A Bud Powell piaceva parecchio Helen Merrill. Anche Charlie Parker l’ammirava assai. Giovanissima, fu notata da Earl Hines, che la volle nel suo sestetto per affiancare la dimissionaria Etta Jones. Si era nel 1952 e il suo talento non sfuggì a Bennie Green, il trombonista della band. Quella voce doveva fiorire, e Green convinse il boss della EmArcy, Bob Shad, a darle una chance. Shad se ne persuase, e sotto Natale la portò in sala di registrazione assieme a Jimmy Jones, Milt Hinton, Oscar Pettiford, Herbie Mann e Clifford Brown, un altro talento in piena fioritura. Anno 1954, con Quincy Jones ad arrangiare il tutto. Ma nessuno ha amato Helen Merrill quanto il pubblico giapponese, invaghitosi proprio di quella versione di You’d Be So Nice To Come Home To registrata per la sotto-etichetta della Mercury e che la Seiko utilizzò anni dopo a fini promozionali, abbinandola su un singolo alla Softly As In A Morning Sunrise pescata da una seduta successiva. Amore corrisposto, con oltre un lustro di vita trascorsa proprio da quelle parti per via del suo secondo matrimonio, quando Helen Merrill si maritò con il giornalista Donald J. Brydon, a capo della divisione asiatica della United Press International. Anni addietro la cantante aveva già fatto una capatina da quelle parti tenendovi concerti per circa un mese, e la fiamma si era subito accesa.
È ai tempi di quel suo lungo soggiorno che risale la realizzazione di un’autentica gemma, non solo della sua produzione ma dell’intero jazz vocale: «Sposin’». Un album nel quale un repertorio di standard viene come scollato dal suo disegno originario e proiettato in una dimensione dai contorni incerti, ai confini dello stato di veglia. Il disco venne registrato tra il 21 e il 25 ottobre del 1971 al Mohri Studio di Tokio, fu pubblicato dalla Victor in Giappone e, su licenza, in Europa dalla Storyville. Sparì presto dai radar per essere nuovamente avvistato nel 2006 ma solo in terra nipponica, dove la Think! Records ne produsse una ristampa in cd passata sul mercato come una meteora, senza lasciare traccia alcuna. In altre parole, è un disco assai difficile da rintracciare. È intestato a «Helen Merrill With Gary Peacock Trio», formazione che a fianco del contrabbassista schierava Masahiko Satoh a piano acustico ed elettrico e Motohiko Hino alla batteria.
La newyorkese Helen Merrill, ricordiamolo, si chiama in realtà Jelena Ana Milčetić. È figlia di croati giunti negli USA dall’isola di Krk, nome che noi italiani abbiamo reso più commestibile trasformandolo in Veglia. Viveva nel Bronx quando iniziò a cantare, e mosse già i primi passi con il suo nome d’arte. Precoce nell’arte e nella vita, si sposò una prima volta, appena diciottenne, con il sassofonista e clarinettista Aaron Sachs (1923-2014), curioso musicista tra Swing e bop e con non pochi problemi di tossicodipendenza. Difatti la storia finì ma non senza aver prodotto un figlio, che la sola Helen si fece carico di crescere. Per fortuna il pargolo, Allan Preston Sachs in arte Alan Merrill, a metà anni Settanta si sarebbe sistemato ben bene grazie al successo mondiale di I Love Rock’n Roll con gli Arrows, assieme ai quali divenne una popstar, e poi con la relativa cover fatta da Joan Jett & The Blackhearts: ma questa è un’altra storia.
«Sposin’» è il manifesto spirituale di una cantante sempre capace di affascinare per l’intensità espressiva e per la capacità di modularsi variando registro dentro i confini naturali imposti dalla sua limitata estensione vocale. Un canto minimale, privo di qualsiasi artificio decorativo, che in modo affatto originale altera il disegno melodico dei brani eseguiti, ne mette a nudo la trama, distilla emozioni, creando atmosfere intime animate da un fremito dinamico sempre sorprendente. Chi canta così non fa clamore, non cerca scorciatoie per conquistare favori di pubblico, procede per la sua strada tenendosi a distanza dalle mode. Del resto, in più occasioni nella sua carriera, Helen Merrill ha saputo scombinare le carte nel mondo rassicurante delle ballads di cui si compone in massima parte il suo repertorio. Si prenda per esempio il bizzarro «Parole e musica», album uscito per la RCA Italiana nel 1960 dove è l’orchestra di Piero Umiliani ad accompagnarla lungo una scaletta di brani già allora classicissimi. La stranezza del disco è l’introduzione recitata in italiano (da Fernando Cajati) dei testi delle canzoni, cui fa seguito l’interpretazione a dir poco leggiadra della Merrill, ricca di swing quando non te l’aspetti (come in Night And Day), essenziale dove potrebbe far fuochi d’artificio (vedi I’ve Got You Under My Skin, con un nitido Nini Rosso alla tromba) e così via. Non sarà la sua unica registrazione italiana in quegli anni di soggiorno nel nostro Paese. Trovò infatti anche il tempo di incidere con l’orchestra Trovajoli arrangiata da Ennio Morricone, cantando in italiano (e, in un comicissimo napoletano, Nun è peccato), un poker di canzoni tra cui una morbidissima Estate («Sings Italian Songs», sempre 1960 e sempre RCA).
