Bokani Dyer: Radio Sechaba

Per concludere al meglio la sezione che abbiamo dedicato alla scena sudafricana, vi presentiamo un artista emergente e destinato al grande successo internazionale

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Bokani Dyer è, con Nduduzo Makhathini, uno degli artisti emergenti della scena sudafricana. Ha appena pubblicato «Radio Sechaba» per la Brownswood, disco in cui racconta un universo musicale sfaccettato pieno di influenze diverse, con il jazz a sostenere un groove fortemente intriso di quella poliritmia tipica del continente dal quale proviene. È un disco profondo, in cui il pianista si concentra sui temi della nazione (sechaba) e dell’unità. Figlio d’arte (suo padre Steve è un sassofonista) nasce nel 1986 a Gaborone, Botswana, in una comunità che viveva in esilio a causa dell’apartheid. Il titolo di questo disco non è casuale e riecheggia quello di Radio Freedom, la voce dell’African National Congress. Uno dei brani dell’album, Ke Nako (significa «Ora è il momento») è il brano di apertura di una compilation apparsa sul mercato all’inizio del 2021 sempre per la Brownswood di Gilles Peterson e intitolata «Indaba Is», in cui si presenta la scena jazz di Johannesburg di questi anni. «Radio Sechaba» è una delle cose migliori di questo inizio d’anno e di Bokani Dyer sentiremo ancora parlare a lungo. 

Quanti anni hai, da dove vieni e dove vivi?

37, vengo dal Sudafrica. Sono nato nel Botswana e sono cresciuto tra il Botswana e la Repubblica Sudafricana. Mio padre viveva in Sudafrica e mia madre nel Botswana. Adesso abito a Johannesburg.

Ho sentito il tuo disco, «Radio Sechaba». Perché questo titolo? Che significa?

Nella mia lingua Sechaba vuol dire nazione. Il disco l’ho chiamato così perché è la mia maniera di fare qualcosa che serva a unire i popoli, le varie etnie del mio Paese. Se conosci la storia del Sudafrica sai anche che nel mio paese ci sono stati parecchi conflitti tra le varie etnie e credo sia arrivato il momento di parlare del problema che da tempo affligge questo luogo, la separazione tra i popoli. Parlandone spero di poter dare un contributo al consolidamento di un concetto, quello di «nazione», che per noi vuol dire unità, un qualcosa che se si consolidasse renderebbe la vita migliore a molti di noi. Se cominciassimo a pensare a un’idea di comunità e riuscissimo a concretizzarla sarebbe un grosso passo in avanti per tutti.

Proponi una miscela di suoni che provengono da un certo tipo di musica occidentale, il jazz per esempio, ma anche – e penso a brani come Move On – dalle tradizioni della tua terra

Ho sempre cercato di far convergere le mie varie influenze in un discorso musicale il più ampio possibile. A volte mi è capitato di pensare di aver messo troppa carne a cuocere, ma alla fine mi sono lasciato andare ed è venuto fuori quello che sono realmente o che credo di essere: un musicista aperto che guarda al mondo che lo circonda.

I musicisti coinvolti nel tuo disco sono tutti sudafricani. C’è una scena jazz molto vivace in questo momento in Sudafrica. 

La scena musicale sudafricana legata al jazz è sempre stata molto fiorente e attiva, e l’idioma afro-americano è stato un ponte che ha permesso di connettere tra loro musicisti di estrazione anche molto diversa. In più il jazz ha permesso una connessione dei musicisti sudafricani con quelli di altri paesi anche non africani. Ed è per noi una cosa molto importante, perché sembra che il mondo stia guardando al Sudafrica come a un paese interessante. Insomma il mondo si sta accorgendo di noi ,e finalmente il fatto che questo Paese abbia con il jazz un legame forte non è più legato alle cognizioni di pochi appassionati ma si sta diffondendo anche presso un pubblico più generalista. Sin dagli anni Quaranta la scena musicale sudafricana ha espresso musicisti importanti che nel jazz sono riusciti a consolidarsi una fama che, per alcuni, ha travalicato i confini nazionali. Spero che tutto questo abbia creato i presupposti per creare lavoro, non più localizzato, ai musicisti sudafricani.

Bokani Dyer

«Radio Sechaba» è stato registrato per la Brownswood, etichetta che ha lavorato molto bene per molto tempo nello scoprire o portare alla ribalta nuovi artisti molti dei quali sono africani. Come sei entrato in contatto con loro?

