Jay Leonhart si racconta a Musica Jazz

Senza saperlo, avete sicuramente la casa piena di dischi in cui suona Jay Leonhart, uno dei contrabbassisti più registrati di tutta la storia del jazz (ma anche del pop, del rock, del r&b...). Ecco la sua avventurosa vicenda

- Advertisement -

Capita di frequente, a chi si occupa di giornalismo musicale, di imbattersi in musicisti che posseggono un livello di abilità strumentale e compositiva superiore alla media dei loro colleghi. Si tratta di personaggi la cui caratteristica è quella di non limitarsi a seguire le mode ma che esplorano nuovi approcci e sonorità, spesso innovando sul proprio strumento, e, molto spesso, influenzando altri musicisti. Solitamente sono rispettati e ammirati dai loro colleghi che li citano come fonte d’ispirazione, però non sono famosi. Magari hanno pubblicato album di grande valore artistico ma non di pari successo commerciale, e pur essendo coinvolti in progetti di colleghi più celebri sono per lo più misconosciuti al grosso pubblico. Negli Stati Uniti vengono indicati con il termine musician’s musician ed è un segno di massimo rispetto nel mondo della musica perché indica un artista che lascia un segno profondo anche se lontano dai riflettori del successo commerciale. Si possono fare tantissimi nomi. Il compianto J.J. Cale, per esempio, l’inventore del laid back, uno stile chitarristico «rilassato» che ha influenzato gente come Eric Clapton e Mark Knopfler o quello del chitarrista Jim O’Rourke, figura di culto per molti musicisti d’avanguardia oppure il britannico Mick Green che con il suo modo di suonare, aggressivo e ritmico, ha influenzato chitarristi come Wilko Johnson e Paul Weller. Ma possiamo continuare e citare James Jamerson al basso elettrico, architetto del suono Motown ed eroe silenzioso del soul-funk; Nicky Hopkins, uno straordinario pianista, presenza fissa nei vecchi dischi degli Stones, dei Kinks e degli Who; Terry Callier, un grande artista scomparso nel 2012 che si è mosso mirabilmente tra folk, soul e jazz, rimasto nell’ombra per molto tempo sino ad una riscoperta tardiva avvenuta negli anni Novanta del secolo scorso; Shuggie Otis, un incredibile polistrumentista – ancora tra noi,  per fortuna – che ha anticipato il suono che avrebbe reso famosi musicisti come Prince e Rick James. Sono per lo più musicisti che non hanno goduto della notorietà del mainstream, però sono stati – e lo sono tuttora – dei punti di riferimento essenziali per chi ha suonato e scritto musica dopo di loro. Nel jazz, poi, il concetto di musician’s musician è particolarmente diffuso perché molti artisti straordinari non hanno raggiunto il grande pubblico ma sono stati oggetto di una vera e propria venerazione da parte dei colleghi più famosi. Uno per tutti, il sassofonista Warne Marsh, un raffinato improvvisatore legato alla scuola di Lennie Tristano e il cui fraseggio originalissimo lo ha reso un punto di riferimento per molti. Lucky Thompson, meno noto di John Coltrane o di Sonny Rollins ma con un suono e una concezione melodica elegantissima oppure Harold Land, il cui lavoro prima con Clifford Brown e poi con Bobby Hutcherson lo ha consacrato come un vero eroe di nicchia del sax tenore. Il pianista Horace Parlan può essere considerato un musician’s musician per il suo stile percussivo reso unico da una disabilità della mano destra. Mick Goodrick, il mentore di Bill Frisell e di Pat Metheny, Sonny Sharrock, chitarrista free e pioniere della fusione tra jazz e noise, l’ingiustamente sottovalutato Jymie Merritt, contrabbassista dei Jazz Messengers di Art Blakey ma anche di Max Roach, il batterista Pete La Roca, dal tocco inconfondibile e che ha suonato con Sonny Rollins e Jackie McLean; tra quelli delle nuove generazioni il chitarrista Paul Bollenback, uno tra i più richiesti a New York. E potremmo continuare all’infinito. 

