Andrea Grossi: Axes

Parliamo col giovane ma già richiestissimo contrabbassista, uno dei musicisti di punta del nuovo jazz suonato in Italia (ma non solo)

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L’uscita del nuovo disco del Blend 3, «Axes» (posto in evidenza tra i dischi del mese di maggio), che – oltre a Michele Bonifati alla chitarra e Manuel Caliumi alle ance – vede la presenza del batterista Jim Black, ha portato alla ribalta il leader del gruppo, il giovanissimo contrabbassista Andrea Grossi. Con lui, che ne è a pieno titolo un rappresentante, abbiamo discusso di alcune tematiche legate all’emersione di una valorosa «meglio gioventù» del jazz italiano e, naturalmente, della sua storia personale, della sua musica e dei suoi progetti.  

Andrea, vuoi brevemente raccontarti ai lettori? 

Nasco in un famiglia piena di musica e dischi di tutti i generi, ma in cui nessuno è musicista. A quattordici anni inizio a suonare il basso elettrico, folgorato da un video di Roger Waters, e frequento assiduamente lo studio di un amico di famiglia. Con i suoi figli fondo una rock band e a sedici anni mi ritrovo come insegnante Enea Coppaloni con cui inizio a studiare jazz. Inizio così anche ad appassionarmi al trio di Bill Evans e ai Quest, e il basso elettrico comincia a starmi un po’ stretto. A diciannove anni, dopo la maturità, decido di iscrivermi al conservatorio per studiare contrabbasso. Scelgo Parma e Roberto Bonati, la cui musica mi aveva incuriosito molto. Con Bonati instauro un bellissimo rapporto di amicizia, che prosegue ancora oggi. Mi insegna tanto, lasciandomi libero di esprimermi in modo personale. Parallelamente ai primi anni di conservatorio inizio a frequentare concerti e musicisti che mi fanno scoprire il free jazz (Daniele Cavallanti) e l’improvvisazione radicale (Nino Locatelli e la Tai No-Orchestra). Alberto Tacchini, anch’esso mio docente, mi fa ascoltare il disco «ARC» di Corea, Holland, Altschul, che diventa un’ossessione e mi permette di scoprire Anthony Braxton, Sam Rivers, il disco «Conference of the Birds» di Holland e il trio di Paul Bley. Nel frattempo mi appassiono anche alla musica di Schönberg, Webern, Messiaen, Morton Feldman e tanti altri. Da qui è un continuo cercare e ricercare musica e musicisti, vecchi e nuovi, che stimolino la mia fantasia e la mia fame di conoscenza. Negli stessi anni lavoro molto in solo con la danza contemporanea, sviluppando un linguaggio più astratto, concentrato sulla relazione suono-gesto. In anni più recenti mi sono riavvicinato al rock e ho approfondito molto anche come performer la musica contemporanea, collaborando con gruppi storici come il Divertimento Ensemble di Sandro Gorli. Oltre al diploma in contrabbasso jazz, nel 2022 ho terminato anche un biennio in composizione jazz. Insomma, il mio è stato ed è un percorso non troppo lineare, forse anche un po’ bulimico, ma credo che se non fosse così non sarei io e non avrei il fuoco per fare ciò che faccio ogni giorno.

Andrea Grossi

In questo percorso, oltre agli insegnanti, ci sono state figure di particolare riferimento? 

Il rapporto con Bonati mi ha portato a conoscere molto da vicino il pensiero di Giorgio Gaslini, mentre l’assidua frequentazione di Nino Locatelli quello di Steve Lacy. Pur non avendoli purtroppo mai conosciuti di persona, trovo che Gaslini e Lacy siano dei mentori per me, così come lo sono anche i musicisti che me li hanno fatti conoscere.

Quanto è forte, oggi, la necessità di studiare, per un giovane musicista? 

Penso che sotto questo punto di vista non ci siano differenze con un musicista di cinquanta o cinquecento anni fa. Un musicista ha e deve avere sempre necessità di studiare: altrimenti come potrebbero progredire il suo linguaggio e la sua estetica? È un lavoro senza fine, lo studio e la ricerca accompagnano un musicista per tutta la vita. 

Qual è la visione complessiva che ispira Blend 3? 

Blend 3 si impone di suonare come gruppo, con un proprio suono, mantenendo contemporaneamente ben riconoscibili le personalità singole. Vogliamo rigenerarci sempre, nutrirci di ogni nostro incontro. Non ci accontentiamo di suonare «bene» o di fare un bel concerto; il concerto, così come le prove e le registrazioni, sono occasioni per approfondire ulteriormente il nostro modo di suonare insieme, momenti in cui ci mettiamo alla prova e cerchiamo di trovare nuove strade, partendo dalle vecchie tracce o sabotandole. I nostri concerti in trio non hanno una scaletta, indirizziamo la musica durante le improvvisazioni verso questo o quel brano che fa parte del nostro repertorio di mie composizioni che conosciamo a memoria. 