Un paio di anni fa la Brownswood ha fatto uscire sul mercato una compilation, «Indaba Is», una specie di resoconto dello stato dell’arte nel quale si trovava il jazz sudafricano in quel periodo, quello del lockdown. Uno dei miei brani, Ke Nako, è stata scelto come apertura di quella raccolta ed è così che sono entrato in contatto con loro.

In Sud Africa c’è il jazz, ci sono le tue radici, ma c’è anche un tipo di musica un po’ più spensierata suonata per lo più per intrattenere la gente. Mbaqanga. Ha qualcosa a che vedere con quello che fai tu?

Mio padre era un sassofonista e suonava spesso questo tipo di musica, che conosco molto bene. Qualche volta la suoniamo, anche se quel sound non fa parte di quelli utilizzati per dare corpo al mio disco.

Sei un pianista. Parlami delle tue influenze musicali, come pianista ma anche come compositore…

Come pianista sono tantissime, anche se ho cominciato a suonare da solo. Non avevo un insegnante, c’era una sala prove nella scuola che frequentavo, e mi sono formato da me, da autodidatta. Il mio approccio alla musica è stato sempre vissuto come una scoperta. Non c’era nessuno che mi diceva cosa fare, tutto quello che ho imparato è stato per me una grande scoperta. Subito dopo ho avuto un periodo di formazione classica che ho vissuto come un momento di approfondimento di qualcosa che avevo in qualche modo già assimilato. In quel momento avevo già tirato fuori la mia vena compositiva, avevo già iniziato a comporre i miei brani. Sono poi stato accettato all’Università di Cape Town, dove ho studiato conseguendo il mio diploma in jazz, composizione e strumento. A quel punto capii che dovevo migliorare la mia tecnica e ripresi a studiare musica classica, comprendendo che anche quella musica faceva ormai parte integrante della mia personalità musicale. Bach, Chopin, Rachmaninov hanno rappresentato per molto tempo – e lo rappresentano ancora – il mio pane quotidiano e oggi sono la base del mio modo di suonare, del mio stile improvvisativo e compositivo. 

A Città del Capo a un certo punto si trasferì un musicista cubano molto bravo, che aveva sentito parlare di me e mi propose di entrare a far parte di una band di salsa che mi ha insegnato molto soprattutto dal punto di vista ritmico. In quel periodo a Città del Capo c’era un locale molto piccolo che frequentavo e dove si poteva ascoltare un sacco di musica diversa: tanta musica africana proveniente dal Camerun, dallo Zimbabwe, dall’Africa Occidentale, ognuna con le sue caratteristiche spesso molto diverse tra loro. 

La mia formazione è stata molto segnata da queste esperienze. Anche la musica elettronica a un certo punto è entrata a far parte del mio bagaglio culturale.

Qual è il tuo legame, se esiste, con altre forme di black music come reggae, hip hop, rap e così via?

Era la musica che ascoltavo prima che iniziassi a studiare seriamente il mio strumento. Questo fino ai miei quattordici anni quando decisi che avrei voluto essere un musicista professionista. Ascoltavo quasi esclusivamente soul e r&b, gente come Erykha Badu, D’Angelo, eccetera. Anche loro hanno avuto una forte influenza su di me.

Un’ultima domanda e una sola parola. Tensioni razziali. Ce ne sono ancora in Sud Africa nonostante la fine dell’apartheid?

Sicuramente sì. È uno degli argomenti principali dei testi dei miei brani, soprattutto di quelli che compongono il mio ultimo album. È un argomento che mi tocca da vicino: mio padre è bianco e mia madre nera e, proprio avendo vissuto una situazione familiare di questo tipo, mi sforzo continuamente di cercare di capire come fare a trovare una forma di comprensione con cui superare alcune differenze che indubbiamente esistono, e che in Sud Africa rappresentano buona parte dei conflitti del nostro quotidiano.

Tuo padre è un sassofonista piuttosto famoso dalle tue parti. Da dove viene?

Pietermaritzburg, nell’ex Natal.

Io un po’ conosco il Sud Africa, ho uno zio che vive a Pretoria. Tu invece sei mai stato in Italia?

No, purtroppo, e mi piacerebbe. Il posto più vicino all’Italia in cui sono stato è Basilea, in Svizzera. Ma prima o poi farò una capatina anche da voi.

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