Il contrabbassista Jay Leonhart è uno di loro, un musicista straordinario per molteplici ragioni ma soprattutto perché rappresenta un elegante equilibrio tra virtuosismo, creatività e intrattenimento, una miscela che gli ha permesso di contribuire all’idioma afro-americano sia nelle vesti di strumentista sia di cantautore, diventando per molti una figura iconica e, per molti versi, inimitabile. Leonhart ha lasciato una traccia profonda nel jazz e nel pop-rock ,grazie a una sua versatilità che gli ha permesso di portare avanti i suoi numerosi progetti da leader ma anche di diventare uno dei sidemen più richiesti, almeno fino a qualche anno fa. Proveremo ad elencare i tratti salienti del suo contributo musicale. Prima di ogni cosa citeremo la sua capacità di far «cantare» il suo strumento, una dote che gli ha permesso di collaborare con grandi nomi del jazz come Gerry Mulligan, Dizzy Gillespie (anche se un aneddoto racconta che il celebre trombettista non lo riconosceva quando lo incontrava, nonostante avessero suonato insieme diverse volte), Lee Konitz, la pianista Marian McPartland, il trombonista Wycliffe Gordon, con grandi voci come Tony Bennett e Frank Sinatra, con importanti artisti pop come Sting, James Taylor, Garland Jeffreys (anche se, come leggerete nell’intervista, questo nome lui non lo ricorda, per quanto abbia contribuito con la sua cavata alla realizzazione di «Don’t Call Me Buckhweat» un notevolissimo disco che il songwriter statunitense ha pubblicato nel 1991), Donald Fagen (per la cronaca i due figli di Leonhart, Michael e Carolyn, hanno lavorato regolarmente con gli Steely Dan post-anni Ottanta). Poi, oltre a essere un eccellente strumentista, il contrabbassista è anche un cantautore ironico e intelligente, famoso per testi arguti e composizioni che mettono insieme jazz, umorismo e storytelling: provate ad ascoltare It’s Impossible to Sing and Play the Bas , presente su un live del 2015 intitolato «The Bass Lesson», in cui è sintetizzata la sua abilità di entertainer che si esprime non solo attraverso la musica, ma anche con il senso dell’umorismo e una personalità carismatica. Anche in ambito pop Leonhart ha dimostrato di saper adattare il contrabbasso a un contesto più commerciale senza perdere la raffinatezza del suo background jazzistico: in particolare in questo ambito il suo approccio è basato sulla sottrazione utilizzando linee di basso più essenziali ma sempre molto sofisticate. Tutto questo gli ha consentito di migliorare il lavoro dei cantanti e delle band con cui ha collaborato, senza sovrastare gli altri musicisti; e questa capacità di muoversi tra i generi, senza impoverire la sua personalità, ha consolidato la sua reputazione di sideman e, per ripeterci, di musician’s musician. Insomma, stiamo parlando di un fuoriclasse e di un vero professionista con una lunga storia da raccontare. E noi siamo rimasti ad ascoltarlo. Lo scorso dicembre, Jay Leonhart ha compiuto 84 anni ed è ancora in splendida forma.

Buongiorno, Mr. Leonhart. Prima di tutto è un grande onore per me avere la possibilità di intervistarla. La sua carriera di musicista  ha più di sessant’anni e l’ha fatta collaborare con molti musicisti importanti sia nel jazz sia nel pop-rock. Mi piacerebbe conoscere il suo legame con la tradizione e poi la sua storia. Com’è iniziata la sua passione per la musica?

