Charlie Parker: i capolavori Dial

di Michael James Foto di William P. Gottlieb

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La maggior parte delle incisioni realizzate da Bird per l’etichetta di Ross Russell rientra nel ristretto novero dei capolavori del jazz. Ecco perché. 

Delle ottantasette esecuzioni registrate da Parker per l’etichetta Dial, ventiquattro sono del suo quintetto regolare del 1947 e altre sedici dello stesso gruppo ma con l’aggiunta del trombonista J.J. Johnson. È opinione diffusa e concorde che i risultati conseguiti da tale complesso, che durante lo stesso periodo ha registrato anche per la Savoy, rappresentino lo zenit della carriera di Parker per quanto riguarda la purezza di ispirazione e la sostanza musicale, e sebbene dal momento della sua morte – nel 1955 – sia stata fatta via via nuova luce sulla sua musica grazie all’uscita di molte registrazioni, effettuate in locali notturni e in concerto e fino allora rimaste sconosciute, quel giudizio risulta ancora oggi ineccepibile.
Le successive esecuzioni fatte in studio per Norman Granz sono state spesso danneggiate da accompagnamenti inadeguati; e, per quanto le registrazioni non soggette ai limiti di tempo allora vincolanti in sala d’incisione vedano un Parker musicalmente più avventuroso, e rivelino pertanto un fascino spesso più selvaggio di quello che talvolta si può apprezzare nelle incisioni Dial, di rado sono illuminate da una concezione di gruppo così serrata o anche da una tanto costante forza fascinosa e inventiva. Esistono indubbiamente delle eccezioni, come le sedute per la Clef del 1953 in quartetto o le registrazioni al Birdland del 1950 con Fats Navarro e Bud Powell; eppure, per quanto si tratti di materiale di rilievo, offre rivelazioni meno esaurienti di quelle che emergono dalla musica incisa dal gruppo regolare di Parker negli ultimi tre mesi del 1947. Nel loro complesso, le esecuzioni registrate per la Dial tracciano dunque una curva ascendente dal punto di vista della creatività. Le incisioni del 1946 per questa etichetta vennero bruscamente interrotte quando la salute di Parker, minata da anni di abusi e sregolatezze, alla fine cedette e il sassofonista fu ricoverato per sei mesi in un ospedale psichiatrico. Com’è prevedibile, la vita caotica condotta da Bird trova un riflesso tanto nel contenuto emotivo di queste esecuzioni, che è estremamente variabile, quanto nella loro discontinuità. Diggin’Diz, un brano originale di George Handy basato sugli accordi di Lover, è particolarmente deludente, considerato il numero di «stelle» che vi partecipano. Si rivela esattamente per quello che è: la sola esecuzione completa emersa dalle prove di un complesso messo insieme in assenza di due dei principali solisti. Gli assolo sono meccanici, il sostegno ritmico è fiacco.

AT THE THREE DEUCES
Nel locale newyorkese, nell’agosto 1947, il quintetto di Parker con Tommy Potter, Miles Davis, Duke Jordan (di spalle) e Max Roach (che si scorge dietro Bird).

La seduta del 28 marzo, sulla quale Parker ebbe pieno controllo, diede frutti migliori da ogni punto di vista. Miles Davis, per quanto limitato nella scelta del fraseggio, suona con impegno; Lucky Thompson si esprime con sicura eloquenza e Dodo Marmarosa crea alla tastiera delle figurazioni di brillantezza adamantina. Il lavoro in sezione del pianista, con i suoi accordi di sostegno perfettamente pertinenti, sprona Parker a sfruttare pienamente il materiale da lui stesso scelto per la seduta, e il beat imposto dal batterista Roy Porter e dal bassista Vic McMillan ha una tensione elastica che non fa rimpiangere l’impulso dato dai musicisti newyorkesi che Parker aveva utilizzato in studio fino a quel momento, con la sola eccezione della seduta per la Savoy del novembre 1945 che aveva visto Max Roach alla batteria.

(Diggin’ Diz)


A volte, come indicano le differenti versioni dei quattro temi, Parker sviluppava il suo assolo una take dopo l’altra; le versioni successive non mostrano tanto un graduale perfezionamento quanto un uso completamente diverso dello stesso materiale. Un raffronto tra le quattro takes di Yardbird Suite rivela che questo brano appartiene alla prima categoria, mentre in Moose The Mooche la fantasia di Bird spazia liberamente di versione in versione così come, per inciso, muta anche la temperie emotiva della sua interpretazione. L’assolo che egli modella nella seconda versione ha in sé una delicatezza, quasi una riservatezza, che è considerevolmente lontana dal feeling generato nella prima e nella terza take. Nel corso dell’intera seduta questa incostanza è ancora più evidente: confrontate, per esempio, la contenuta sicurezza della sua improvvisazione in Ornithology con la verve appassionata dei breaks che aprono Night In Tunisia.


