Joe Lovano: un’intervista per il 70° compleanno

«Se hai una lunga carriera alle spalle, l’autocelebrazione è la via più facile ma anche la più pericolosa». Compie settant’anni uno dei più influenti tenorsassofonisti dell’era post-coltraniana. L’abbiamo incontrato per farci raccontare cosa c’è dietro e cosa davanti a lui.

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Il 29 dicembre ha tagliato il traguardo dei settant’anni, per cui abbiamo visto bene di incunearci nei suoi molteplici impegni in modo da trovare lo spazio per una bella chiacchierata con quello che va senza alcun dubbio annoverato fra i più importanti jazzisti della sua generazione, tout court, nonché naturalmente fra i più influenti tenorsassofonisti di epoca post-coltraniana. Il nostro uomo, di nome e cognome fa ovviamente Joe Lovano e ha rivelato una disponibilità e una passione – diremmo – nel raccontarsi tali da indurci ad addentrarci in profondità soprattutto nel suo passato più remoto. L’occasione quasi lo imponeva, del resto, e lui ha dimostrato appunto di gradire molto, di assecondare ben volentieri e quasi di guidarci in questa direzione. Ovviamente senza far mancare qualche pur veloce pillola di presente e futuro prossimo.

Considerato il compleanno molto rotondo (che quando uscirà questo numero avrai appena superato), ci terrei a fare una panoramica ampia sulla tua vita artistica, partendo da una domanda che ti avranno fatto chissà quante volte: tu sei di origine siciliana, per l’esattezza messinese, sia da parte di padre che di madre, e tuo padre era a sua volta un tenorsassofonista di valore, per cui ti chiedo qual è stata l’influenza di questo duplice imprinting sulla tua formazione musicale fin dai primi anni di vita.

Le mie origini hanno giocato un ruolo decisivo anzitutto sulla mia vita spirituale, sul mio modo di vivere e di essere, in maniera piuttosto pura, netta, visto che entrambi i miei genitori provengono da lì, anche se in realtà sono nati entrambi già negli Stati Uniti. Sono stati i miei nonni, paterni e materni, a emigrare in America da due diversi paesi della provincia di Messina, Alcara Li Fusi e Cesarò. Se poi parliamo di musica, ha sempre fatto parte della mia vita in maniera allargata, non limitatamente a mio padre, Tony Lovano, detto Big T, classe 1925, che pure era un sassofonista molto noto nell’area di Cleveland, dove io sono nato nel 1952, riferendomi appunto a quanto dicevi prima a proposito circa il mio prossimo compleanno «rotondo». Anche mio zio Nick suonava il sassofono, e poi c’era Giuseppe, lui pure sassofonista, un altro suonava la tromba… Andando più indietro, mio nonno era un musicista di banda in Sicilia, mia nonna e suo fratello Basilio, che di cognome facevano Faraci, nonché altri miei prozii, erano tutti musicisti. Quindi esprimersi attraverso la musica, in casa mia, era la cosa più naturale di questo mondo, quasi automatica, obbligatoria. Io ho avuto la possibilità di seguire tutta l’evoluzione del jazz, dallo Swing, al bebop, le sue diramazioni moderne, il free jazz, nella prima fase soprattutto attraverso mio padre, che durante la seconda guerra mondiale faceva parte della banda dell’esercito e che fra parentesi era anche barbiere, poi per conto mio, attraverso i molti dischi che circolavano in casa ma anche ascoltando i più grandi esponenti dei vari stili in concerto quando passavano da Cleveland, città piuttosto attiva, dove mio padre e più avanti io stesso abbiamo potuto ascoltare giganti come Charlie Parker, Lester Young, Dizzy Gillespie, Gene Ammons, John Coltrane, Miles Davis, Max Roach, Sonny Rollins, Jimmy Smith, Rahsaan Roland Kirk, Lou Donaldson, Sonny Stitt… Insomma: i più grandi. Quindi i suoni, molti suoni, mi hanno sempre circondato, il che mi ha facilitato molto nello studio della musica in generale e dello strumento in particolare. Mio padre stesso insegnava musica: mi ha trovato i maestri e mi ha introdotto nell’ambiente, dove sono state le persone in quanto tali a catturarmi più di ogni altra cosa. Ovviamente era la loro propensione per quella pratica propedeutica, e terapeutica, che è l’improvvisazione ad affascinarmi sopra ogni altra cosa, tant’è vero che ho iniziato prestissimo ad apprenderne i primi rudimenti.

