Bobo Stenson, con il suo trio completato da Anders Jormin al contrabbasso e Jon Fält alla batteria, pubblica un nuovo album intitolato «Spheres» (ECM). Il disco segna un passo avanti nella raffinata ricerca formale del pianista svedese, che sembra aver trovato nel trio il proprio habitus di musicista. In questo organismo infatti la creazione è concepita da Stenson come conseguenza dell’ascolto reciproco più che di un pensiero costruito. Non si tratta di free jazz o improvvisazione libera quanto di un personalissimo modo di plasmare insieme la forma creativa Ne abbiamo parlato con il leader, persona di rara gentilezza e simpatia.
C’è senza dubbio un filo rosso che collega i dischi di questo trio con Jormin e Fält: ho l’impressione che ciascuno di essi sia parte di unico discorso, di un personale memoir poetico.
Si, è così, ci sono molti elementi in comune, esiste un legame che li connette. Voglio dire.. suoniamo insieme, cerchiamo insieme di creare qualcosa, siamo sulla stessa lunghezza d’onda e procediamo nella medesima direzione, concepiamo lo sviluppo musicale in maniera molto simile e quindi condividiamo la medesima modalità esecutiva.
Nel suo stile pianistico sembrano convivere due anime: una di ricercatore e una di narratore. Ho sempre avuto l’impressione che quella del narratore prevalga sulla prima.
Che ne pensa?
Per me è importante che chi ascolta percepisca le inflessioni stilistiche, penso sia molto positivo. Se sei alla perenne ricerca di nuove modalità di espressione, il pericolo è quello di trovarsi all’interno di un’azione artificiale, fine a se stessa, e questo ritengo non sia utile né all’artista né a chi si accosta alla sua musica. Al contrario, devi esplorare le possibilità creative sentendoti libero di procedere in differenti direzioni, poiché suonare significa ascoltarsi a vicenda e soprattutto accogliere reciprocamente gli impulsi esterni con l’obiettivo di creare.
È un’osservazione interessante: molti musicisti sembrano quasi vivere in una bolla, isolati da quanto sta loro intorno. Possono fare musica apprezzabile, sotto certi aspetti, ma è come se non fossero realmente interessati alla condivisione, convinti magari che la forza delle loro idee possa bastare di per sé, cosa spesso illusoria. Nella sua musica trovo invece una forte vena comunicativa.
Comunicare, condividere è fondamentale per il nostro gruppo. Nel trio ognuno ha un ruolo ben preciso, non c’è qui un pianoforte a condurre le danze accompagnato da una sezione ritmica, vogliamo davvero essere aperti l’uno per l’altro, al fine di sperimentare nuove idee con la massima libertà. Quindi sì, ha ragione! Naturalmente poi, tutto questo a volte funziona, altre volte invece…
Vorrei approfondire ora quest’ultimo disco, che mi è parso un lavoro particolarmente riflessivo. Ogni singola nota è importante, carica di aspettative e significato.
Grazie… In realtà, quando cominci a registrare, questi aspetti non li conosci ancora, non sai davvero quale direzione prenderai. Ovvio, si parte con del materiale scritto ma quanto succederà dopo, ciò che se ne farà davvero di quel materiale, è imprevedibile. Anche qui avevamo stabilito in partenza alcune idee di massima su cosa dovevamo suonare, e come, ma queste si sono poi trasformate nel momento medesimo dell’esecuzione, ossia nella registrazione. È interessante… È una situazione molto speciale, quella dello studio, non è affatto come suonare in concerto. Si agisce in una dimensione chiusa e tutto è come più ravvicinato, ognuno di noi è carico di attenzione, si può proseguire in molteplici direzioni. Poi, abbiamo al nostro fianco un producer molto interessato al processo che si viene a creare. Manfred Eicher è infatti un vero produttore, uno che segue i processi creativi e ci tiene a farne parte, incoraggiandoci a proseguire in una direzione piuttosto che in un’altra. Certe dinamiche possono quindi crearsi solo nel corso di una registrazione. Trovo tutto ciò molto interessante!
Nel recensire questo lavoro su Musica Jazz ho usato l’espressione «invenzioni a tre voci» poiché l’interplay è così intenso da evocare una struttura contrappuntistica, piuttosto che un’impalcatura ritmico-armonica. Come intende Bobo Stenson il trio piano-basso-batteria?
È effettivamente una forma molto tradizionale. Ovviamente noi siamo cresciuti con la musica jazz quindi siamo imparentati con questo specifico linguaggio. Quel che è certo, come dicevo prima, è che il nostro trio non è impostato come un organismo in cui il pianoforte è il centro. Il nostro comune intento è creare qualcosa insieme, così da concepire un prodotto che venga da ognuno di noi. Partiamo da idee melodiche e ritmiche definite, questo è chiaro, ma il risultato deve essere aperto, ed è proprio questo senso di apertura che mi piace, anche quando suono in altri gruppi. Inoltre esso costituisce l’aspetto più piacevole del far musica: proponi un’idea al pianoforte, ricevi uno spunto di rimando magari dalla batteria ed ecco che, nel rispondere, ti ritrovi improvvisamente in luogo che non avevi previsto… Una bella sensazione.