Ho iniziato a suonare il pianoforte a Baltimora. Avevo sei anni. Il pianoforte era di mio padre, che non lo suonava bene, riusciva ad eseguire due, al massimo tre pezzi. Mio fratello maggiore era il genio musicale della famiglia: già a nove anni riusciva a suonare il boogie-woogie senza fare grossi errori. Io cercavo di imitarlo, ho iniziato così. Mio fratello si chiamava Bill, purtroppo è morto due anni fa. Ho suonato il piano frequentando una scuola di musica sino all’età di otto anni. All’epoca non riuscivo a leggere bene la musica, e fu uno dei motivi per cui abbandonai lo studio di quello strumento: con gli anni me ne sono amaramente pentito. Ricordo che una delle chiavi che mi fecero avvicinare alla musica popolare fu l’assistere allo show televisivo di Arthur Godfrey, un intrattenitore che tra le altre cose suonava l’ukulele insieme a un chitarrista italo-americano famoso a quell’epoca che si chiamava Remo Palmieri (e che aveva suonato con Dizzy e Bird, ma io certo non lo sapevo). Era un duo molto affiatato che mi colpì moltissimo: la prima volta che li vidi suonare rimasi come ipnotizzato e chiesi a mio padre di comprarmi un ukulele con il quale cercavo di accompagnare mio fratello al pianoforte. Bill non fu per niente entusiasta, ma dovette subire la mia scelta che però in qualche modo limitò relegandomi al ruolo di accompagnatore. Io volevo essere un solista ma con l’ukulele potevo fare ben poco, e del resto avevo nove anni. Dall’ukulele passai a suonare la chitarra, sempre come accompagnatore, e in seguito mi dedicai al banjo, uno strumento che convinse mio fratello a darmi più spazio perché riuscivo a suonarlo meglio degli altri due. A quel punto già suonavamo in giro accompagnando altri musicisti, fino a quando a tredici anni sentii Chet Atkins suonare la chitarra utilizzando la tecnica fingerstyle, che poneva l’accento sull’utilizzo dei bassi. Quel sound mi colpì a tal punto che decisi di rivolgere la mia attenzione al basso, perché mi sembrava più facile da suonare rispetto agli altri strumenti con i quali mi ero cimentato fino ad allora. Un musicista importante che ascoltai e seguii in quel periodo fu Bill Goodall, un contrabbassista di New York che si trasferì a Baltimora e suonava Dixieland, il primo genere musicale che mi fece avvicinare allo studio del jazz. Lo seguivo come un’ombra fino a quando una sera si ammalò e io presi il suo posto: già da allora mi resi conto che suonare il contrabbasso mi riusciva molto più semplice, era qualcosa di quasi naturale per me, riuscivo a suonarlo senza alcuno sforzo. Evidentemente la pratica della chitarra, del banjo e dell’ukulele avevano rappresentato per me una sorta di gavetta che aveva favorito l’approccio al contrabbasso. Da quel momento divenni un contrabbassista, un ruolo nel quale mi crogiolavo pensando di essere un fuoriclasse. Solo che un giorno ascoltai Ray Brown e in quel momento mi accorsi di non aver capito quasi niente: il contrabbasso non era uno strumento semplice, o così semplice come avevo pensato fino ad allora. Non mi arresi, tutto il contrario, fui stimolato ad approfondire lo studio dello strumento e andai a lezione proprio per questo. Iniziai a suonare Dixieland e Swing in una band di musicisti molto bravi che si chiamava Peer Five e si ispirava allo stile dell’orchestra di Count Basie. Conservo ancora delle registrazioni di quel periodo, e quando le ascolto resto sempre colpito dalla loro maestria e dal fatto che quella musica – era la prima metà degli anni Cinquanta – riesca ancora ad emozionarmi. Andavo a scuola di giorno, anche se in realtà la mia vera palestra era rappresentata dalle gigs che in quel periodo facevo di notte. Andai avanti così sino a quando, a vent’anni, mi iscrissi al Berklee College di Boston: lì iniziò la mia carriera di musicista professionista. Quindi Ray Brown è stato il contrabbassista che ha cambiato il mio modo di concepire lo strumento: quel che mi colpiva, quando lo vedevo suonare, era il fatto che tutta l’attenzione, anche quando predominavano altri strumenti – per esempio il pianoforte – era catalizzata su di lui. Aveva una presenza scenica straordinaria. Devo dirti che ho studiato anche con contrabbassisti di estrazione classica che hanno contribuito non poco allo sviluppo della mia tecnica strumentale. Sono passati sessant’anni da allora. Eccomi qui.

Non ho tutti i suoi dischi da leader, però ci sono alcuni album della sua discografia che mi hanno colpito più di altri e sono «The Double Cross» (1988), «Four Duke» (1993) con Joe Beck, Gary Burton e Terry Clarke dedicato alla musica di Duke Ellington e «Great Duets» (1999). Tra tutti i dischi che lei ha registrato da leader quali ricorda con maggiore piacere e perche? 