Sempre fuori dagli schemi, nel 1968 Merrill si ritrovò in studio con il pianista Dick Katz, e il risultato, «A Shade Of Difference» per la neonata Milestone (fondata proprio da Katz assieme a Orrin Keepnews), si apriva con una Lonely Woman allucinata e drammatica, fedele al mandato colemaniano. Un’interpretazione che privilegia il lato spettrale della composizione, quasi una prova generale in vista di «Sposin’». Del resto, negli anni Sessanta, la cantante frequentava un po’ tutti i repertori, complici gli obblighi imposti dal mercato. Si cimentò con le musiche da film nel poco riuscito «Sings Screen Favorites» che insiste sul versante melodico, non lasciò inesplorata la via per Ipanema con un brillante «Bossa Nova In Tokyo», il primo suo disco registrato in Giappone, tardivo ma riuscito omaggio al fenomeno esploso anni addietro grazie soprattutto a Stan Getz e ai coniugi Gilberto. Nell’album finirono anche brani che per l’occasione vennero vagamente riarrangiati in chiave samba-jazz ma originariamente di tutt’altra natura, come la beatlesiana Yesterday. Se si tiene conto di quegli anni, si capirà bene che un solo brano non poteva essere sufficiente per sfruttare la scia sfavillante dei quattro di Liverpool. Inoltre, come si è già raccontato (MJ, agosto 2021), ai tempi era praticamente impossibile in ambito mainstream sottrarsi all’obbligo di affrontare gli hit del beat e del rock. Insomma, fu ineluttabile che nascesse «Sings The Beatles». Il disco fu registrato a Tokio nel 1970 e ad arrangiare i classici dodici brani in scaletta venne chiamato proprio un eclettico geniaccio come Masahiko Satoh, capace di spaziare dal lavoro con le grandi cantanti (negli anni Ottanta sarà il braccio destro di Nancy Wilson) al jazz elettrico con Wayne Shorter e Steve Gadd, e dalle colonne sonore per film d’animazione giapponese fino all’improvvisazione radicale, come dimostrano le sue recenti collaborazioni con Peter Brötzmann e Joëlle Léandre.
Nell’affrontare i Beatles la Merrill si mosse con disinvoltura, riesumando più che in altre occasioni un canto sensuale à la Julie London (Lady Madonna), operando scelte di repertorio anche insolite (la nervosa The Word da «Rubber Soul», qui resa più ariosa senza perdere mordente), inciampando ogni tanto nell’easy listening puro e semplice (In My Life, ma anche Mother Nature’s Son), affermando categoricamente la sua via al minimalismo con una versione quasi cullata di If I Fell. L’album si chiudeva su una versione lillipuziana di I Want You che non avrebbe sfigurato nella raccolta confezionata da Morgan Fisher dieci anni dopo: «Miniatures (A Sequence Of Fifty-One Tiny Masterpieces)». Qualcosa, comunque, faceva già presagire il tuffo nelle astrazioni più decise e convinte, strutturali e programmatiche che fanno del successivo «Sposin’» un unicum nella carriera della cantante, pur conservando intatte tutte le caratteristiche del suo stile, quella sorta di sussurro ossessivamente etereo che si percepisce anche quando a prevalere è la dimensione dell’intrattenimento più genuino.
