Enrico Rava: Fearless Five

Nuovo gruppo e nuovo album per il trombettista, come sempre acuto osservatore della scena attuale. Ecco cosa ci ha detto

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I vecchi e i giovani, per citare Luigi Pirandello. Eppure ascoltando Enrico Rava in «Fearless Five» – nuovo album targato Parco della Musica Records nel quale è circondato da una formazione di emergenti della nuova scena improvvisata made in Italy – i ruoli quasi si invertono: a sembrare giovane, quanto a inventiva, energia e idee, è proprio il maestro del nostro jazz; mentre i ragazzi che lo circondano stupiscono per saggezza e maturità. Di questo e di tante altre cose chiacchieriamo a ruota libera con il grande trombettista di origine piemontese, che ha da poco soffiato su ottantacinque candeline.

Enrico, prima di tutto come stai?

Ora sto meglio. In giugno, però, ho avuto l’ennesima polmonite – la quarta in tre anni –  per cui sono finito all’ospedale e ho dovuto annullare tutti gli impegni. Poi, per fortuna, ne sono uscito e ho fatto una serie di concerti che sono andati alla grande. Quindi va bene, considerato che ho ottantacinque anni e che i malanni arrivano a ruota. Ho anche un problema alle gambe, una neuropatia periferica, che dipende dalla colonna vertebrale: è legato all’operazione all’anca, che mi ha fatto cambiare postura. Per questo sento un bruciore costante, e camminare è davvero penoso per me.

La nostra ultima intervista risale alla fine del 2021, all’epoca dell’uscita del disco ECM «Edizione speciale. In Concert», registrato la sera prima del tuo ottantesimo compleanno. Oggi come allora, o quasi. Anche in questo nuovo album sei alla guida di un gruppo di nuovi talenti. A proposito di questo tema: lo psicanalista Francesco Stoppa sostiene che giovinezza e vecchiaia sono le età del desiderio, snodi biografici in cui si crea una frattura e quindi si «scrive» un nuovo capitolo della vita, esponendosi al rischio di un appuntamento dagli esiti tutt’altro che scontati. Che cosa ti suggerisce questa osservazione? Ti ci ritrovi?

È un problema e un quesito che non mi sono mai posto, a dire la verità. Io non cerco i giovani a tutti a costi, bensì musicisti che abbiano la mia stessa visione e con cui ci sia un’empatia particolare. Ma per trovare un gruppo come i Fearless Five, con cui sento una coesione assai forte, devo risalire addirittura a trent’anni fa, cioè all’epoca degli Electric Five. Insomma, per noi suonare insieme è un godimento pazzesco, soprattutto dal vivo perché c’è un interplay incredibile.  

Mi pare che nel gruppo un ruolo particolare ce lo abbia la batterista Evita Polidoro, che spinge la musica verso il rock.   

Evita è incredibile, una batterista e anche una cantante fantastica. In più lei non viene dal jazz e quindi non si porta dietro certi vezzi e questo mi piace moltissimo. Ha radici punk, rock, pop, ama l’elettronica per cui ci fa suonare in maniera speciale. Non solo: trascina anche Francesco Diodati. Lui è un chitarrista eccezionale e con il quale lavoro da tempo: al suo fianco, soprattutto nella dimensione live, dà il meglio di sé. A San Sebastián, in Spagna, per esempio, abbiamo fatto un concerto meraviglioso, ospiti di un festival che io adoro, come vado pazzo per i Paesi Baschi, sia sul piano culturale sia dal punto di vista… gastronomico!

Enrico Rava

Tutti i brani del disco sono firmati da te e sono stati rielaborati. Con quale criterio avete fatto la scelta? E poi: in Amnesia la tromba esce di scena, lascia il posto alla voce di Evita Polidoro e quindi il tuo strumento rientra nel tema seguente, Bell Flower, tratto da «Animals», e la sensazione è che tu riparta dalla melodia precedente…  