Ho un bellissimo ricordo di «Four Duke», è stato realizzato davvero bene e ancora oggi non capisco come mai non abbia ricevuto i consensi che si meritava. Ricordo l’intro di In a Mellow Tone, fantastica, eravamo io e Terry Clarke… Che swing! Un disco che ricordo con piacere è quello in duo con la pianista Tomoko Ohno, «Don’t You Wish». Mi piacciono molto i lavori con il New York Trio, con Bill Charlap al pianoforte e Bill Stewart alla batteria, incisi per la giapponese Venus. C’è un album che ho inciso da non molto e che si intitola «Joy», in trio con Tomoko Ohno e Vito Lesczak alla batteria, un altro che si chiama «Cool» con Ted Rosenthal al piano e il chitarrista Joe Cohn, il figlio di Al, col quale ho inciso anche «Fly Me to the Moon» dove c’era Benny Green al piano. Anche questi ultimi tre sono dischi che ricordo con piacere; però, devo dirti, non mi soffermo molto a riflettere su tutti gli album che ho inciso… Mi sa che non li ricordo neanche tutti!

Tra tutti i musicisti con cui ha suonato, quali sono quelli che hanno lasciato un segno nella sua vita?

Tanti. Davvero. Phil Woods per esempio, anche se non ho suonato con lui a lungo, però ogni volta che mi è capitato è stata una esperienza molto importante. Poi mi è piaciuto molto lavorare con Jon Gordon, un contraltista molto bravo. Comunque se parliamo di importanza devo soffermarmi ancora su Ray Brown, soprattutto da quando mi resi conto che non avrei mai potuto raggiungere il suo livello: ovviamente ho fatto di tutto per imitarlo e fare tutto ciò che ha fatto lui, ma figuriamoci se ci sono riuscito. Poi Oscar Peterson, l’orchestra di Duke Ellington che ho ripreso ad ascoltare con attenzione negli ultimi tempi, Paul Chambers per la sua capacità di suonare rilassato e per la sua tendenza a stare indietro sul tempo. Anche lui non sono mai riuscito a imitarlo, forse perché con la maturità e al contrario di quello che mi accadeva in gioventù non ho più suonato «sballato»… Paul Chambers che ho conosciuto bene, la maggior parte delle volte era fumatissimo, usava droghe leggere, e credo che questo influenzasse la sua particolare inclinazione a stare indietro sul tempo. La sua collaborazione con Miles Davis è per me uno dei fatti più importanti di tutta la storia del jazz. Poi ancora Wes Montgomery, popolarissimo a Baltimora ai miei tempi, in particolare con il suo organ trio, Melvin Rhyne all’organo e Paul Parker alla batteria: la prima volta che li sentii dal vivo tornai ad ascoltarli per cinque sere di fila, non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie per tutta la bravura che letteralmente grondava dal palco. In quei cinque giorni non notai da parte di Wes non dico un solo errore, ma neanche una leggerezza o una distrazione. Non riuscivo a spiegarmi come potesse essere possibile una cosa del genere. Ancora: John Bunch, un gran bel pianista, e Bucky Pizzarelli, con i quali ho suonato in trio col nome Manhattan Swing, sono stati molto importanti per me. Ho suonato con loro, in particolare con Bucky, una delle migliori chitarre ritmiche che ho conosciuto, per oltre vent’anni. Ovviamente non posso dimenticare l’influenza che Louis Armstrong ha avuto su di me. Tra noi colleghi girava questo detto: «Se un bassista riuscisse a riprodurre con le sue linee gli assolo di Louis Armstrong non dovrebbe preoccuparsi di niente». Miles Davis è stato molto importante, mentre Coltrane non mi faceva impazzire soprattutto agli inizi, troppo irruento e anche impreciso per i miei gusti. Con l’età e l’esperienza mi sono ricreduto e l’ho giustamente rivalutato, imparando ad apprezzarlo.

Quindi abbiamo scantonato, perché citando i musicisti che le hanno lasciato un’impronta forte lei adesso mi sta parlando delle sue influenze musicali. Mi piacerebbe che me le dettagliasse meglio, sia come bassista sia come compositore e anche cantante. So che le piace cantare…