Joe Lovano

Mi risulta che tu sia partito dal sax alto a sei anni.

Sì, tra i cinque e i sei anni, passando al tenore a dodici, perché prima avrei avuto qualche problema a gestirlo come dimensioni! A quindici anni, poi, ho iniziato a suonare con i vari musicisti dell’entourage di mio padre, pianisti, batteristi, contrabbassisti, diventando loro amico, a volte studiando con loro, apprendendo un repertorio nel corso delle jam sessions cui prendevo parte, a poco a poco sostituendomi in un processo assolutamente naturale agli altri fiatisti, diventando io stesso una prima voce. Ed ero veramente giovane.

In quanto italo-americano, che influenza ha avuto su di te la grande tradizione operistica?

La mia nonna materna ascoltava parecchia musica operistica, soprattutto Caruso. Mio fratello maggiore suonava il mandolino, per cui la musica di tradizione italiana ha avuto certo una notevole influenza su di me, fin da molto piccolo, compresi cantanti come Frank Sinatra, Tony Bennett, Mario Lanza, Louis Prima, tutti italo-americani come me. Quindi questo doppio binario – da un lato il canto di provenienza italiana, dall’altro gli standards americani – è stato decisivo nella mia formazione, mettendo al centro della mia vita musicale l’elemento melodico, il canto, ovviamente trasposto sul sassofono.

A Frank Sinatra avresti poi dedicato un progetto specifico, confluito anche in un lavoro discografico, «Celebrating Sinatra», col quale, ovviamente nella sua versione concertistica, ti avevo ascoltato a Torino nella seconda metà degli anni Novanta.

Esatto. Col procedere degli anni, lavorando con la Blue Note, a un certo punto ho iniziato a guardare dentro alla mia storia, tirando fuori delle cose specifiche, a partire appunto da Sinatra, il suo repertorio, il suo modo di cantarlo, tutti elementi che come dicevo hanno avuto su di me un grande peso. Qualche anno dopo ho poi inciso «Viva Caruso», con un notevole dispiegamento di forze strumentali, per restituire la maestosità del suo sound, che sono convinto abbia influenzato il modo di suonare di Louis Armstrong, altro musicista in possesso di una grande maestosità, un eloquio largo, regale.

In Italia il tuo nome ha iniziato a circolare negli anni Ottanta, quando hai iniziato a incidere alla testa di gruppi tuoi, suonando contemporaneamente nel trio di Paul Motian con Bill Frisell alla chitarra, uno strumentario atipico, soprattutto per l’epoca. Come convivevano questi tuoi due binari espressivi, quale complementarietà ed eventualmente quale arricchimento reciproco, possedevano?