Sì, è vero: Bell Flower ha un rapporto con Amnesia. Non eseguivo questo tema da più di trent’anni e mi sono accorto solo suonandolo che c’era una parentela tra i due pezzi. Volevo cominciare il disco con un sound elettronico, misterioso, leggermente disturbante: un approccio che permette a me di fare quello che voglio con la tromba, insomma mi lascia una gran libertà perché non ci sono accordi, non c’è un tempo e quindi io ho il campo aperto. Poi entro con la seconda parte di Lavori casalinghi, un brano che risale al 1978: è un modo anche per lanciare Matteo Paggi, altro personaggio pazzesco. È molto giovane e ha una tecnica strepitosa. Lui è stato primo trombone in un’orchestra sinfonica in Olanda, roba tosta per cui devi essere super. Pensa che ha pochissima cultura jazzistica, non conosceva neanche il mio amico Roswell Rudd, che io oggi gli sto facendo ascoltare. È un fenomeno interessante, come nel caso di Evita, vederli entrare in un contesto jazz e portare qualcosa di personale, di vergine e mi stimola tantissimo. Dopo Lavori casalinghi, era il momento di lanciare un tema lirico come Lady Orlando: l’ho scritto dopo aver visto Orlando, il bellissimo film di Sally Field ispirato al libro di Virginia Woolf e con Tilda Swinton come protagonista. Tra l’altro il personaggio è una sorta di trans, quindi il tema è molto attuale oggi. Quindi ho scelto una composizione tra il latino, il funky e il jazz come The Trial dopo di che ho inserito il free di Infant, un gioco di improvvisazione collettiva. Poi ho messo Spider Blues e l’omaggio a Ornette Coleman, Cornettology. Infine ho recuperato Fragile, che era nel repertorio degli Electric Five. Per quel che riguarda il finale, volevo mettere Le solite cose come ghost track; invece l’ho inserito come ultimo brano nel timore che non venisse notato e qui, mentre io eseguo la melodia, ho lasciato improvvisare Matteo con il suo controcanto. Questa scaletta ha funzionato così tanto che l’ho usata, con le opportune variazioni, in due o tre concerti, che sono andati molto bene: penso per esempio alla serata di Umbria Jazz.

Come è nato il quintetto?

Per caso. Sono tutti ragazzi che arrivano dai seminari di Siena Jazz. Evita l’avevo avuta come allieva prima degli altri, mi piaceva molto e aspettavo l’occasione giusta per coinvolgerla in qualche progetto. Poi ho conosciuto Matteo e mi ha immediatamente colpito: è un gran professionista, legge qualsiasi cosa e in più ha un’inventiva e un calore eccezionali. A fine seminario, avevo in agenda un concerto in Romagna con il mio quartetto regolare – Gabriele Evangelista, Enrico Morello e  Francesco Diodati – e siccome i primi due non erano liberi avevo chiamato Evita e Francesco Ponticelli. A quel punto ho convocato pure Matteo: la serata è andata benissimo, ci siamo divertiti da matti e così è nato il quintetto. Allora mi sono detto: questo è il mio nuovo gruppo e oggi ho solo voglia di fare concerti con loro. Peraltro ognuno è un leader e ha un successo personale: Evita ha registrato un bellissimo album per la Tūk, «Nerovivo», e ha fatto già due o tre tournée con Dee Dee Bridgewater, e Matteo Paggi ha inciso un disco davvero notevole, «Words». Senza dimenticare Diodati e Ponticelli. Quando suoniamo insieme si crea un’alchimia perfetta.    

In relazione a questo gruppo hai parlato di isola felice e di democrazia perfetta. Possiamo approfondire il concetto?

Il concetto è legato al fatto che trovo quasi commovente vedere come questi ragazzi lavorino sui loro strumenti, leggano libri e seguano film importanti. Ma, appena esci da questa isola felice, da questo mondo ideale, ci sono le baby gang e quelli della trap, che si portano dietro un universo di violenza spaventoso. Questo per non parlare delle guerre in atto e della cosiddetta cultura woke, che detesto. Insomma, il mio è un piccolo mondo antico – per citare Antonio Fogazzaro – che mi fa bene e che mi emoziona. Quindi ho la fortuna di muovermi in un contesto meraviglioso, non  contaminato dalla bruttezza e dove si può parlare di cose belle. Per quanto riguarda invece la democrazia perfetta è una cosa che dico sempre e che è tipica della grande musica. Accade anche nell’universo della classica, penso a un gruppo come i Berliner Philharmoniker. Ma nel jazz il tutto si esalta, ognuno dà e ognuno riceve tutto quello di cui ha bisogno. Qualcosa che non esiste nella realtà, momenti sublimi e che valgono tutte le fatiche cui ti accennavo prima.