È vero, mi piace molto cantare. Ho tratto molta ispirazione da Dave Frishberg, che suonava il piano e cantava, andavo spesso alle sue gigs nel Village. Ricordo che suonava spesso all’Half Note un jazz club che si trovava a Soho in Hudson Street all’angolo con Spring Street e che adesso è chiuso. Da ragazzino cantavo in un coro ma mi cacciarono perché dicevano che fossi stonato: ovviamente non lo ero, ebbi solo problemi con l’insegnante. Molti musicisti non strettamente jazz mi hanno influenzato: gli Steely Dan e soprattutto Donald Fagen, Joni Mitchell e molti altri. Mi piace molto anche scrivere canzoni, e da questo punto di vista Cole Porter ha avuto una forte influenza su di me. Come bassista devo citare, e ripetermi, Ray Brown e Paul Chambers, e poi in tempi più recenti Michael Moore, John Patitucci, tutti i contrabbassisti che hanno suonato con Bill Evans – anche se, a proposito di questi ultimi, io non ho mai suonato in quello stile – Joshua Bell, noto violinista classico, di cui apprezzo la maniera di utilizzare l’archetto: te lo cito perché ho cercato di utilizzare sul contrabbasso la sua tecnica sul violino. Poi il violoncellista Yo-Yo Ma, con cui ho suonato alla Carnegie Hall insieme a Terry Clarke. Sono, come tutti, il risultato delle influenze più diverse che coinvolgono diversi mondi, il jazz ma anche la musica classica.

Lei è un uomo di ottantaquattro anni, quindi un veterano che ha vissuto nel mondo della musica nei suoi anni migliori. Oggi con l’avvento delle piattaforme e della musica in streaming sembra che si stia perdendo qualcosa. Lei cosa ne pensa?

L’hai detto tu. Sono un uomo di ottantaquattro anni, quindi il meno indicato per poter esprimere un’opinione su questa cosa che mi stai chiedendo. Mi sento solo di dirti che a me dispiace che molti non abbiano potuto ascoltare il jazz e gioirne come è capitato a me e a quelli della mia generazione. Oggi c’è tutto questo gangsta rap che imperversa e che sta cercando di sostituire quella che per noi è stata la poesia. Non è la stessa cosa, è business, e questa gente tenta a tutti i costi di tirarci fuori dei soldi, ma tutta la preparazione che a noi è costata sacrifici per imparare a suonare il jazz, il soul, il r&b, non esiste più. I campionatori e tutte le diavolerie che si utilizzano oggi per fare musica hanno ammazzato la musica stessa. Cosa vuoi che ti dica? Le piattaforme, la musica in streaming sono l’estremizzazione di tutto questo. Cosa accadrà in futuro? Io molto probabilmente non lo vedrò. Però mio nipote, il figlio di Carolyn e del sassofonista Wayne Escoffery – che ama e suona diversi tipi di generi musicali – utilizza solo il computer per fare musica nonostante provenga da una famiglia di musicisti. Posso solo dirti che quando ha sentito per la prima volta Oscar Peterson in radio se n’è uscito con l’affermazione: «Questa è bella musica!». Ne deduco che dovremmo far ascoltare un po’ di musica del passato a quelli delle nuove generazioni per educarli ed evitare la catastrofe alla quale stiamo assistendo.

Una delle cose che mi ha impressionato della sua carriera è l’enorme numero di musicisti con i quali ha collaborato. Facciamo un piccolo gioco: io le faccio i nomi di alcuni musicisti e lei mi dice cosa ricorda di loro e se c’è qualche aneddoto particolare che val la pena raccontare. È d’accordo? 

Certamente.

Frank Sinatra.

Ora che non c’è più, quando ne parlo e sento la sua musica provo una grande ammirazione per lui. Anche se è una cosa che percepisco solo ora, prima non me ne rendevo conto. Ho lavorato un po’ con lui e ci incontravamo quando veniva nei club a sentire le nostre serate, mi sentì suonare, gli piacqui e subito mi ritrovai con lui sul palco della Carnegie Hall. La cosa buffa era che nei club avevamo un rapporto amichevole, ma quando suonavo nella sua band non mi rivolgeva neanche un saluto, era completamente distante e non solo con me, con tutti i componenti della band. Era amichevole al di fuori del lavoro, mentre quando si lavorava era esattamente il contrario. Sul palco dovevi preoccuparti soltanto che la musica funzionasse, niente altro.

Bucky Pizzarelli.

Uno dei miei musicisti preferiti. Ho avuto con lui un lungo periodo di collaborazione, quasi più di un ventennio. Ho formato con lui e John Bunch un trio del quale vado molto fiero, con loro prima di me suonava Bob Haggart che sostituii perché, data l’età, non poteva più viaggiare. Adoravo il loro modo di suonare e Bucky era un uomo veramente gentile e un grande leader, con un timing e un senso dello swing al di fuori del comune. Con loro ho suonato molto in giro, anche in Europa, viaggiavamo in Mercedes, le nostre gigs venivano pagate molto bene e ogni tanto bevevamo del buon whiskey. Cosa volere di più? Ho un gran ricordo di lui.

