Yuval Cohen «Winter Poems»

A cinquantun anni il terzo fratello Cohen – gli altri, ovviamente, sono la clarinettista Anat e il trombettista Avishai – debutta su ECM con un disco di alta qualità

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Sulla vivacità della scena musicale israeliana si è già scritto diverse volte su queste pagine e l’idioma afro-americano, soprattutto a Tel Aviv e a Gerusalemme, è diventato così fiorente – grazie anche al fatto che molti musicisti israeliani hanno creato da tempo un fil rouge con New York dove vanno a formarsi o a perfezionarsi – che si è formato un vero e proprio vivaio di talenti in continua evoluzione. I nomi che si possono fare sono tanti: il chitarrista Gilad Hekselman, il contrabbassista Omer Avital, il sassofonista Eli Degibri, il batterista Asaf Sirkis, il pianista Shai Maestro, il trombettista Avishai Cohen. Quest’ultimo insieme ai fratelli Anat, clarinettista e Yuval, sopranista, ha fondato i 3 Cohens, un gruppo che ha pubblicato diversi lavori discografici e si è esibito in tour in tutto il mondo. Recentemente, precisamente il 14 febbraio scorso, Yuval ha pubblicato per ECM «Winter Poems» con un quartetto, appunto il Yuval Cohen Quartet, completato da Tom Oren al pianoforte, Alon Near al contrabbasso e Alon Benjamini alla batteria. Sono tutti residenti in Israele, con l’eccezione di Benjamini che abita a New York. L’album, registrato nel settembre del 2023, presenta otto composizioni originali che mettono insieme influenze folk e sviluppi tematici tipici della musica classica. Il pedigree di Yuval, il meno conosciuto al grosso pubblico dei tre fratelli Cohen, non ha nulla da invidiare a quello di Anat e di Avishai. Ha iniziato i suoi studi al Conservatorio di Tel Aviv, proseguendo il suo percorso frequentando la School of Arts e la Thelma Yellin High School for the Arts. Si è poi spostato negli Stati Uniti laureandosi alla Berklee di Boston e cercando di conseguire un master presso la Manhattan School of Music di New York. Ha collaborato con numerosi artisti di fama tra cui Lee Konitz, Lew Soloff, Reggie Workman, il sassofonista newyorkese Arnie Lawrence morto nel 2005 a Gerusalemme, dove si era trasferito nel 1997 per fondare una scuola, l’International Center For Creative Music, e un jazz club, Arnie’s Jazz Underground, un musicista che ha contribuito in maniera incisiva alla formazione e al rinnovamento linguistico dei musicisti che in Israele avevano deciso in quegli anni di voler cimentarsi con l’idioma afro-americano. Attualmente Yuval Cohen è a capo del dipartimento di jazz della Jerusalem Academy for Music and Dance e del Conservatorio di Tel Aviv, lo stesso dove ha iniziato i suoi studi. In occasione della pubblicazione di «Winter Poems» lo abbiamo intervistato.

Mi racconti qualcosa di te?

Sono nato nel 1973 a Tel Aviv, dove vivo in questo momento. All’età di nove anni ho iniziato a suonare il mandolino in una scuola musicale a sud della città, a Jaffa. Mi piaceva suonare il mandolino, ma a un certo punto ho visto e conosciuto un ragazzo che suonava il sassofono e ho pensato che quello sarebbe stato lo strumento della mia vita. Da quel momento è iniziato il mio vero viaggio nella musica, suonando e cercando di imparare e migliorami. Ho suonato in diverse formazioni, anche in diversi tipi di orchestre, in big band, in quartetto. E così un po’ alla volta la musica è diventata la mia vita, una vita molto impegnativa. Adesso ho 51 anni.

«Winter Poems» è il titolo del tuo ultimo disco. Parlamene…

È il risultato di un lungo periodo durante il quale ho cercato di trovare la mia voce cercando un punto di equilibrio tra il jazz che adoro e la musica classica con la sua estetica inserendo all’interno elementi della musica israeliana. In questa musica, che mi appartiene molto, c’è una particolare attenzione alla melodia e tutti e quattro i musicisti coinvolti in questo progetto, me compreso, sono concentrati sulla ricerca di questo punto di equilibrio.