Quindi il trio si nutre di una relazione fondata sul mutuo ascolto? 

Quando racconto queste modalità di lavoro che ti ho detto, durante o dopo i nostri concerti alcune persone mi chiedono: «E se non pensate di andare tutti e tre verso lo stesso brano, o allo stesso momento ne iniziate due o tre diversi?», il bello è proprio quello, i momenti migliori nella nostra musica sono sempre nati da quelle che sarebbero potute diventare incomprensioni e si sono invece trasformate in un attento e approfondito, quasi intimo, ascolto.

Nel corso della nostra conversazione è emerso il concetto di «poetica»… Vuoi spiegare ai nostri lettori come lo intendi? 

La mia personale poetica riguarda il concetto di approccio alla musica, qualunque essa sia. Il fare proprio quello che si sta suonando è fondamentale. La tecnica strumentale, così come quella compositiva, sviluppata al massimo delle proprie possibilità per riuscire a non creare limiti alla propria immaginazione. Tecnica in funzione della poesia… e tanto rischio. Perché la creatività diventa interessante e fondamentale, a mio parere, nel momento in cui arriva ad arricchire qualcosa di già consolidato. L’artista, per me, è un ottimo artigiano che ha imparato a guardare oltre all’utilità del suo lavoro, che ricerca una bellezza che non è solo esteriore, che si spinge nel profondo dei propri sentimenti, andando anche a guastare l’effimera superficialità del suo lavoro iniziale in favore di un indagine dell’ignoto, che eleva il tutto a un livello spirituale; allo stesso tempo però non si accontenta di questi punti di partenza per la creatività e continua a volersi migliorare nelle proprie abilità artigianali, e quindi tecniche. 

La tua musica è innervata di un costrutto «drammaturgico» che la rende un discorso compiuto… Come riesci a garantirlo? Ha a che fare con l’idea di musica (anche) come fonte di narrazione? 

Credo molto in una strutturazione quasi teatrale della musica, in cui gli eventi musicali sono elementi di una storia. La narrazione, però, non deve essere necessariamente concepita in modo lineare, come avviene, per esempio, nella maggior parte dei romanzi; può passare da una fotografia statica a una prorompente e inaspettata entrata sul palco di un teatro illuminato a giorno; da un piano sequenza scuro, lentissimo e inesorabile di un film alla lettura di una poesia d’amore. Insomma, mondi e immaginari non per forza adiacenti: mi piace stimolare me stesso e il pubblico in modo costante e inaspettato. Nella mia testa i vari brani di un disco (ma anche di un concerto) sono dei personaggi estremamente diversi tra loro che fanno parte della stessa storia, e la nostra storia è l’ascolto. Di conseguenza la scrittura dei brani spesso è molto diversa, questo fin da «Lubok», il primo disco di Blend 3. C’è sempre un bilanciamento di forze tra le varie composizioni, alcune più energetiche, altre più introspettive; alcune melodiche, altre aspre e dissonanti; alcune tonali/modali, altre atonali/timbriche/intervallari. La cosa importante è collegare questi elementi, creare una narrazione che prenda senso, indipendentemente dai singoli pezzi. L’improvvisazione è utilizzata anche per questo. Bisogna essere sempre presenti, senza precludere nessuna delle possibili direzioni, lasciandoci stupire da ciò che non possiamo controllare.

Detto dell’importanza dello studio, cosa invece dire di quella dell’ascolto? Pensi che i giovani musicisti italiani si stiano aprendo maggiormente verso questo orizzonte più ampio? Che si stia superando un concetto di «genere»? 

Quello che posso dire è che noto mediamente più apertura ai «generi» rispetto a tanti musicisti di generazioni precedenti, c’è molta meno ideologia e si è sviluppato un ascolto che permette di godere delle tante sfaccettature della musica, anzi, delle musiche. D’altro canto, in alcuni casi, questa molteplicità nasconde una superficialità che non va a scavare nel profondo e non ricerca al di fuori del mainstream dei vari generi. Credo sia molto importante non chiudersi e cercare di capire le varie prospettive di ascolto che ogni musica, ma a volte anche all’interno della stesa area musicale ogni musicista, ci richiede, prendendosi la briga di approfondire seriamente, capendo anche da dove quella specifica musica viene e che cosa ha portato dopo di se, o verso quale direzione sta andando.

Blend3

Quanto è importante avere un gruppo proprio? Credi nell’idea, che in qualche modo si sta affermando, che i gruppi possano ibridarsi trasversalmente? Oppure un principio ordinativo di tipo gerarchico rimane indispensabile? 