Da quanto sappiamo della sua carriera in questo periodo, la lucida attenzione per il dettaglio che Parker portò in questa seduta divenne sempre più rara man mano che trascorreva la primavera del 1946. Quando Bird entrò nuovamente in studio di registrazione, il deterioramento fisico derivante dalla sua dipendenza dall’eroina aveva compromesso la sua tecnica in misura allarmante. Il gruppo che Howard McGhee aveva riunito per accompagnarlo – Porter è di nuovo alla batteria – suona di buona lena per mascherare le sue deficienze; ma se a noi queste appaiono imbarazzanti, figurarsi l’angoscia che debbono aver suscitato nello stesso sassofonista.
Gli altri musicisti salvano dall’incoerenza i brani a tempo velocissimo, Bebop e Max Is Making Wax, ma i contributi di Parker si limitano a una stenografia vacillante e incerta nel tentativo affannoso di far fronte alle esigenze della musica.

Le due ballads hanno conservato una loro bellezza tragica, tormentata

Eppure le due ballads hanno conservato una loro bellezza tragica, tormentata, paragonabile soltanto alle canzoni che Billie Holiday ha registrato negli ultimi anni di vita e quando la sua voce, secondo ogni criterio convenzionale, aveva perduto tutti i requisiti: vale a dire proprio tutti, escluso il potere di commuoverci. È tipico della sua arte che Parker, anche in siffatte condizioni, fosse capace di fare ciò in due modi completamente distinti.
I contorni melodici di Lover Man, per quanto vengano conservati in misura maggiore rispetto alle classiche improvvisazioni parkeriane dell’anno seguente sulle ballads, sono riscattati da frasi caratteristicamente complesse: diversamente, per esempio, da quanto accade in Don’t Blame Me, non viene costruita una nuova melodia sugli accordi ma viene sviluppata una personalissima parafrasi. The Gypsy, d’altro canto, contiene poco di melodicamente nuovo: trascritto su pentagramma, in effetti, probabilmente apparirebbe niente più che un esercizio elementare. Eppure è tale l’innata padronanza del ritmo, dell’intonazione e della voce strumentale di Parker che nel corso dei tre minuti si viene avvinti da un incantesimo all’apparenza naïf ma in realtà profondamente personale. Nessuna impostazione accademica potrà mai garantire quell’intuito, acquisito anno dopo anno, cui Parker si affidò quel giorno per liberarsi dalle catene dell’esaurimento fisico e della confusione mentale.
In contrasto con questa sfortunata seduta, la musica fatta subito dopo aver lasciato il Camarillo State Hospital è piena di un’ardente vitalità che testimonia quanto sia stato determinante il respiro datogli dalle cure che laggiù ricevette. Delle tre sedute di febbraio, l’ultima fu la più notevole sotto il profilo dell’integrazione di gruppo, ma tutte presentano molti aspetti interessanti e offrono una grande inventiva melodica in pieno relax. Le tre versioni di Home Cooking, ciascuna delle quali ha una diversa base armonica, sono il frutto di una seduta informale: i contributi degli altri musicisti sono stati tagliati per lasciare, complessivamente, circa sette minuti alle improvvisazioni di Parker. L’impostazione pirotecnica è assente anche sul tempo vivace del secondo pezzo, che come il suo spettacolare Koko del 1945 è basato sulla sequenza d’accordi di Cherokee. Queste esecuzioni, invece, tengono desta l’attenzione grazie a una seducente miscela di intensità ritmica e disinvolto swing, alle loro frasi fluidamente delineate e, soprattutto, all’impeccabile svolgimento melodico. Un lirismo così solare non si sarebbe più ritrovato negli ultimi lavori di Parker.


