New York, 10 agosto 1920. Mamie Smith registra Crazy Blues per l’etichetta Okeh. Su consiglio di Perry Bradford, che aveva più talento come uomo d’affari che come compositore, il tedesco Otto Heinemann, patron e fondatore dell’etichetta, mette in vendita il brano a un prezzo bassissimo. L’idea era di movimentare il mercato dei bianchi del Sud e invece il risultato fu un enorme successo commerciale presso il proletariato nero urbano. Crazy Blues è per molti aspetti il punto di svolta che stabilì questa nuova direzione urbana del bluesiness. Non solo perché Mamie Smith, prima voce nera registrata su disco, lanciò la moda delle cantanti degli anni Venti (e che cantanti! Alberta Hunter, Ethel Waters, Ma Rainey, Bessie Smith, Ida Cox…), spesso accompagnate da jazzisti, ma anche perché il brano divenne un successo: solo a Harlem se ne vendettero 75.000 in un mese.
Crazy Blues rispecchiava una precisa strategia prima produttiva e poi commerciale: «Il cosidetto classic blues dei primi anni Venti era decisamente più una creazione urbana da assaporare a casa, nei teatri e cabaret del nordest, che in una piantagione o un umile juke joint»; una creazione sostanzialmente newyorkese, bianca, ipersensibile alle variazioni tecnologiche, stimolata in parte dall’arrivo in città di W.C. Handy, che nel 1918 decise di traslocare i propri uffici da Memphis a Broadway. È questo il bluesiness, sposalizio di blues e business, cui fa riferimento Ted Gioia in Delta Blues (W.W. Norton 2008).
Crazy Blues – una scelta simbolica – apre i Roaring Twenties, l’età del jazz o Les années folles che dir si voglia. È il decennio dello sviluppo industriale, delle macchine, del cinema prima muto e poi sonoro. Nascono la Warner Bros. (1923), la Mgm (1924), Mickey Mouse (1928). Sono gli anni di Francis Scott Fitzgerald e del Grande Gatsby (1925), della Nbc (National Broadcasting Company, 1926), della sorvolata atlantica di Charles Lindbergh, «L’aquila solitaria» (1927), ma anche un epoca complessa e contradditoria chiusa da due giorni neri, giovedì 24 e martedì 29 ottobre 1929, il crollo di Wall Street, cerimonie d’apertura della Grande depressione.
Di quegli anni altalenanti e discontinui, bluesiness e jazz furono la colonna sonora. Nel novembre 1919, dieci anni prima del crollo della borsa, il Senato aveva rifiutato di ratificare il trattato di Versailles che sanciva la fine della Prima guerra mondiale (la pace con Germania, Austria e Ungheria fu poi siglata nel 1921). L’entrata in guerra delle truppe statunitensi (6 aprile 1917) fu anticipata da un discorso lapidario del presidente Woodrow Wilson davanti al Congresso: «The world must be made safe for democracy», un ritornello che s’impresse nella testa di molti presidenti statunitensi. Il prezzo da pagare furono le vite di cinquantamila soldati e un immediato dopoguerra non dei più rosei. Alla disillusione dei patrioti si associarono crescenti tensioni sociali, che per certi versi che si protrassero fino agli anni Trenta (il picco di scioperi e occupazioni, sparsi un po’ ovunque, si avrà nel biennio 1936-37).
Nel febbraio del 1919, Seattle fu teatro di un gigantesco sciopero generale che coinvolse 65.000 operai e la contemporanea partecipazione dell’Iww (Industrial Workers Of The World, fondato nel 1905 da un gruppo di «socialisti, anarchici e sindacalisti radicali») e della più conservatrice Afl (American Federation Of Labor). Per qualche giorno la città si autogestì pacificamente garantendo tutti i bisogni minimi necessari.
Ciò nonostante, lo sciopero fu seguito da una vera e propria caccia alle streghe nei confronti dei membri dell’Iww, con molti arresti e violenze. Fu la prima fase della Red Scare, la paura rossa. A spaventare le amministrazioni cittadine e governative non era tanto il danno economico in sé o la massiccia adesione dei lavoratori quanto il valore simbolico che lo sciopero rappresentava: «un tentativo di rivoluzione […] teso a rovesciare il sistema industriale». Ai democratici l’alternanza con i repubblicani faceva meno paura dell’incubo rosso venuto dall’Est.