Infatti il mio richiamo al contrappunto si riferiva alla sensazione di trovarmi di fronte non tanto a brani concepiti in quella modalità, quanto, più in generale, a una nuova concezione del trio piano-basso-batteria.
Sì, possiamo dire così…
Durante il ventesimo secolo, nella tradizione compositiva novecentesca svedese ha prevalso una vena neo-romantica. Penso ad autori del primo Novecento come Wilhelm Stenhammer, Hugo Alfvén ma anche più recenti, in particolare Gosta Nystroem, un notevole sinfonista, e Hilding Rosenberg. In questi compositori troviamo una precisa posizione estetica, una vena onirica, nostalgica, descrittiva unite a una generale diffidenza verso le tendenze più estreme e le tecniche delle avanguardie. Anche lei si definirebbe un musicista neo-romantico?
In un certo senso, ma non è qualcosa che abbia deciso consapevolmente a seguito di una riflessione. Gran parte di questa attitudine penso abbia a che fare con la mentalità di questi luoghi… Sa, la gente è davvero un po’ differente, qui al nord, rispetto all’Italia (ride).
È vero…
Che vuole, è anche un po’ più freddo…(ride). Penso che abbia molto a che fare con questo aspetto. Lo si può definire atteggiamento romantico, se si vuole, ma credo sia un’attitudine connessa al fatto, più semplice, che la gente di qui non è molto invogliata a proiettarsi all’esterno, si tratta di un contesto totalmente diverso dal vostro proprio a causa del clima. Per voi, uscire ed incontrarsi è un fatto molto più naturale che per noi. Non voglio certamente esagerare su questo tema, ma sono convinto che le condizioni ambientali influenzino anche il carattere artistico di una popolazione. Questo almeno è ciò che penso emerga nella musica. Lei ha menzionato questi compositori, che conosco, ed è vero, loro sono così, non voglio paragonarmi ma siamo certamente nella stessa corrente. È una domanda interessante!
La ringrazio. Adesso, però, ne ho una un po’ più difficile… Tra i musicisti del passato, non necessariamente pianisti, chi considererebbe suo maestro? E Tra quelli del presente, chi il suo ideale compagno di viaggio?
Certamente i musicisti di questo trio. Ci teniamo compagnia lungo un viaggio che viene da lontano, suoniamo insieme da così tanti anni e abbiamo percorso molta strada e molti Stati.
Quanto al passato, ho sempre pensato lungo tutto il percorso della mia vita, fin da quando ero molto giovane, che John Coltrane sia per me una fortissima guida, un potente nutrimento, così ricco di significati che influenzano il mio modo di suonare. Coltrane ha così tanto da dire che ti senti perpetuamente spinto a elaborare la sua musica per esprimerla nuovamente attraverso la tua. Ho anche altri riferimenti, ma questo è il più rilevante. Per quanto riguarda il presente, così ricco di talenti, mi riuscirebbe davvero difficile estrapolare un singolo nome, così tanti sono i meravigliosi musicisti con i quali ho suonato, tutte persone realmente fantastiche. Spesso sono stato ispirato dai batteristi.
Da più parti si sente dire che l’Europa ha cessato di svolgere un ruolo cruciale nella scena culturale mondiale e sul versante dell’immaginario collettivo. È insomma in crisi di identità. In tale panorama incerto, il jazz sembra costituire un’eccezione, dimostrando una vitalità sorprendente. Come vede questo scenario e il suo possibile divenire nell’immediato futuro?
Secondo me, è difficile parlare di jazz «europeo» isolandolo dal resto. È vero, in questo contesto il jazz mostra vitalità ma non in quanto europeo, piuttosto perché l’improvvisazione è capace di rendere questa musica, ovunque, vitale. L’improvvisazione può portarti in ogni direzione, è in grado di creare persino nuove professioni, ha a che fare con questo. Questa musica la si è vista fiorire nonostante l’esperienza recente, quando tutto si era fermato per via della malattia che conosciamo. Il jazz sembra essere molto forte.
Pertanto secondo lei non ha molto senso separare l’esperienza europea da quella di altri paesi. È solo…una questione di jazz!
È esattamente ciò che penso. Chiaro, un approccio differente c’è stato e c’è, poiché qui siamo un po’ meno legati alle radici del jazz, abbiamo una nostra musica popolare e questa può essere sicuramente una differenza, ma penso che oggigiorno tale differenza sia sempre meno marcata. Siamo tutti molto più aperti alle influenze esterne e la medesima cosa accade anche dall’altra parte dell’oceano.
Bobo Stenson, la ringrazio per il suo tempo e la sua gentilezza. L’ultima domanda riguarda i suoi progetti, in particolare vorrei chiederle se essi includono qualche tappa italiana nel prossimo futuro.
Lo spero, non posso dirlo con certezza in questo preciso momento, ma lo spero. Amo molto venire nel vostro Paese, dove abbiamo tanti amici. Mia moglie poi ha una passione speciale per la lingua italiana, quindi… vedremo!