La collaborazione con il trio di Erroll Garner e il cantante Earl Coleman, nel suo intreccio di diversi elementi, è all’apparenza sorprendente, ma non va dimenticato che è dal genere di tardo Swing rappresentato da questi musicisti che si era sviluppato lo stile di Parker, e anche che gli era già capitato di accompagnare dei cantanti su disco: il sottile obbligato nel Lover Man a nome di Sarah Vaughan illustra la sua padronanza di questa impegnativa disciplina. Le varie versioni dei pezzi strumentali sono state in buona parte oggetto di maggiori attenzioni critiche, e pochi certo possono rimanere indifferenti di fronte alla limpida espressività dei suoi chorus, specialmente nelle takes più distese di Cool Blues; eppure il suo lavoro alle spalle di Coleman e la tersa bellezza dei suoi stessi, brevi assoli superano per impatto drammatico le differenti versioni di questo brano giustamente celebrato. Forse in conseguenza della sua straordinaria inventiva melodica, si è prestata scarsa attenzione alla sua abilità di colpire l’ascoltatore con esposizioni tematiche molto personali. Dark Shadows, nelle sue varie manifestazioni, ne è un chiaro esempio, e attraverso la sua concisa manipolazione di accenti, melodia e tempo collega direttamente Parker al suo grande predecessore Louis Armstrong.
Se questa imprevista iniziativa servì a chiarire le radici di Parker, la seduta che ebbe luogo una settimana più tardi fu una dimostrazione di brillante modernità. Grazie all’ingegnosità dei quattro uomini della sezione ritmica, la musica di questo settetto si libra su pulsazioni tanto ricche di sottigliezze quanto ritmicamente stimolanti, eppure tale effetto è ottenuto senza far entrare in gioco quella serie di elaborazioni percussive tanto amate da Max Roach. Don Lamond e i suoi colleghi offrono qui uno sviluppo delle tecniche adottate dalla sezione ritmica di Basie negli ultimi anni Trenta, conservando la fluidità ma allo stesso tempo garantendo a tutti gli strumenti, specialmente al piano e alla chitarra, un maggior grado di libertà. Un talento così versatile completa alla perfezione l’inventiva dei solisti, in modo da ottenere simultaneamente una serrata integrazione e una prospettiva musicale avventurosa.
Carvin’ The Bird ne dà forse la migliore illustrazione, in particolare durante e subito dopo il chorus dedicato ai breaks di contrabbasso, chitarra e piano, perché i temerari interscambi tra questi strumenti caratterizzano l’intera seduta. I suoi frutti sono sempre sembrati più succulenti in quanto Parker, dopo aver lasciato la West Coast, mise a punto uno stile diverso per quanto affine, sviluppando la sua musica lungo linee la cui natura poliritmica era più esplicita. Le incisioni di questa seduta, soffuse d’una bellezza melodica che Bird ha assai di rado ha sorpassato (se mai lo ha fatto), vividamente riecheggiata nel lavoro dei suoi sidemen, suggerisce che – se ne avesse avuto il tempo e l’opportunità – Parker avrebbe potuto portare avanti la sua musica altrettanto efficacemente in direzioni meno costrittive.


Tornato a New York nella primavera del 1947, Parker fu finalmente in grado di riunire un gruppo regolare che potesse rispondere alle sue rigorose esigenze. Ormai la risposta del pubblico alla sua musica gli permetteva di mantenerlo stabilmente in attività. Il quintetto lavorò per tutta l’estate, e le registrazioni che poté fare, specie durante le tre sedute per la Dial tenute negli ultimi tre mesi dell’anno, presentano le sue idee in una forma resa ancor più convincente a causa delle ripetute esecuzioni.
Per quanto originali apparissero allora, le procedure seguite dal complesso erano saldamente radicate nella tradizione del jazz; e sebbene la loro influenza sul jazz di quel tempo fosse raccolta soltanto in misura parziale, certo per via della natura multiforme dei suoi risultati, la musica prodotta in quei giorni sarebbe servita da pietra di paragone per un’intera nuova generazione di jazzisti, formando il modello cui si sarebbero ispirati i gruppi degli anni Cinquanta ed esercitando un’influenza più forte di quella di qualsiasi altro complesso jazz attivo prima di allora. Già, perché mentre Louis Armstrong e Coleman Hawkins avevano prodotto su trombettisti e tenorsassofonisti un’influenza non meno profonda di quella esercitata da Parker sui più giovani altosassofonisti del suo tempo, nessuna delle loro formazioni aveva avuto a lungo termine un simile impatto stilistico.
Oltre a quello di Parker, il ruolo più decisivo nel quintetto era quello di Max Roach. Un brano a tempo medio come Dewey Square indica chiaramente la duplice natura del suo contributo. Intrecciando il suono dello hi-hat e del ride cymbal con il beat di base fornito dal bassista Tommy Potter, Roach produceva un ritmo legato in grado di sostenere con fluidità tutte le evoluzioni improvvisate; e al contempo, in particolare sul rullante, articolava un gran numero di figurazioni percussive che si integravano alla perfezione col fraseggio dei solisti. Nel jazz esistevano dei precedenti per entrambe le procedure, come si può facilmente arguire dal lavoro di Jo Jones con l’orchestra di Count Basie, e, in modo meno evidente, dal rapporto essenzialmente «di gruppo» di musicisti più anziani e allora considerati «datati» come il batterista di New Orleans Baby Dodds. Nel 1947, la combinazione di tali elementi fu tanto sorprendente quanto opportuna.