Jim Hall.

Ho iniziato a lavorare con lui per sostituire Ron Carter. Cominciai suonando il basso elettrico. In quel periodo ero molto impegnato a registrare e nello stesso tempo nacque mia figlia – era il 1971 – e Jim, cui piaceva il mio modo di suonare, mi propose di seguirlo in un lungo tour di concerti. Dovetti rinunciare e mi dispiacque molto, perché Jim Hall era uno dei più grandi chitarristi dell’epoca (ma anche delle altre). Ancora oggi, quando ascolto i suoi dischi, mi rendo conto di quanto fosse geniale. Jim apprezzò la mia decisione di restare a casa per stare con mia moglie e mia figlia e questo ci permise anche di costruire un bel rapporto di amicizia con lui e sua moglie Jane, che in quel periodo era anche la sua manager e che condivise la mia decisione. 

Lee Konitz.

Era molto simpatico e un grande musicista. Ho suonato molto con lui ma solo a New York, non siamo mai andati in tour insieme. Totalmente originale nella sua espressività musicale.

Gerry Mulligan.

Mi utilizzava spesso in studio per riregistrare alcune linee di basso che secondo lui non erano andate bene con altri bassisti. Per cui chissà quanti nemici mi sono fatto! Gli piaceva la mia intonazione e il fatto che fossi sempre intonato e in sintonia con il resto della band. Ho fatto pochi concerti con lui, per lo più collaboravo in sala di registrazione. Era molto educato e non ho mai avuto modo di sperimentare le intemperanze che lo avevano reso celebre nel mondo del jazz soprattutto quando era in tour. È la stessa cosa che ho provato con Buddy Rich: tutto quel che si raccontava su di lui io non ho mai avuto modo di sperimentarlo.

Phil Woods.

Era magico. Te l’ho già detto. Con lui ho suonato dal vivo sostituendo Steve Gilmore, ed era un contatto mediato da Bill Charlap. Però non ho mai fatto dei tour con Phil e non ho mai registrato nulla. Era molto simpatico e… Cosa vuoi che ti dica? Era Phil Woods.

Thad Jones e Mel Lewis.

Fantastico, quel periodo. Che tempi! Non ho suonato molto con la big band ma soprattutto con il quartetto. Ho amato moltissimo la loro musica, la loro maniera di scrivere i voicings dei fiati e Mel era un musicista naturalmente dotato, straordinario.

Tony Bennett.

Iniziai a lavorare in tour con lui nel 1972-1973, feci parte della sua band per circa due anni e mezzo e poi da un giorno all’altro mi licenziò senza alcuna spiegazione – probabilmente pensò che avessi a che fare con storie di droghe commettendo un errore perché ne avevo sì fatto uso, ma solo da giovane – per poi richiamarmi negli anni Ottanta per registrare un disco. La cosa si è ripetuta negli anni Novanta e all’inizio di questo secolo. Era un ottimo intrattenitore, anche molto simpatico, faceva ridere ma non raccontando barzellette o fatti inventati, raccontava cose realmente accadute e quando te le raccontava scatenava momenti di ilarità. Era un artista vero e in più dipingeva: conservo ancora un paio di disegni realizzati da lui.

Sting. 

Con lui sono andato molto d’accordo fino al momento in cui, in occasione un concerto alla Carnegie Hall, per un fraintendimento arrivai con mezz’ora di ritardo rispetto all’orario fissato, causando un momento di grande imbarazzo. Sul palco c’erano Elton John ed altri personaggi piuttosto noti. Fu purtroppo la fine della nostra collaborazione.

Carly Simon.

Non ho lavorato tantissimo con lei, ho solo registrato una parte di un suo disco, «My Romance» del 1990. Lo stesso è successo con James Taylor con cui ho registrato un solo pezzo, Valentine’s Day, contenuto su «Never Die Young». Ricordo Carly come una persona molto dolce.

Kenny Barron.

Un musicista superlativo. Ho inciso diversi dischi con lui ed è stato un onore perché il suo bassista di riferimento era Ray Brown. Il nostro rapporto di collaborazione iniziò perché fui io per la prima volta a chiamarlo. Kenny mi serviva in un mio progetto e lui ricambiò. Per quel che mi riguarda cercavo di suonare con lui ogni volta che potevo, anche in piccoli concerti, trasferendogli tutto il cachet, perché suonare con lui rappresentava un momento di crescita e anche di prestigio.