Gli interventi furono diversi e molteplici e cominciarono già nel corso della guerra. Nel febbraio 1917, malgrado un veto presidenziale, la legge sull’immigrazione imponeva ai nuovi arrivati di saper leggere: in tal modo l’accesso negli Stati Uniti era negato a tutte le popolazioni di origine asiatica. A settembre dello stesso anno il dipartimento di giustizia colpì 48 antenne dell’Iww: 165 dirigenti furono arrestati e 101 condannati (a pene fino a vent’anni) per opposizione alla coscrizione.
Tra la fine del 1919 e l’inizio del ’20, Alexander Mitchell Palmer, ministro della giustizia del governo Wilson, fu incaricato di reprimere «una minaccia rivoluzionaria che pesa sull’intera nazione». Edgar Hoover, alla testa delle inchieste del dipartimento di giustizia, ricevette un dossier contenente i nomi di 150.000 sospetti. Diecimila furono arrestati e 249, di origine russa, deportati il 21 dicembre 1919. Erano accusati o di opporsi alle più generali decisioni di governo o di auspicare la sparizione della proprietà privata. I raid continuarono a Boston e in misura minore a New York.
Come non bastasse, giunse la legge Volstead a complemento del diciottesimo emendamento, che nel gennaio 1919 aveva instaurato il proibizionismo. La vendita e la produzione degli alcolici fu interdetta nei luoghi pubblici e strettamente regolamentata per l’uso privato. Nel 1921 la presidenza passò dal democratico Wilson al repubblicano (e sfortunato) Warren Harding. La campagna del senatore dell’Ohio sfruttò (per la prima volta nella storia) le onde radio, conducendolo a una vittoria schiacciante con un clamoroso 60,3 % (le donne avevano acquisito il diritto di voto nell’agosto 1920). La corsa di Harding, ispirata da un ritorno alla normalità, si arrestò brutalmente a San Francisco il 2 agosto 1923.
Fino al 1932, gli Stati Uniti restarono saldamente nelle mani dei repubblicani e dei loro presidenti: Calvin Coolidge e Herbert Hoover. Le politiche democratiche, mantenute e rinforzate, e le contraddizioni sociali («Nel 1924, il Ku Klux Klan contava quattro milioni e mezzo di membri») non minarono «un decennio di prosperità senza precedenti». Il vigile controllo del flusso migratorio unito alla forte limitazione delle importazioni stimolò giocoforza una cavalcata industriale statunitense, che ebbe nel siderurgico una delle sue teste di ponte. Tra il 1921 e il 1927 i disoccupati scesero da più di quattro a circa due milioni e il livello medio dei salari aumentò di qualche punto. Gli agricoltori se la passavano bene ma le città costituivano una luccicante attrazione.
La vita di molti statunitensi si riorganizzò attorno alle aree urbane di Chicago e New York dove, tra entertainment ed elettricità, stava nascendo la società del consumo di massa. Il gadget più bello degli anni Venti fu prodotto da una marca in particolare, fondata nel 1903 da Henry Ford nei sobborghi di Detroit. Il lavoro nelle fabbriche Ford rispondeva a una perfetta messa in pratica del taylorismo, teorizzato dall’ingeniere Frederick W. Taylor. Il conseguente fordismo (secondo il termine coniato da Antonio Gramsci) consisteva in un’organizzazione scientifica del sistema produttivo che divenne un punto di forza non solo della Ford ma dell’intera produzione serializzata degli anni a venire. Qualche dato può essere utile per intuire la potenza vertiginosa della casa. Il Model T, primo veicolo prodotto, mise le ruote fuori dalla fabbrica nel 1908, quando Ford era già quarantacinquenne. Un anno più tardi, la vendita del modello toccò quasi le 11.000 unità e cinque anni più tardi non era lontana dalle 250.000. In pochi anni il signor Ford, che nel 1926 portò la settimana lavorativa a quaranta ore, divenne il sovrano del regno dell’automobile.