Il gruppo è fondamentale. Solo attraverso il lavoro di un gruppo si riesce ad arrivare ai livelli di profondità e di interazione necessari ad affrontare seriamente la musica per farla sbocciare. Quello che faccio con la scrittura è dare un carattere e un’impostazione di lavoro. Ma la musica la facciamo insieme. Anche la storia è dalla mia parte in questo, i gruppi veri, sia nel jazz sia nel rock, che lavoravano seriamente e in modo continuativo sono quelli che ancora amiamo e ricordiamo. E tutti hanno cercato un suono che fosse personale e riconoscibile. Certo, credo fermamente nel fatto che ci debba essere una direzione dettata da una sola persona, nella mia esperienza i gruppi collettivi non funzionano molto, a meno che non siano gruppi di improvvisazione libera, si rischia sempre che per accontentare tutti non si accontenta nessuno, troppi compromessi e poca unità da un punto di vista estetico/filosofico. Ma, la presenza di un leader non toglie agli altri la possibilità di muoversi liberamente all’interno e attraverso il materiale proposto. È essenziale che ogni musicista faccia propria la musica che suona, indipendentemente che sia stato lui a scriverla o qualcun altro.

Cosa puoi dirci delle dinamiche interne di Blend 3? Come è nato, e come si è sviluppato nei propri assetti? Quando, esattamente, è diventato «Andrea Grossi Blend 3»? È un gruppo modulare? 

Blend 3 è nato ufficialmente il 30 Aprile 2017 durante l’International Jazz Day, sul palco della Casa della Musica di Parma. Avevamo però già iniziato a provare insieme alla fine del 2016. Inizialmente era un trio collettivo, tutti e tre avevamo portato dei brani da studiare e provare insieme. Dopo poco, e in modo naturale, la scelta dei brani da parte di tutti ricadde sulle mie composizioni, che erano le più adatte a un trio drumless. Fu Michele a un certo punto a proporre che Blend 3 diventasse il mio gruppo, credeva che la mia visione fosse quella da seguire per noi, e così è stato. La cosa davvero ammirevole però è che Manuel e Michele non solo hanno sempre investito grandi energie, facendo sforzi e sacrifici per Blend 3, ma sostengono il gruppo esattamente come me, come se fosse il loro: il bello della nostra band è che il gruppo è di tutti, pur avendo un leader. La struttura di questo gruppo (strumento melodico, strumento armonico e basso) è sempre stata nella mia testa una trasposizione moderna di un gruppo da camera classico, come per esempio il trio violino-violoncello-pianoforte. Questo mi ha stimolato a immaginare musica che non avrei potuto scrivere con altri ensemble più tradizionali nell’ambito jazz, sfruttando maggiormente dinamiche, densità/spazio e timbro, esasperandone gli aspetti. Allo stesso tempo Blend 3, che è un nucleo molto stabile, può espandersi per rinnovarsi e ricercare nuovi stimoli ed energie. Ed è proprio per questo che sono nate le collaborazioni degli ultimi due dischi: «Songs And Poems» con la cantante Beatrice Arrigoni e «AXES» con Jim Black alla batteria. In ogni caso il trio è sempre al lavoro come tale: la dimensione drumless continua ad affascinarmi, sono molto soddisfatto dei risultati che abbiamo raggiunto ma abbiamo ancora moltissimo da scoprire.

La presenza di Michele e Manuel è imprescindibile? 

Cosa posso dirvi? Sono musicisti incredibili, amici fraterni e persone di cui invidio sensibilità, talento e lucidità. Come musicisti sono anche voci personalissime, immediatamente riconoscibili e allo stesso tempo estremamente duttili. Sempre alla ricerca di qualcosa e in costante aggiornamento. Possono trovare il modo di suonare qualunque cosa senza perdere la propria identità. Sono estremamente fortunato a poter condividere musica e amicizia con loro.

Come è venuto il coinvolgimento di Jim Black in «AXES»? 

Ho conosciuto Jim tanti anni fa, nel 2013, al ParmaJazz Frontiere Festival. In quell’occasione Jim era in tour con il suo vecchio piano trio, e io prestavo il mio contrabbasso a Thomas Morgan. Da quella serata è nata una bellissima amicizia, che ci ha tenuto in contatto negli anni. Jim è una persona estremamente solare e con un entusiasmo contagioso. Ovviamente io sono sempre stato un suo grande ammiratore: il suo modo di suonare la batteria, così unico e immediatamente riconoscibile è estremamente stimolante, sia per gli ascoltatori nel pubblico che per chi è sul palco con lui. Nel 2019, dopo un viaggio a Berlino in cui ci siamo rivisti e abbiamo a lungo parlato di musica, ho iniziato a immaginare il suo suono nella mia musica. Scrissi abbastanza di getto il brano BadAxes, l’idea era lì nella mia testa, girava. Nel 2020 il Covid ha bloccato tutto, come ben sappiamo, ma non la mia fantasia. Mi sono messo a pensare un po’ più in grande e alla fine del 2021 avevo le idee un po’ più chiare, ma altri progetti che occupavano gran parte del mio tempo e delle mie energie. Tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 finalmente ho trovato il tempo e lo spazio mentale per cominciare a scrivere la musica che avevo immaginato, sono nati così la suite Axes e il brano antifascista Dark Bloom. Nel giugno del 2023, di ritorno in macchina da un concerto a Berlino, ho fatto tappa a Berna, città in cui Jim vive e insegna attualmente, portandogli le partiture dei miei brani (scritte a mano), dedicandogliele e chiedendogli se voleva fare questa registrazione, assicurandogli che la musica che avevo scritto era pensata per lui e non per una generica batteria, senza però fare il verso alla sua musica, e che non l’avrei registrata senza di lui. La sua risposta è stata: «Let’s do it!».