Terence Blanchard.

Non lo conosco benissimo, sono soltanto stato in Italia con lui. In quell’occasione abbiamo parlato molto e mi colpì perché dimostrò di conoscere molte mie canzoni e di apprezzare il mio modo di suonare il contrabbasso. Un ottimo musicista. Non penso di averci suonato abbastanza.

Roger Daltrey.

Roger chi?

Daltrey, era il cantante degli Who, una famosa rock band inglese.

Non ci ho mai suonato [e invece appare nelle note di copertina di «Rocks in the Head«, un album del 1992 in cui suona il contrabbasso, ndr]

Queen Latifah

Ho registrato un disco con lei, «The Dana Owens Album». È esattamente come sembra, simpatica, dolce, affabile. È una donna di successo e se ne compiace, e comunque non si è montata la testa, molto piacevole. In quella occasione mi sono proprio divertito.

Donald Fagen.

Un amico molto speciale. Mio figlio, trombettista, ha lavorato con gli Steely Dan più o meno dal 1996. Mi dispiace per la morte di sua moglie Libby Titus, avvenuta circa un anno fa. Libby era stata una brava cantante, da giovane. Donald è ancora a pezzi, ma credo che presto tornerà a incidere e a suonare in giro per il mondo. Ci siamo conosciuti in occasione di un concerto in cui suonavo con mia figlia Carolyn, che lo colpì al punto da invitarla a entrare negli Steely Dan come corista. Siamo solo amici, non ho mai suonato con lui anche perché è abituato a servirsi di top players come Will Lee, un fuoriclasse al basso elettrico: strumento sul quale io non posso competere. So che apprezza la mia musica come io la sua, e siamo uniti da un forte legame di amicizia.

Wycliffe Gordon.

Eravamo molto amici, poi si è trasferito in Georgia ed è sempre molto indaffarato: non riusciamo più a vederci e a suonare insieme. È così occupato che se vuoi suonare con lui devi prenotare un anno e mezzo prima!

Hank Jones.

Un uomo dal grande cuore oltre che, ovviamente, un super-musicista. Ricordo con simpatia che, quasi ogni volta che dovevamo suonare, il concerto veniva annullato all’ultimo minuto perché lui veniva ingaggiato per una gig più prestigiosa! Una volta dovevamo suonare in trio con Bucky Pizzarelli al Dizzy’s e lui ci piantò durante il soundcheck perché aveva avuto un ingaggio migliore. Ma Hank poteva fare quel che voleva, gli volevamo troppo bene. Una volta stavamo suonando con un gruppo il cui batterista aveva tutto tranne che il senso dello swing e non riusciva ad entrare in sintonia con me. Ricordo la faccia di Hank. Credo lo volesse picchiare… 

Garland Jeffreys.

Non mi ricordo, chi è?

Un songwriter di Brooklyn molto famoso dalle tue parti…

Non credo di averci mai suonato [però Leonhart è elencato nelle note di copertina di «Don’t Call Me Buckwheat» del 1991, ndr]

Mark Murphy.

Ho inciso un album e fatto diversi live con lui. Mi piaceva. A volte era un po’ pasticcione, con la sua maniera di cantare un po’ scomposta, però mi piaceva. È stata una bella esperienza suonare con lui.

Anita O’Day.

Ho iniziato a suonare con lei verso la fine degli anni Settanta in un club sulla Seconda Avenue del quale non ricordo il nome e alla Carnegie Hall. In quel periodo era sobria e il nostro rapporto era fantastico, mi ha raccontato molto della sua vita straordinaria che andrebbe descritta in un libro. Ma credo che lo abbia già fatto lei. Lo sapevi che da giovane si esibiva in maratone di danza? Una volta ha ballato con il suo partner per trentasei ore di seguito. Roba da non crederci. Poveretta, non versava in grandi condizioni economiche, ricordo che spesso dormiva nel bus con il quale andava in giro a suonare. A un certo punto non aveva neanche una casa.

Houston Person.

Che swing! Che suono! E che persona! Davvero amabile. Mi sono sempre divertito con lui.

Mel Tormè.