Tutto filavava liscio. O meglio: sembrava filare liscio. Gli scioperi, in Tennesse, Carolina e lungo la costa orientale picchettarono in lungo e largo il decennio, e coinvolsero settori diversi, dal tessile al minerario. Gli aumenti salariali dei lavoratori non raggiunsero mai, neppure percentualmente, gli incrementi di profitto degli azionisti: una microscopica minoranza dalla ricchezza ineguagliabile e in costante crescita. Incoerenze e ipocrisie di tutto il periodo furono raccontate da scrittori come Sinclair Lewis (Babbit), John Dos Passos, John Steinbeck (Furore, Uomini e topi) e da numerosi esponenti dell’Harlem Renaissance. Basterebbe leggere i primi capitoli di Thelonious Monk: storia di un genio americano di Robin D.G. Kelley, forse la più bella e certamente la più dettagliata biografia mai scritta su un musicista jazz, per rendersi conto delle condizioni, talvolta deplorevoli, nelle quali vivevano neri e immigrati a New York negli anni Venti. Non era tutto oro quel che luccicava: l’economia, più appariscente che solida, fece crack nel 1929.
Qualcuno (è il caso dell’economista John Kenneth Galbraith) dice che il clima era già depresso prima di ottobre; altri diranno che lo sarebbe diventato più tardi. Fatto sta che le cose non andarono per niente bene. «Dopo il crack, l’economia era stordita, praticamente paralizzata. Più di cinquemila banche chiusero i battenti e molte altre attività cessarono di colpo. […] La produzione industriale crollò del 50%. Nel 1933, quasi quindici milioni di lavoratori erano disoccupati. Ford, che nel primavera del 1929 contava 128.000 dipendenti, scese a 37.000 unità nell’agosto del 1931». Europa centrale e America latina non furono risparmiate dalla drastica e improvvisa riduzione dei commerci. La miseria colpì anche le classi più abbienti, che reagirono rivoltandosi. E così la depressione sprofondò nel biennio 1932-34: Hoover non bastava più.
L’uomo nuovo arrivò da Hyde Park, stato di New York, con un pacchetto di riforme denominato New Deal. Franklin Delano Roosevelt fu eletto presidente l’8 novembre 1932. Gli spettavano due compiti non facili: in primis «riorganizzare il capitalismo in modo da superare la crisi e stabilizzare il sistema», in secondo luogo, «calmare i numerosi movimenti di rivolta “spontanea” che segnarono l’inizio della sua amministrazione». Aiuti, riforme, ripresa diventarono gli imperativi di una stagione senza precedenti nella storia statunitense ma che a conti fatti ebbe risultati economici mediocri.
Nonostante la situazione, gli statunitensi non smisero di sognare. Nel 1933 a San Francisco si diede inizio alla costruzione del Golden Gate Bridge. L’architetto John Borglum cominciò a scolpire il monte Rushmore. Il 5 dicembre, con la fine del Volstead Act, si riprese a bere in tutto il Paese. Divertimenti (e gigantismi) a parte, molte riforme del «socialista» Roosevelt – in qualche caso più vicine alle parti dirigenti che ai sindacati – tendevano alla costituzione di un welfare state all’americana. Alla nascita di quest’ultimo si oppose qualche decisione della Corte suprema: Roosevelt aggiustò il tiro del New Deal ma non lasciò la presa e riuscì a farsi rieleggere nel 1936, anno in cui le cifre del settore automobilistico riacciuffarono quelle di prima della crisi.
In epoca rooseveltiana le arti vissero una stagione di ineguagliata creatività, anche grazie a fondi che si esaurirono nel 1939, l’anno in cui Hitler invase la Polonia e gli Stati Uniti si trovano alle soglie di una nuova storia, in cui neutralità e tendenze isolazioniste furono messe da parte.
Luca Civelli
libri:
- Amity Shlaes, L’uomo dimenticato: una nuova storia della Grande depressione (Feltrinelli 2011).
- John Kenneth Galbraith, Il grande crollo (Bur 2009).
- John Steinbeck, Furore (Bompiani 2010).
- Howard Zinn, A People’s History Of The United States (Harper Perennial 2010).
- Studs Terkel, Hard Times: An Oral History Of The Great Depression (The New Press 2005).