Cosa possiamo fare per evitare che la fioritura di giovani talenti, in Italia, sia effimera? 

Bisogna seguire di più chi è meritevole, il nostro è un campo artistico in cui sono troppo spesso questioni extra-musicali a imporre il/la musicista del momento. La musica dovrebbe essere sempre al primo posto, indipendentemente da tutto il resto. I bandi a volte sono utili, ma in generale mi sembra che stiano strozzando e ingessando le programmazioni, mettendo dei paletti che portano a scelte praticamente imposte per avere un finanziamento, spesso a discapito della musica. Inoltre anche chi è «premiato» non viene più sostenuto una volta finito il periodo del bando e torna spesso in secondo piano, con difficoltà a proporre la propria musica. C’è una scena bella e viva in Italia, e non solo tra i giovani e giovanissimi, che andrebbe sempre di più valorizzata e, aggiungo, anche esportata. Fortunatamente ci sono anche delle belle realtà virtuose, troppe poche però se si vuole garantire la sopravvivenza dei musicisti e dei gruppi che lavorano seriamente.

Quali sono i tuoi progetti in corso e quelli nuovi? 

Ho la fortuna di essere un artista dell’etichetta WE INSIST! Records di Maria Borghi, che sta promuovendo e aiutando moltissimo i suoi musicisti, non solo producendone gli album e curandone le bellissime grafiche, ma anche promuovendoli e organizzando eventi per portarli a un pubblico sempre più vasto. All’interno dell’etichetta collaboro con il direttore artistico, Giancarlo Nino Locatelli, nei suoi gruppi chiamati Pipeline (che vanno dal trio al nonetto) e in altre formazioni, come per esempio KORR, trio di improvvisazione con il sassofonista Michel Doneda e il batterista Filippo Monico. Tra le altre cose cui tengo molto c’è sicuramente da citare il trio HIIT, con Simone Quatrana al piano e il portoghese Pedro Melo Alves alla batteria. Anche qui si tratta di un trio di improvvisazione, ma la concezione della musica è estremamente diversa. Di recente abbiamo concluso il nostro secondo tour, dopo aver inciso il disco «For Beauty Is Nothing but the Beginning of Terror» uscito l’anno scorso per Clean Feed. Siamo già al lavoro per prossimi tour e registrazioni. Ho la fortuna di collaborare con tanti gruppi e musicisti, sono grato di fare parte di gruppi storici del jazz italiano come Nexus e Udu Calls di Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi nonché della ParmaFrontiere Orchestra di Roberto Bonati. Faccio parte inoltre del trio di Luca Gusella, con Alessandro Rossi alla batteria, del Takla Jazz Trio di Filippo Monico e di due nuovi trii, uno con Tononi ed Emanuele Parrini e l’altro con Libero Mureddu e Cristiano Calcagnile. Tra i gruppi di musicisti più giovani, incredibilmente talentosi, di cui faccio parte vorrei sicuramente ricordare l’Organic Gestures Trio di Luca Perciballi, con Andrea Grillini alla batteria, e il quartetto Terrestre di Beatrice Arrigoni, con Danilo Tarso al piano e Mattia Galeotti alla batteria. Sono già al lavoro per un prossimo progetto di Blend 3 che vorrei fosse una dedica a Roberto Masotti, fotografo, artista e intellettuale cui sono stato e continuo a essere estremamente legato: un altro dei miei mentori. Tra le tante cose nel cassetto con Michele e Manuel c’è anche questo, ma tutto è ancora in fase preparatoria e quindi, anche volendo, non potrei aggiungere altro. Infine sto ragionando insieme a Gordon Grdina e Christian Lillinger per dare un seguito al trio che ci ha visti insieme sul palco lo scorso novembre. Alla fine dei tre concerti è nata una grande intesa musicale e umana, e ci piacerebbe quindi continuare questa e altre collaborazioni per condividere nuovamente il palcoscenico.

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