In realtà ci sono molte altre esperienze che ho abbracciato prima di quella con Paul, nell’orchestra di Mel Lewis, con due grandi organisti come Dr. Lonnie Smith e Brother Jack McDuff e per un triennio nell’orchestra di Woody Herman, in cui sono entrato a ventitré anni nel 1976 e con cui sono venuto in Europa e per la prima volta anche in Italia. In quell’anno mi sono trasferito a New York, dove ero già stato nel 1974 con Jack McDuff e dove la mia identità di improvvisatore si è andata precisando rapidamente, direi nel corso del primo quinquennio. A New York sono entrato in contatto con una vasta comunità di musicisti, aprendomi a forme più avanzate, per esempio suonando con Rashied Ali, che incarnava la grande eredità coltraniana, o conoscendo meglio ed amando la musica di Albert Ayler e il free jazz, che io preferisco chiamare jazz free, in generale, come movimento. Parliamo del 1978, 1979. Fin dai tempi della Berklee School, a Boston, alla quale mi ero iscritto nel 1971, avevo conosciuto Bill Frisell, John Scofield, Joey Baron, Kenny Werner, musicisti che ho ritrovato a New York. Quindi le mie tappe fondamentali sono state Cleveland, Boston, New York. Certe relazioni nascono e si sviluppano del tutto naturalmente nel jazz, che è veramente una grande famiglia. Con Bill Frisell abbiamo iniziato così nel 1981 a far parte del trio di Paul Motian, col quale abbiamo suonato per i successivi trent’anni, fino al 2011, quando Paul se n’è andato. Con lui abbiamo inciso un sacco di dischi pieni di bella musica. E devo dire che quel trio sta in qualche modo alla base del mio attuale Trio Tapestry.
Il secondo col pianoforte al posto della chitarra, ma entrambi senza contrabbasso.
Spero che non si avverta questo elemento come una mancanza! Si creano spazi ritmici, e non solo, diversi, affidati anche al sassofono, per esempio. È un approccio diverso alla formula del trio. Tutti e tre contribuiamo a generarne il sound senza ruoli troppo schematici o predefiniti. La triade è sempre quella: melodia, armonia, ritmo. Spesso il basso detta in maniera troppo univoca l’indirizzo ritmico di un gruppo, mentre sia con Paul sia in Tapestry c’è un’interazione assoluta, una convergenza, dei tre elementi del gruppo. C’è maggiore libertà, e a determinare la direzione, se vogliamo, è prima di tutto la melodia. C’è più movimento, meno rigidità, più apertura anche spirituale.

Con Tapestry hai già inciso due bellissimi album per la ECM, ma so che un terzo bolle in pentola, verosimilmente in uscita nel 2023, visto che è fresco di stampa il tuo bellissimo omaggio proprio a Paul Motian firmato in coppia con Jakob Bro.

È vero: abbiamo già inciso un nuovo lavoro nello stesso studio di Lugano dove avevamo registrato il precedente «Garden Of Expression».

Più in generale, come ti trovi a lavorare con Manfred Eicher, visto che negli ultimi anni hai realizzato per la sua etichetta anche «Roma» in coppia con Enrico Rava e hai partecipato con un ruolo centrale pure ad «Arctic Riff» col trio di Marcin Wasilewski?

La mia collaborazione con ECM in realtà è ormai quarantennale, anche se è vero che come leader è molto più recente e che negli ultimi anni raccoglie effettivamente la mia produzione in senso lato. Con Manfred Eicher mi trovo benissimo. Lui non è solo un produttore: è una sorta di leader aggiunto, uno che contribuisce a orientare la musica. E poi non segue le mode, a volte, anzi, le anticipa e le determina.

Joe Lovano & Wynton Marsalis
Wynton Marsalis & Joe Lovano

Visto che siamo arrivati all’oggi, torniamo al punto da cui eravamo partiti: il tuo compleanno «rotondo». Hai voglia di dire qualcosa in merito? Che periodo della tua via artistica stai attraversando?

(ride) Col passare degli anni bisogna trovare modi sempre migliori per esprimersi, per non ripetersi, per non dire cose già dette, perché quando sei un musicista di successo con una lunga carriera alle spalle il rischio è cadere nel tranello dell’autocelebrazione, che sarebbe la via più facile e più comoda da percorrere, ma anche la più pericolosa.

Al di là del nuovo album con Tapestry cui accennavamo, cosa riserva il tuo futuro più immediato?

Una cosa alla quale tengo particolarmente è il documentario su di me cui sta lavorando dal 2017 il mio corregionale palermitano Franco Maresco, che ha già dedicato anni fa un lavoro analogo a Tony Scott, altro siculo-americano.
Sì. Ha girato in Sicilia, nei miei paesini di origine e a Palermo, con la partecipazione di Salvatore Bonafede.

Col quale in effetti hai inciso almeno un paio di dischi, il primo più di trent’anni fa.

Sì, Salvatore mi è molto caro. Comunque nel 2019 Franco Maresco è venuto a New York in occasione di una mia scrittura al Village Vanguard col Trio Tapestry. Ha girato anche a casa mia e nella casa di Long Island che fu di Alice e John Coltrane. Tutto ciò compare nel film, che è in fase di post-produzione e che spero possa uscire nel 2023, perché la pandemia ha rallentato tutto il processo produttivo. Quando ciò accadrà, per me sarà un grande onore.

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