Il «sentiero degli zingari» è forse l’immagine migliore per rappresentare la vicenda umana e artistica di Jean-Baptiste «Django» Reinhardt: i suoi stessi tratti somatici basterebbero a provare l’origine indoariana dei rom; e poi i sentieri spesso si interrompono improvvisamente, inspiegabilmente, e sono pieni di intoppi, accidenti, guai. Nella sua breve esistenza Django di guai ne ha avuti molti, e ne ha procurati altrettanti. Chi lo ha conosciuto giura che fosse arrogante, diffidente, ombroso. Un disadattato? Già: capita, ai gitani. Non perché sia nella loro indole, come pensano i razzisti, ma perché la differenza fra lo stile di vita dei nomadi e quello delle società che li ospitano crea inevitabili scompensi, incomprensioni, distanze. L’ostilità di Django per le convenzioni era tanto naturale quanto il suo fluente fraseggio. E di convenzionale, nella sua musica, non c’era proprio nulla. Perfino l’organico del Quintette du Hot Club de France, che cominciò a consegnarlo alla storia […]
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