Yuval Cohen

Ho ascoltato il tuo disco e ho sentito una forte connessione della tua proposta con la musica classica. Parlami di questo legame, se anche tu ritieni che esista.

Come ti ho già detto da ragazzo suonavo nelle orchestre, nella sezione fiati, e una buona parte del repertorio era musica classica. Durante gli anni del liceo mi dedicai al jazz, fino a quando il direttore di un’orchestra sinfonica mi contattò chiedendomi di suonare un concerto di musica classica per sassofono. Accettai, nonostante pensassi di non essere adatto a suonare quella parte poiché mi consideravo un jazzista, e invece andò bene anche perché dovetti immergermi in quel mondo per circa un anno. Quella esperienza in qualche modo mi ha cambiato la vita, suonavo da solista con un’orchestra con quaranta archi e fu bellissimo. Davvero forte. Da quel momento in poi la musica classica è diventata una parte importante della mia personalità musicale. Tra l’altro penso che faccia parte delle radici del jazz, che non è altro che la combinazione di tanti differenti tipi di influenze: sicuramente c’è il ritmo, l’Africa, il blues, ma la melodia e quello che ne deriva in termini di pensiero musicale fa parte del patrimonio culturale della musica classica. Tutte le leggende del jazz – Charlie Parker, John Coltrane, Duke Ellington – devono qualcosa alla musica classica.

So cha hai suonato con gente come Lee Konitz, Reggie Workman, Eric Harland, anche con giovani leoni come Jason Lindner, Aaron Parks e infine con jazzisti israeliani come Gilad Hekselman, Shai Maestro, eccetera. Tra tutti i musicisti con i quali hai suonato, quali sono quelli che hanno lasciato una traccia indelebile dentro di te?

Questa è una domanda alla quale è difficile rispondere. Tutte le persone con le quali entri in contatto, non necessariamente musicisti, possono lasciare un segno. Tu prima hai menzionato Lee Konitz e Shai Maestro, due mondi diversi con i quali ho avuto una forte connessione e che di conseguenza hanno lasciato un segno dentro di me. Lee Konitz l’ho incontrato per la prima volta a New York quando studiavo lì alla Manhattan School of Music, venticinque anni fa, poi lui è venuto in Israele e ha suonato con me in quintetto per circa una settimana e abbiamo stabilito un sodalizio. L’altro giorno, scartabellando tra le mie carte, ho trovato una sua lettera in cui mi scriveva che aveva apprezzato molto l’album che ho inciso con Shai Maestro, e mi fa sorridere – è una vera e propria coincidenza – che tu abbia fatto il nome di Shai Maestro nella tua domanda. Shai era un mio studente, ma è cresciuto in maniera incredibile. Ciascuno dei nomi che hai fatto è stato molto importante per la mia formazione musicale. Lee purtroppo non c’è più, per fortuna con gli altri è ancora possibile lavorare.

So che hai vissuto a New York per un certo periodo…

Dopo aver fatto per tre anni il servizio militare, che in Israele è obbligatorio – suonavo nell’orchestra dell’Esercito –, mi sono iscritto al Berklee College a Boston dove mi sono laureato; subito dopo sono andato a New York e lì ho vissuto per circa un anno cercando di conseguire il master alla Manhattan School of Music, ma purtroppo ho avuto un grosso problema di salute che mi ha costretto a un grosso intervento chirurgico e ho quindi dovuto far rientro in Israele. Per cui ho vissuto la Big Apple per un periodo di tempo limitato.

Che ricordo hai di quella città? 

Posso essere sincero?

Ovviamente sì… 

È stata per me un’esperienza molto complessa. Da un lato è una città incredibile, straordinaria, incontri tutti i musicisti dei tuoi sogni, milioni di persone che ti danno e comunicano un’energia pazzesca, dall’altro è una città in cui puoi sentire moltissimo la solitudine soprattutto se sei molto giovane e non hai con te la tua famiglia. Hai la sensazione a volte di essere sulle montagne russe, si alternano periodi di felicità a momenti di depressione. A New York mi hanno anche operato. È una città molto difficile. 

