Ci sono molti modi di raccontare un concerto. Figuriamoci sessanta concerti: grossomodo il numero delle proposte musicali messe in programma quest’anno dal Südtirol Jazzfestival Alto Adige. Come sempre, il nostro resoconto si limita alla dozzina di appuntamenti che abbiamo seguito, cercando la selezione per evitare un’abbuffata. Fin dalle prime battute, la rassegna altoatesina ha rimarcato le proprie linee caratteristiche, impostate da Klaus Widmann e ora condotte con innesti sempre nuovi da Stefan Festini Cucco, Max von Pretz e Roberto Tubaro. In primo luogo, la ricerca di inediti spazi significativi in ogni angolo della provincia, da mettere in comunicazione con la musica; a volte in contrasto vero e proprio, per alcune caratteristiche acustiche. Ambienti naturali e antropici suggestivi.

Altri criteri, lo spazio offerto a fasce giovani e meno giovani di musicisti provenienti da tutta l’area europea e la ricerca di contatto con gruppi di pubblico diversificati per età e interessi. La sfida che scaturisce dall’insieme di questi parametri era ben evidenziata fin dall’apertura del festival, la serata Industrial Echoes, che metteva in relazione l’enorme sala carroponte del NOI Techpark di Bolzano, area industriale riqualificata a centro di ricerca e di manifestazioni, con un sestetto cameristico di fiati, archi e vibrafono proveniente da tutta Europa, estratto dall’organico della Brainteaser Orchestra di Amsterdam. Una sfida stimolante anche secondo l’opinione degli stessi musicisti, con riverberi ed echi di non facile gestione, risolta mantenendo l’attenzione sugli impasti sonori, giocando sul contrasto tra composizioni cameristiche e improvvisazioni sorvegliate. Tra queste, spiccavano in particolar modo quelle poco convenzionali della sassofonista soprano e contralto olandese Kika Sprangers. Successivamente, la Brainteaser Orchestra al completo si è esibita nel piazzale del Techpark, con la direzione dell’estroso Tijn Wybenga, autore delle musiche molto articolate, che sfruttavano un organico composito, con quattro archi, tre ance, trombone, vibrafono, chitarra, contrabbasso, batteria e le tastiere con elettronica dello stesso leader. Già molto apprezzata in Germania, dove ha guadagnato un Jazz Prize per il suo album Brainteaser del 2021, la formazione ha dato vita a una proposta ricca, con mescolanze stilistiche, timbriche e metriche, buoni arrangiamenti e interventi solistici di pregio. Significative le presenze degli italiani (con base ad Amsterdam) Nicolò Ricci al sax tenore, Federico Calcagno al clarinetto basso e Alessandro Fongaro al contrabbasso.
La consuetudine del festival di mettere in relazione/reazione differenti ambienti naturali e antropici con la musica, come la propensione a ripresentare i musicisti ospiti in situazioni diverse e inedite, ha portato alcuni membri della stessa orchestra in un bosco lungo la seggiovia di Monte San Vigilio, nei pressi di Lana, con il pubblico sui seggiolini e i singoli musicisti sparsi tra le fronde. Una fruizione rilassante e idilliaca, immersa nella natura, con improvvisazioni e qualche tema di Monk che occhieggiava tra lo scampanio delle mucche e i trilli dei volatili. Ma torniamo alle sfide, in particolare nella sezione Sonic Reactions, che ha messo a confronto parecchie coppie di musicisti in duetti inediti, ancora nella cornice di ambienti singolari, spesso non proprio agevoli. Come nel caso del Bunker H di Bolzano, una galleria scavata nei saldi blocchi di porfido per dare rifugio alle truppe naziste nella seconda guerra mondiale, i cui contorti cunicoli sono stati lo spazio per il duo di Camila Nebbia e Dan Kinzelman. I musicisti, ambedue al sax tenore, ambedue solisti straordinari, hanno condotto la lunga fila di pubblico in una passeggiata nelle viscere del porfido, allontanandosi e ricongiungendosi, giocando su risonanze, riverberi ed evocazioni sonore di forza mitologica nel dedalo suggestivo di cunicoli e anfratti. Hanno sfruttato da par loro le caratteristiche dell’ambiente, sondando tutte le possibilità timbriche, dinamiche e di emissione dei propri strumenti, con borbottii, soffi, sospiri, poderosi barriti, figure astratte ed enigmatiche. Tracciando un itinerario adeguato e convincente.

Lo stesso Kinzelman è stato protagonista di altri momenti di Sonic Reactions: nel duo in alta quota con il trombone di Filippo Vignato al Sëurasas di Santa Cristina, al quale purtroppo non siamo riusciti ad assistere, e in quello che lo ha visto abbinato al chitarrista olandese Reinier Baas, altra conoscenza del pubblico del Jazzfestival Alto Adige. Si erano incrociati nella registrazione di Sexuality nel quintetto Frontal di Simone Graziano, ma non avevano mai interagito in duo. Nel concerto alla Tenuta Punthof di Lagundo (presso Merano) hanno percorso un tragitto quasi didascalico, ricco di riferimenti alla storia del jazz, con standard come “You Stepped Out of a Dream”, qualche brano di Monk e di Ellington, alcune astratte pennellate contemporanee.