Tutto questo si capisce fin dalla ripresa di un brano da sempre nel suo repertorio, The Thrill Is Gone, che qui si fa stralunato, immerso in un’atmosfera sonnambolica, apparentemente cantato quasi per caso. Ma già nel brano successivo la cantante alza il tiro e si supera con una versione di My Man che batte al fotofinish anche quella originale di Billie Holiday grazie a un’esecuzione per così dire bipolare, che dà l’illusione di astrarsi dalla linea melodica e dal sostegno del trio, il quale a sua volta precipita in una convulsa collisione. Ancora una volta si intravedono soluzioni legate ad ambiti più dichiaratamente d’avanguardia, come le successive escursioni vocali della francese Tamia o il precedente illustre di Patty Waters. Quasi sapendo di essersi sporta oltre, con il brano successivo Merrill offre una visione più canonica del lavoro di una cantante jazz con accompagnamento di trio: If You Could See Me Now è svolta su classiche movenze già collaudate da Merrill in tempi passati. Una delizia che prelude al brano eponimo, pensato per mostrare il volto più swingante della cantante, laddove il suo unisono con il contrabbasso di Peacock è una raffinatezza tutta da gustare. Ed è ancora il contrabbassista a manovrare con robusta eleganza l’archetto facendosi carico della prima parte dell’accoppiata In A Sentimental Mood/Once Upon A Summertime. Merrill canta solo nel secondo dei due brani, tornando a tuffarsi in una sorta di nebbia dalla quale emergono le note della celebre composizione di Michel Legrand e lasciandoci stupefatti. Un’iniezione di super swing la regala invece Angel Eyes, con la voce che appare sempre sul punto di sfilarsi e finire altrove. Una volta di più Masahiko Satoh mostra doti di eclettismo che lungo l’intero disco lo vedono sempre brillante e all’altezza della situazione, sia in frangenti più astratti sia, come in questo caso, ricchi di ritmo e di energia. Il meglio di sé Satoh lo offre però nel brano conclusivo, passando al piano elettrico in Until It’s Time For You To Go, comportandosi da genuino accompagnatore così come i suoi partner e lasciando ancor di più la scena a Helen Merrill, a quel suo approccio vocale che a tratti sembra provenire da qualcuno che inganna il tempo a una fermata d’autobus, senza apparentemente far molto caso a ciò che canta. Dolci inganni di una bionda, si sa.
In seguito, nel lungo seguito della sua carriera, Helen Merrill ha continuato con coerenza a insistere con il suo personalissimo rigore artistico, confezionando non pochi preziosi manufatti. Ha inciso nuovamente con Katz omaggiando Gershwin, poi un album con John Lewis («Django», 1976) e soprattutto ha costituito un sodalizio felicissimo con un altro pianista, Gordon Beck, dando vita a «No Tears… No Goodbyes» (1984), disco «spettacolare» (anche se l’aggettivo può apparire stridente con la sobrietà della loro arte). Assieme a Beck ha firmato anche «Music Makers», con la partecipazione di Steve Lacy e Stéphane Grappelli. Il brano eponimo, che Lacy impreziosisce con un assolo swingante e quantomai solare, era stato composto dalla stessa Merrill e dal suo nuovo marito, il grande e definitivo amore Torrie Zito, compositore, pianista e arrangiatore con un gran bel curriculum di collaborazioni, da Tony Bennett a John Lennon (sue le orchestrazioni d’archi per «Imagine»). Assieme a Zito, la cantante aveva inaugurato gli anni Ottanta dando alla luce l’album «Casa Forte». Ritroverà poi Gil Evans, con il quale aveva già registrato «Dream Of Me» ai tempi della EmArcy. L’album del 1987 («Collaboration») ripropone, in parte con nuovi arrangiamenti, proprio la loro vecchia collaborazione del 1956 ma brilla soprattutto grazie a una gemma come Summertime, immersa in un’atmosfera onirica sostanziata dalla presenza di Lacy e pronunciata in maniera particolarmente accorata dalla cantante. Ancora Lacy sarà poi presente su un album che rappresenta l’ideale congiunzione con le radici croate della cantante: «Jelena Ana Milcetic a.k.a. Helen Merrill», titolo fuori dagli schemi per un lavoro che vede la coppia regalare una versione leggiadra di La Paloma, incastonata tra canti popolari balcanici e ballads senza tempo. È del 2002 il congedo dal mondo discografico, «Lilac Wine», che vede ancora in azione Zito e recupera il figlio di lei, Alan. Il primo scomparirà nel 2009, mentre nel 2020, causa Covid, se ne è andato anche il secondo. Helen Merrill, che compirà 92 anni a luglio, si è ritirata da tempo, e anche svariati dei suoi molti (ma non moltissimi) album sono spariti dalla circolazione. «Sposin’», per esempio: lo salvi chi può.