«UNPRECEDENTSH!T». Intervista ad Ani DiFranco

L’artista di Buffalo sarà in concerto il 14 giugno alla Casa del Jazz di Roma e il 15 a Ferrara per la rassegna Ferrara sotto le stelle. Di seguito riportiamo un breve estratto dell’intervista pubblicata sul numero di maggio della rivista Musica Jazz.

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Benvenuta su Musica Jazz! Come racconteresti per grandi linee le novità di questo album che stai portando in tour? Siamo al tuo ventitreesimo, è ancora presente l’urgenza di raccontare storie?Certamente! Ogni album ha una sua storia, che non può parlare in altro modo che con la musica. Queste sono canzoni che ho scritto in circa un decennio, diciamo dal 2011 al 2022 e il comun denominatore è per paradosso che non c’è una vera e propria linearità tra i brani. Però, allo stesso tempo, credo che vi sia una ragione sottotraccia per cui si sono ritrovate insieme in «Unprecedent Sh!t»; il mio desiderio è che le persone vivano questo disco come un viaggio, un frammento d’arte, senza essere influenzate da una sorta di cacofonia di racconti circostanti. D’altronde, stiamo tutti vivendo tempi che non hanno precedenti nella storia e in molti sensi diversi, ci troviamo di fronte a sfide imprevedibili. Per questo, credo che la nostra risposta ad esse sia alzare il livello del dibattito pubblico e della percettività creativa, per quanto difficile.

In «Unprecedent Sh!t» è molto presente, a mio parere, il songwriting di Woody Guthrie, ci sono brani come More or Less Free di una semplicità e complessità insieme disarmanti.
Certo, io resto una folksinger. Ma nel mio cuore, se pure resta forte la presenza di Woody e degli altri, c’è una specie di contrasto spiccato tra il molto semplice, ad esempio nel pezzo che hai citato, e il molto complesso. In alcuni momenti basta la voce e la chitarra, in altri c’è bisogno di una produzione più ampia, che coinvolga quello che possiamo chiamare il mondo delle macchine per tirarci fuori qualcosa di buono. Ma il mio essere una folksinger resta ovunque, credo che si possa sentire ed ascoltare bene in ogni brano del disco, anche se ho voluto – più che in altre occasioni – esplorare e approfondire le possibilità della tecnologia. Questa volta, ho voluto accanto un produttore come BJ Burton [che lavora stabilmente con Bon Iver, Eminem, Lizzo e ha ricevuto quattro candidature ai Grammies, ndr], che ha un sacco di aggeggi: ignoro cosa siano e come funzionino, ma volevo qualcuno di giovane, che avesse una sensibilità contemporanea per controbilanciare la mia ispirazione. Lui si è dimostrato intuitivo e molto attento alla mia musica; abbiamo instaurato un confronto su molti livelli diversi per cercare di trovare la stessa lunghezza d’onda. Si può dire che il disco è completamente nostro.

Quando scrivi, quanto è importante trovarsi in uno stato di conflitto, di dubbio, di malinconia?
Dio non voglia di trovarsi in pace in quei momenti! C’è sempre un profondo conflitto dentro e fuori di me. E tutto viene espresso attraverso le canzoni… Anche la parola che hai usato, la malinconia: credo che ce ne sia molta nelle mie canzoni, alle volte diventa tristezza. In fondo, devo dirti, sono nata dentro la tristezza, l’ho ereditata da mio padre, quella radicale, profonda, esistenziale. E poi penso a tutte quelle emozioni che cerchiamo di trasformare e di far evolvere quando facciamo arte, scrivendo le nostre canzoni o i nostri romanzi. È un modo per smuovere, trasfigurare quel conflitto e quando ti trovi di fronte alla rabbia, al dolore e riesci prima a metabolizzarlo, poi farne qualcosa di creativo, allora puoi dire che è stato come una terapia capace di curarti.

Uno dei miei brani preferiti del disco è The Thing at End, sia per l’uso della voce che per quel sapore bluesy, il giro di basso che ricorda un po’ All Blues di Miles Davis. All’inizio tu canti: «Thanks to my teachers». La gratitudine è una specie di corrente alternata… Tu hai dei mentori da ringraziare nella tua formazione umana e musicale?
Ne ho avuti molti lungo la strada e sono d’accordo con te che i giovani rischiano di smarrire l’importanza dei riferimenti. Sinceramente una delle cose più belle e grandi che mi sono capitate nella vita è stata incontrare i miei insegnanti e affidarmi a loro. Lo dico spesso anche a mia figlia che ha diciott’anni e sta per diplomarsi tra poche settimane: provare a capire chi sono davvero i tuoi insegnanti, chiedergli aiuto, seguirli, imparare tutto ciò che possono darti, osservarli, soprattutto. Queste sono le linee guida che riconosco. Tornando a me, molti mi chiedono perché non cedo e non accetto di registrare con una big company e prendere una strada più commerciale. In primo luogo, quando sono stata invitata nei loro uffici, ho preso contatto con quel mondo e ho parlato con quelle persone che promettevano che mi avrebbero reso una star e mi sono detta: questi non possono essere i miei insegnanti, non ce n’è neanche l’ombra. Poi mi sono guardata alle spalle, ho rivisto gente come Utah Phillips, Pete Seeger e tutta quella combriccola di folksingers di sinistra e il mio poeta del cuore, Sekou Sundiata. Ecco, erano tutti sulla mia traiettoria emotiva e perciò continuo ancora a seguire il mio istinto fuori dalle rotte commerciali.
Info concerti: https://ponderosa.it/artist/ani-difranco/

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