Yuval Cohen

Parlami delle tue principali influenze musicali. Come sassofonista e come compositore…

Il primo sassofono che ho suonato è stato il contralto – oggi, come sai, suono soltanto il soprano – e passavo il tempo a trascrivere gli assolo di Charlie Parker e di Sonny Stitt, quelli di Sonny Rollins e di John Coltrane. Questi sono i sassofonisti che mi hanno influenzato maggiormente, ero ossessionato da loro. Quando ho iniziato a suonare nelle big band ho sentito Count Basie, che mi ha influenzato molto. Quando ero giovane c’erano ancora le musicassette, ne ricordo una che ascoltavo in continuazione, da un lato c’era Louis Armstrong e dall’altro Ella Fitzgerald, altri due giganti che hanno avuto un forte impatto sulla mia formazione musicale. Poi c’era la musica classica che studiavo e imparavo a scuola: dal barocco fino alla musica romantica ho ascoltato di tutto, dalle sinfonie di Beethoven e di Schumann, che conosco a memoria, a Bach.

E Steve Lacy? Tu sei un sopranista oggi…

Be’, certo, ammiro molto Steve Lacy soprattutto per il fatto che è stato davvero un pioniere del soprano, e in particolare amo il modo in cui ha scolpito nuove direzioni dello strumento. Il mio, però, è un approccio un po’ più soffice del suo, più melodico. Lui era un fuoriclasse e faceva cose quasi impossibili da realizzare con il soprano. Io ho cercato di farlo, non sempre ci riesco. Comunque sì, Steve Lacy è importante come influenza tecnica sullo strumento, anche se io cerco di ottenere un suono diverso dal suo. Cerco più di riprodurre il suono del clarinetto o dell’oboe.

È inevitabile farti tre nomi: Sidney Bechet, John Coltrane, Steve Lacy. Chi dei tre ti ha influenzato maggiormente?

Difficile. Forse Sidney Bechet. Per carità, John Coltrane è Dio e della tecnica di Steve Lacy abbiamo già parlato, ma c’è qualcosa nel modo di suonare di Sidney Bechet, quel sound così semplice ma nello stesso tempo autentico, che me lo rende molto vicino.

È un brutto momento per il mondo, in particolare per Israele. Tu sei un artista e un uomo sensibile che lavora su qualcosa che ha molto di umano. Come stai vivendo questo momento storico, e qual è la tua posizione riguardo al conflitto tra Israele e Palestina?

Proverò a risponderti. L’ultimo anno e mezzo è stato davvero terribile per noi. In linea di massima – parlo per me – non ho grossi problemi anche se vivo in un’atmosfera di costante paura: ogni volta che si avvicina una bici elettrica hai l’impressione che possa trattarsi di un ordigno esplosivo e la prima reazione è quella di andarsi a nascondere da qualche parte. È morta un sacco di gente, è una vergogna, sono settant’anni che tutto questo va avanti, e anche se la guerra dovesse terminare in questo momento lascerà alle sue spalle tanto di quel dolore difficile da dimenticare. Sono solo molto dispiaciuto e preferisco non addentrarmi in considerazioni politiche. Sono solo un musicista, non ho le competenze per parlare in maniera esauriente di questi problemi. Cerco di informarmi e di studiare il più possibile per confrontarmi con gli altri, ma il mio linguaggio è la musica che non ha nessun colore. È difficile davvero per me rispondere alla tua domanda, è stato l’anno e mezzo più brutto della mia vita.

Immagino tu sia impegnato nella promozione di «Winter Poems», ma c’è qualche altro progetto importante attorno al quale stai lavorando in questo momento?

Come sai ho un fratello e una sorella, Avishai e Anat, con i quali ho formato i 3 Cohens: abbiamo un nuovo album che sta per uscire con la WDR Big Band di Colonia ed è molto bello e interessante, secondo me. Sto vivendo la promozione di «Winter Poems» come un sogno: questo contratto con la ECM, che perseguivo da tempo, e il magico contributo di Manfred Eicher hanno rappresentato il coronamento di anni di sforzi e di fatica. È un momento davvero importante per me.

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