a queste realtà emergenti.
Enzo Boddi
Foto di Federico Del Vecchio