Abbiamo collaborato per dieci anni. Era un po’ stressante lavorare con Mel, a volte addirittura alienante perché come sapeva fare tutto lui non lo sapeva fare nessuno, però era un grande cantante e compositore (e un batterista da paura), e con me fu sempre gentile e simpatico. Il suo Born To Be Blue è uno dei miei pezzi preferiti.

Paul Simon.

Ho registrato una sola volta con lui e l’ho conosciuto a malapena.

Fred Wesley.

Grande trombonista, davvero molto simpatico.

Ogni musicista che ha raggiunto dei risultati con la sua professione deve mediare la sua passione e la sua dedizione per la musica con scelte responsabili che fanno parte della vita di ogni uomo. Lei com’è riuscito a bilanciare tutto questo?

Devo ammettere che questo è fondamentale, e lo metterei sullo stesso livello dell’importanza di suonare. Bisogna dare serenità alla propria famiglia, assicurarle un posto in cui vivere, dar loro da mangiare, far andare a scuola i propri figli. Amo la musica e l’ho amata fino a oggi, ma per me viene dopo tutto ciò di cui abbiamo parlato. Ti racconto una piccola storia: ho suonato con Liza Minnelli per un lungo periodo, e ricordo un lungo tour per il quale sarei dovuto stare lontano dalla mia famiglia per parecchio tempo. Allora chiamai mia moglie e le chiesi di raggiungermi con i ragazzi, di modo che finissero il tour insieme a me. Sapevo che questo mi sarebbe costato dal punto di vista economico – era implicito che avrei dovuto sobbarcarmi le loro spese – però pensai che fosse opportuno farlo. Rimasi poi incredibilmente stupito dal fatto che, alla fine del tour, il management di Liza Minnelli si era preoccupato di coprire anche le spese della mia famiglia che ricordo ammontavano a circa diecimila dollari dell’epoca. Un gesto che apprezzai moltissimo ed è uno dei ricordi belli della mia vita. 

Quel che mi hai chiesto è molto importante per me, mi è capitato di rifiutare ingaggi con Jim Hall, con Freddie Hubbard, con Les McCann, con André Previn e molti altri pur di restare con la mia famiglia. E credo sia stato uno dei motivi per cui siamo ancora legatissimi, anche se magari si è sparsa tra alcuni musicisti la voce che non potevo essere ingaggiato in tour per lunghi periodi. Al contrario, gente come Ray Brown, John Patitucci, Dave Holland o Bill Evans ha messo sempre al primo posto la carriera e ha fatto scelte diverse. La vita è sempre il risultato di scelte che vanno bilanciate.

Qual è stata la cosa più bella che le è capitata nella vita?

Come uomo, il fatto di aver incontrato mia moglie e di aver avuto dei figli fantastici. È stata un’esperienza che mi ha stabilizzato, e se sono ancora qui lo devo a loro. Una delle cose più belle che ricordo da musicista è stata una volta nel portico della nostra residenza estiva a Washington DC, stavo suonando con Ray Brown, Oscar Peterson e Herb Ellis, il quale mi faceva dei segni di approvazione che riguardavano il mio modo di suonare. Fu la prima volta che suonai con un musicista famoso. Avevo solo quindici anni e gli piacque la maniera in cui lo accompagnavo, ricordo quel sorriso a trentadue denti che mi faceva capire quanto apprezzasse la mia musicalità. Ho molti bei ricordi, qualcuno brutto come quella volta in cui fui cacciato dal coro perché ero stonato oppure quando in un libro l’autore mi citò sfavorevolmente perché non capiva come mai un bassista facesse anche il cantante.

E la cosa peggiore che le è capitata? 

La volta che ti ho raccontato prima, in cui per colpa del mio ritardo persi la collaborazione con Sting, alla quale tenevo. Fu davvero increscioso.

Ha ancora un sogno che le piacerebbe realizzare?

Vorrei lavorare di più con il mio trio attuale, venire a suonare in Europa e in Italia, girare il mondo. Ho ottantaquattro anni e vorrei che la mia musica, che conservo ancora in maniera non proprio ordinata, restasse nel tempo. Poi vorrei continuare a suonare il contrabbasso sino a quando sarà possibile.

 

- Advertisement -

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti subito alla nostra newsletter per ricevere le ultime notizie sul JAZZ internazionale

Autorizzo il trattamento dei miei dati personali (ai sensi dell'art. 7 del GDPR 2016/679 e della normativa nazionale vigente).