Enrico Rava Fearless Five

Fearless Five è il nome del gruppo e pure del disco. Una curiosità: come mai hai deciso di escludere questo brano, la cui prima uscita risale al 1978 e all’ECM «Enrico Rava Quartet», dalla scaletta?

Non l’ho inserito nel disco anche se lo eseguiamo spesso dal vivo: però non ho trovato il posto giusto in cui metterlo. A proposito di composizioni, vorrei dirti una cosa. Nella mia vita ho avuto sempre un rapporto conflittuale con la tromba e invece ce l’ho idilliaco con la composizione: tempo fa mi mettevo al pianoforte e tiravo fuori otto-nove brani con facilità. Poi la mia vena si è inaridita, ma non è grave. Pensa che ho depositato alla SIAE più di 140 brani: per il novanta per cento neanche me li ricordo e in gran parte li suono molto di rado. Per cui direi che di materiale ne ho in quantità. E poi i miei giovani musicisti spesso mi segnalano vecchi pezzi e, quando li riprendo, diventano  tutte le volte qualcosa di diverso.

Una cosa che mi ha colpito dell’album è la mancanza del pianoforte, che caratterizza una parte importante della tua produzione discografica, e l’uso della chitarra, strumento che tu ami molto.  

Sì, io adoro suonare con la chitarra. Dal mio esordio, «Il giro del giorno in ottanta mondi», dove alla sei corde c’era Bruce Johnson, per poi passare ai dischi ECM con John Abercrombie. Certo, il pianoforte mi piace molto, penso agli anni con Franco D’Andrea, musicista eccezionale, e a quelli con Stefano Bollani: tra me e lui c’è stato un innamoramento musicale pazzesco e abbiamo fatto centinaia di concerti in ogni angolo del mondo. Di recente, parlando sempre di chitarra, ho scoperto tante cose progressive rock grazie a mia moglie Lidia. Ho visto The Song Remains the Same, il concerto restaurato del 1976 dei Led Zeppelin, e Bohemian Rhapsody, il film dedicato ai Queen e a Freddie Mercury. In più ascolto molto i dischi degli Yes, che non avevo mai approfondito e che ho scoperto con un ritardo di decenni. Ma va bene così, sono contento alla mia età di scoprire cose per me nuove. E non è escluso che tutto questo abbia in parte influenzato quanto accade con i Fearless Five e con la logica narrativa che noi esploriamo. Ti confesso che ci sono i dischi jazz che amavo da giovane, tanti Blue Note e persino quelli di Clifford Brown che pure adoro, che oggi mi paiono invecchiati e datati. Ovviamente l’eccezione è Miles Davis: riascolto spesso «My Funny Valentine», il suo strepitoso concerto al Lincoln Center di NewYork. Lui era sempre e comunque avanti.

In questi anni, tra i tuoi tanti progetti, mi ha incuriosito quello sfociato nel cd «2 Blues For Cecil», il trio completato da Andrew Cyrille alla batteria e William Parker al contrabbasso. Ci racconti come è nata l’idea di questo omaggio ad alto tasso di improvvisazione a Cecil Taylor? È uno sguardo retrospettivo – col senno di poi – alla tua esperienza nel free, un «come eravamo» ma senza nostalgia?