Il chitarrista olandese ha affrontato un’altra sfida propostagli dal festival: un solo all’interno di una miniera di rame dismessa da cinquant’anni a Predoi, in alta Valle Aurina. Una galleria lunga novecento metri porta con un trenino nella stanza naturale ora divenuta centro climatico per la purezza dell’aria. Là, con una temperatura sotto i dieci gradi, Reinier Baas ha dimostrato la propria maturazione di musicista a tutto tondo, capace di raccontare storie con particolare lirismo, dopo il debutto al festival di una decina di anni fa (e successivi ritorni), da giovane molto dotato. La sua impostazione è saldamente ancorata nel mainstream moderno, con un tocco ricco di sfumature espressive e di contrasti dinamici. Raffinate le sue rivisitazioni del monkiano “Light Blue”, del Wayne Shorter di “Ju Ju”, del classico “Skylark”. Per restare nel campo dei soli, del tutto diverso quello proposto dalla flautista francese Delphine Joussein, dal titolo Calamity. Anche in questo caso si trattava di una sfida con l’ambiente: un alto capannone di cemento armato nella zona fieristica di Bolzano. Il flauto di Joussein non era propriamente solo in questa avventura, ma supportato di una serie ampia di effetti elettronici che la musicista manovrava con grande scioltezza attraverso pedali. Ne scaturivano suoni moltiplicati, spesso parossistici e distorti, colate laviche e accordi metallici di rock. Il suono del flauto emergeva raramente, ma comunque si captava un fraseggio agile e ricco, con emissioni multifoniche di un novello Roland Kirk.
Ancora un passaggio dai duetti di Sonic Reactions per ricordare gli incontri, sempre inediti, di Filippo Vignato con il chitarrista viennese Andreas Tausch, svoltosi in una bottega di dischi di Bolzano, e del violoncellista emiliano Francesco Guerri con il chitarrista di origine giapponese Kenji Herbert. Il primo duo ha mostrato una sintonia ammirabile già fin dalle primissime battute, dipanandosi in un itinerario improvvisato che mostrava una vigile strutturazione spontanea e un alto grado di ascolto reciproco, con il trombone di Vignato alla costante ricerca di un canto e delle sue varianti. Il secondo si è sviluppato sulla stessa traccia del solo di Guerri, svoltosi la serata precedente all’interno di una distilleria di Termeno, dove il violoncellista basava la proposta sul proprio lavoro Su Mimmi non si spara! C’è molta composizione di carattere contemporaneo, ci sono momenti liberi, tenendo bene lo sguardo su un punto di partenza e uno di arrivo. C’è scavo in profondità sulle risorse sonore dello strumento, sull’aspetto gestuale da cui nasce il suono, sulle diteggiature limpide, che creano una filigrana di giustapposizioni, armonici, brevi frasi circolari o repentini cambi di registro. Nel duo, la chitarra di Herbert asseconda con sensibilità il lavoro del violoncello, creando un tessuto ancora più fitto e articolato.
Il tradizionale incontro tra musica e cinema muto, svolto con la collaborazione del Filmclub di Bolzano, ha visto quest’anno sullo schermo la pellicola Il Mandarino, realizzata nel 1918 nell’Impero austro-ungarico e restaurata tra il 2002 e il 2004 dopo la sua riscoperta negli Stati Uniti. La musicazione dal vivo di Kinzelman, insieme a due componenti del trio belga De Beren Gieren, è stata attenta e reattiva agli aspetti surreali e psicologici che alimentavano il film. In una carrellata finale, citiamo ancora il gruppo The Rhythm Hunters del batterista belga Stéphane Galland, un manipolo di giovani ben attrezzati sia nell’insieme di ritmi e metri in costante variazione, che negli interventi in solo. Poi il quartetto danese/norvegese della scatenata altosassofonista Signe Emmeluth, tra gli appuntamenti che hanno animato la notte fonda al club Sudwerk di Bolzano e il progetto portato dal laboratorio Euregio Jazzwerkstatt, con i nostri Mirko Pedrotti, Niccolò Zanella, Daniele Patton e gli austriaci Anna Reisigl, Max Plattner, Philipp Ossanna. Infine, un altro appuntamento consueto nel bello spazio dello Stanglerhof a Fiè allo Sciliar ha messo in scena il duo Poeji della vocalist di origine mongola Enji Erkhem e del batterista germanico Simon Popp. In buona parte un salmodiare mistico orientale, con la voce molto controllata su frasi circolari, su minime variazioni distanziate. Vi appare un attimo, ma subito si dilegua, il tema mingusiano di “Duke Ellington’s Sound of Love”. Le percussioni assecondano con il suono argentino dei metallofoni e a volte rinforzano con scansioni più marcate. Una parentesi immersa nella meditazione, molto apprezzata da un’ampia parte del pubblico.
Giuseppe Segala