Fin da allora la scelta del trombettista che doveva agire al suo fianco ha ricevuto numerose critiche; ma, nel decidere per Miles Davis, è probabile che Parker sia stato nuovamente guidato, almeno in parte, da considerazioni inerenti al lavoro di gruppo. Se l’abilità di Davis non arrivava ai voli pirotecnici di un Theodore «Fats» Navarro, questo comportava che durante i suoi assolo il sostegno ritmico si ritrovasse in maggior luce. La terza take di Dewey Square offre forse la migliore esemplificazione di questo vantaggio. Inoltre, se certe momentanee défaillances portavano occasionalmente alla nota pasticciata e all’intonazione difettosa, i passaggi di tromba in ballads come Bird Of Paradise ed Embraceable You rifulgono di una bellezza austera e scontrosa che derivava sia da un peculiare stile melodico sia da una delicatezza di sonorità che col passare del tempo è divenuta proverbiale. Un lirismo altrettanto raffinato si riscontra nel gioco di Duke Jordan, tanto in assolo che in accompagnamento. Anche nel suo caso si può notare la preferenza di Parker per un compagno di lavoro meno estroverso: qui l’ovvio contrasto è con Bud Powell. Le introduzioni di Jordan e l’uso degli accordi sotto il lavoro dei solisti sono caratterizzate da un’economia di mezzi che, se possibile, è ancor più accentuata che nel caso di Davis, e che gli torna particolarmente utile in considerazione dello spazio solistico ridotto a lui concesso in questi dischi. Si giunge così alla conclusione che nello scegliere questi due uomini, assieme al fidato benché poco spettacolare Tommy Potter, Parker intendeva sviluppare al massimo grado l’aspetto melodico senza compromettere – come avrebbe potuto fare con musicisti più prolissi – quell’equilibrio poliritmico che è essenziale per la sua musica. Per motivi analoghi, la presenza di J.J. Johnson nell’ultima seduta non aggiunse eccessiva tensione, perché il suo linguaggio laconico eppure ritmicamente obliquo si inserisce con grande puntualità nella trama delle improvvisazioni.
Tuttavia, con tutto il rispetto per Roach e gli altri musicisti, è soprattutto grazie alle prestazioni dello stesso Parker che questa musica sarà ricordata per l’eternità. Dai tempi degli Hot Five e Seven nessun jazzista aveva più dato vita a una sequenza di improvvisazioni di tale costante brillantezza e che sapesse rivelare con tanta eloquenza la ricchezza di immaginazione del suo creatore. A tempo veloce, lo stile improvvisativo di Bird rivela una potenza che si è dimostrata straordinariamente duratura, tanto che l’impatto del suo lavoro in tipiche esecuzioni come Crazeology e Klactoveesedstene trascende completamente il tempo in cui furono registrate.

Si è nuovamente colpiti dall’analogia con Armstrong, poiché questi brani, come per esempio alcune grandi prove del musicista più anziano quali The Last Time e Cornet Chop Suey combinano una certa complessità ritmica con uno slancio in avanti che supera qualunque difficoltà di percorso, di fronte alle quali la maggior parte di loro si sarebbe arresa. Questo risultato, naturalmente, era reso possibile da una prospettiva melodica che permetteva a Parker di organizzare un assolo con grande anticipo sulle scadenze armoniche, tale da avere sempre il pieno controllo della situazione musicale. Per quanto ne sappiamo, egli non si trovò mai costretto correre dietro alla musica: anche a oltre 240 di metronomo era in grado di imporre situazioni musicali anziché essere costretto ad adeguarsi.