L’idea è nata da Andrew Cyrille, che conosco da quarant’anni. Voleva fare un disco in duo sulla falsariga di quelli di Don Cherry e di Ed Blackwell, ma io ero restio, per cui gli ho chiesto di inserire un pianista (pensavo a Geri Allen, che poi è mancata) oppure un bassista. Poi nel 2016, in occasione di una serie di iniziative che il Whitney Museum di New York ha dedicato a Cecil Taylor due anni prima della sua morte, il pianista scomparso ha voluto che ci fossi anch’io. Così, visto che c’era in ballo questo discorso con Andrew Cyrille – che tra parentesi è stato il batterista di Cecil per tanto tempo –, è nato il progetto includendo pure William Parker, con cui io avevo già lavorato. E abbiamo fatto una serata di improvvisazione totale. Quindi, per tornare alla tua domanda, è vero: ho rifatto il free anche se in modo molto diverso da quello che suonavo con Steve Lacy, per esempio. La serata è stata bella e volevamo farne un disco per ECM, ma la registrazione non era buona. E così abbiamo inciso l’album per l’etichetta Tum Records con la quale Andrew aveva contatti. Quando abbiamo registrato il cd ero poco convinto, mi pareva che non si andasse da nessuna parte e che l’interplay non fosse al massimo. Ma riascoltandolo devo dire che l’ho rivalutato e, più che una cosa retrospettiva, una sorta di flashback, lo considero moderno e direi anche proiettato verso il futuro. È un omaggio a Taylor, ma non alla sua musica (non a caso, manca il piano). E poi suonare con Cyrille per me è un piacere immenso, era da tempo che non mi esibivo insieme a lui: mi pare dall’epoca del tour con lui Steve Lacy, Roswell Rudd, Mal Waldron e Reggie Workman dedicato alla musica di Thelonious Monk. Ho anche le registrazioni di quella tournée, che ha toccato Parigi e il Nord Europa: mi piacerebbe pubblicare un disco ma è complicato per avere la liberatoria, visto che – oltre a me – l’unico vivo è Andrew. Ormai mi trovo in un film diverso, molti cari amici e colleghi della mia generazione se ne sono andati. Penso a Dino Piana, per esempio, un amico storico che è scomparso nel 2023: io e lui ci sentivamo tutti i giorni, parlavamo almeno un’ora al telefono e ammetto che mi manca molto.

Quali sono i cinque dischi che consiglieresti per conoscere il meglio di Enrico Rava?   


Sicuramente metterei «Enrico Rava Quartet». Poi «The Pilgrim and the Stars», registrato tre anni prima sempre per ECM. Quindi «Rava Carmen», del 1995 per Label Bleu, «Easy Living» (ECM, 2003) e anche questo nuovo «Fearless Five». E tuttavia ce ne sono anche tanti altri che amo, per esempio quello con Fred Hersch del 2022, «The Song Is You». Tra l’altro Manfred Eicher mi voleva far registrare anche un secondo album con lui: purtroppo, però, i tempi di ECM sono sempre molto lunghi, troppo per me. E questo è il motivo per cui negli anni Ottanta avevo smesso di registrate con Manfred, dato che avevo tanti altri progetti nel cassetto. Invece con Label Bleu sono riuscito a fare tutto molto più velocemente, e lo stesso vale per i lavori con la Soul Note di Giovanni Bonandrini.

Ci illustri i tuoi progetti per i prossimi mesi sia a livello concertistico sia sul piano discografico?   


Di progetti al momento non ne ho. Una volta facevo fino a ottanta concerti all’anno, oggi al massimo arrivo a due o tre al mese: insomma, ho chiuso con i viaggi intercontinentali, dato che in passato ho dovuto cancellare molti impegni per problemi di salute. Insomma c’è un tempo per ogni cosa e ne sono consapevole. Quindi il mio desiderio oggi è portare avanti il lavoro con il mio nuovo gruppo di giovani e fare concerti insieme a loro anche nella grandi capitali europee. Penso ad Amsterdam, che è un posto davvero speciale, dove bisogna assolutamente andare perché è molto stimolante e il pubblico mi piace. Oppure a una metropoli come Berlino, che è un altro luogo chiave, a mio avviso. E poi con i Fearless Five mi piacerebbe registrare a suo tempo pure un secondo album. In più ho il desiderio di fare qualcosa insieme a Vanessa Tagliabue Yorke, che trovo una cantante e una musicista davvero geniale.

Enrico, nonostante il passare del tempo, a sentirti parlare sembri sempre il ragazzo hippy e con i capelli lunghi di una volta…

Ma io sono un ragazzo, dentro! Il problema è fuori…  

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