(My Old Flame)


Inutile sottolineare come tale capacità sia davvero rara, e così non sorprende che, nel complesso, i brani a tempo medio di questa serie siano i più soddisfacenti. I blues, in particolare Bird Feathers, Drifting On A Reed, Bongo Bop e il suo parente stretto Bongo Beep, costituiscono la conferma di quanto si è detto. L’abilità di Parker nel trasformare questa forma tradizionale in qualcosa di profondamente espressivo e personale fu notata persino dagli osservatori meno comprensivi, molti anni fa, e anche in questo caso i risultati da lui ottenuti non hanno perduto niente con il passare del tempo. 
L’interagire di tensione e distensione all’interno delle sue improvvisazioni è a dir poco magistrale: forse il migliore omaggio alla sua abilità in questo campo è dato dal fatto che nessuno della miriade di musicisti che si sono sforzati di decifrare i suoi segreti, neppure i più dotati di talento, è stato in grado di concepire un amalgama emotivo altrettanto potente e variato. Forse, a questo riguardo, è possibile riconoscere un caso in cui contenuto e forma vanno a braccetto, cosa che succede di rado visto che pochi dei suoi successori attingono alla ricca fonte di materiale tematico che Parker ha lasciato in eredità, forse inutilmente, a chi è venuto dopo di lui. Se i brani più veloci spingono al confronto con Armstrong, le ballads chiamano in causa tanto Coleman Hawkins quanto Lester Young, poiché esse riflettono tecniche armoniche che Hawkins ha portato a maturazione nel suo Body And Soul del 1939 e che hanno continuato a ossessionarlo attraverso tutti gli anni Quaranta, come dimostrano i suoi Stardust (1945), e Sophisticated Lady (1949). Nel contempo l’approccio di Parker, con particolare riferimento alla sua chiarezza di linee, fa venire in mente anche Young: un confronto pertinente può farsi con registrazioni di Lester quali Ghost Of A Chance (1944) e She’s Funny That Way (1946). Come i suoi due predecessori, Parker possedeva la rara abilità di evitare di richiamarsi alla melodia del terna originario per coniarne una del tutto nuova. Bird Of Paradise e Out Of Nowhere, ciascuno inciso per la Dial in tre differenti versioni, offre la migliore prova di quanto fertile fosse la sua immaginazione. E non c’è alcun dubbio che, nelle dodici esecuzioni di questo tipo che ci sono pervenute dalle tre sedute in questione, Parker raggiunse delle vette di creatività che, almeno su disco, non avrebbe più saputo conquistare. Nella purezza delle loro linee melodiche, nel loro gioco sottile di tensione, accento e sonorità, e nella loro caratteristica intensità espressiva, disperata e implorante, esse costituiscono un capitolo del jazz che non sarà mai più ripetuto.


Nell’atmosfera settaria degli anni Quaranta, Parker veniva generalmente ritratto – tanto dai sostenitori quanto dagli avversari – come un rivoluzionario senza legami col passato. Col passare del tempo quell’etichetta gli si è scollata di dosso e oggi vediamo in lui un musicista collegato in maniera imprescindibile al filone principale della grande tradizione del jazz che a sua volta ha contribuito a portare avanti, creandone anzi un altro pezzo. In queste registrazioni Dial, in maniera più chiara che in qualsiasi altra raccolta di analoga portata, si può cogliere il debito di Bird nei confronti dei suoi precursori, il retaggio che egli stesso ha lasciato e, soprattutto, una voce incalzante, indimenticabile, personale: quella forza singolarissima che più d’ogni altra permette a questa musica di sfidare con successo le erosioni del tempo.
Michael James
Foto di William P. Gottlieb, Library of Congress, Washington DC

  1. 01 Charlie Parker - Diggin' Diz 2:56
  2. 02 Charlie Parker - Moose the Mooche 3:07
  3. 03 Charlie Parker - Yardbird Suite 2:43
  4. 04 Charlie Parker - Ornithology 3:03
  5. 05 Charlie Parker- Famous Alto Break 0:52
  6. 06 Charlie Parker- Night in Tunisia 3:06
  7. 07 Charlie Parker - Max Making Wax 2:34
  8. 08 Charlie Parker- Lover Man 3:23
  9. 09 Charlie Parker - The Gypsy 3:06
  10. 10 Charlie Parker - Bebop 2:56
  11. 11 Charlie Parker - This Is Always 3:14
  12. 12 Charlie Parker- Dark Shadows 3:10
  13. 13 Charlie Parker- Bird's Nest 2:46
  14. 14 Charlie Parker- Hot Blues (Cool Blues) 2:02
  15. 15 Charlie Parker - Cool Blues 3:12
  16. 16 Charlie Parker- Relaxin' at Camarillo 3:10
  17. 17 Charlie Parker- Cheers 3:09
  18. 18 Charlie Parker- Carvin' the Bird 2:48
  19. 19 Charlie Parker - Stupendous 2:55

 

[da Musica Jazz, marzo 2020]

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Alceste Ayroldi
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Alceste Ayroldi, docente di ruolo, saggista, critico musicale, musicologo, veejay, producer, consulente artistico e consulente alla comunicazione di numerose realtà culturali del territorio italiano.