John Cale: l’accademia dentro e fuori

Nuova vita discografica per due ottimi album degli anni Settanta

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John Cale gioca su più tavoli, come ha sempre fatto, anche se tra due mesi gli anni saranno 83 e sessanta la distanza dalla prima impresa celebre, la fondazione dei Velvet Underground. Da un lato è un musicista in piena attività, come sei mesi orsono ha dimostrato la sua ultima opera, «POPtical Illusion»; ne abbiamo parlato con ammirazione proprio in questa rubrica, raccontando di un artista sempre teso a guardare il futuro e a non stancarsi mai di cercare, di provare, mettendo in gioco tutte le risorse possibili di esperienza e fantasia. D’altro canto, poi, il nostro venerabile è anche uno scrupoloso archivista, che periodicamente torna alle pagine del suo passato con curiosità e orgoglio. 

Il recupero più recente riguarda due opere giovanili, «Academy in Peril» e «Paris 1919», realizzate in quei primi anni Settanta che furono la sua stagione più turbolenta ma anche più creativa. Cale aveva lasciato i Velvet Underground dopo il secondo lp, per insanabili dissidi con Lou Reed. Quella cittadella musicale non era grande abbastanza per tutti e due, ed era giusto prenderne atto. Le occasioni di fare altro non mancavano; John aveva la sua viola a disposizione per chi ne richiedesse i servigi (come Nick Drake su «Bryter Layter») e testa fine per essere non solo autore e interprete ma anche produttore, vedi il primo lp degli Stooges e un paio di leggendari «solo» di Nico, «The Marble Index» e «Desertshore». Sapeva anche trafficare in studio come tecnico, e in quel ruolo poco conosciuto la Columbia lo ingaggiò nel 1970 per curare le nuove edizioni di album in catalogo utilizzando l’ultima moda tecnologica: la quadrifonia. Naturalmente poi John era una risorsa dell’azienda anche come musicista, e fu allora che iniziò la carriera solistica con un paio di long playing mai troppo amati, da lui almeno. «Vintage Violence», marzo 1970, era un’opera tutto sommato timida, che non illustrava il grande fermento in quella enciclopedica testa; «un disco in maschera», bella definizione dell’autore, poco originale, «come qualcuno che prova a imparare qualcosa». Diverso ma con esiti simili il caso di «Church of Anthrax», l’album realizzato con Terry Riley per la Columbia Masterworks. Riley aveva appena incantato l’universo mondo con «A Rainbow in Curved Air», volando via dal guscio della contemporanea «difficile», e l’idea di accoppiarlo a un eccentrico eclettico come Cale sembrava una mossa giusta. I due non si intesero invece, e litigarono anche sulla forma finale dell’album, «con troppe tastiere» secondo Cale ma non per Riley. 

Così pochi si accorsero di quell’uscita, il disco naufragò e John colse la palla al balzo per abbandonare la Columbia e trasferirsi in California, alla Warner Bros., dove trovò un team più aperto alle sue idee e visse una stagione migliore. Continuò a trafficare con la quadrifonia, progettando di presentare nei cinema americani l’Arancia meccanica di Kubrick in super stereo quad, ma soprattutto si dedicò a nuova musica e trovò spazio per quei dischi che in queste settimane rinascono a nuova vita. Era ispirato fino al parossismo ma angosciato anche da un matrimonio sbagliato, e con gravi problemi di alcol e droga; un paradossale mix che può spiegare forse la violenta varietà della musica e la visionaria incoerenza dei testi. 

Cale fu assegnato alla Reprise, l’etichetta fondata a suo tempo da Frank Sinatra, che negli anni aveva molto ampliato lo spettro delle proposte ma mai pubblicato un lp come «Academy in Peril»: «il primo disco di classica in quel catalogo», per riprendere uno slogan dell’epoca. Era una mezza bugia, o forse una mezza verità, perchè in quei solchi è vero che John sfoderava il suo sapere tradizionale, come da buoni studi al Conservatorio, ma modellava poi la materia a modo suo, con tratti originali e spunti perfino surrealisti. La sua era una fiera lotta per dichiararsi libero da ogni condizionamento, fossero i puristi della classica ma anche i rocker radicali vedovi dei Velvet Underground. Così esordiva con uno stravagante gamelan beefheartiano, The Philosopher, per passare a un tempestoso pezzo intitolato Brahms in cui mescolava l’amore per quel maestro a sue inquiete divagazioni, e già al terzo brano perdeva ogni ritegno inventando un buffo siparietto in cui un regista immaginario, in uno studio tv, commentava le riprese di un brano orchestrale (il regista immaginario era interpretato da Larry «Legs» Smith, uno dei membri della demenziale Bonzo Dog Doo-Dah Band). Era una beffa velenosa, da prendere però con le pinze; perchè subito dopo Cale si lanciava in una mini-suite di tre brani orchestrali tutt’altro che scherzosi, dirigendo con scrupolo la Royal Philharmonic Orchestra che gli era stata messa a disposizione.

John Cale

«Academy in Peril» brilla ancor oggi per questi contrasti, con le dita del pianista che accarezzano i tasti ma è come se sentissero la scossa, perdono presto grazia e misura, spingono, pigiano con violenza, vorrebbero abbandonarsi a tellurici cluster che paiono in agguato in pezzi come la Intro del secondo lato e King Harry, l’unica (specie di) canzone, dove si accenna sconclusionatamente alla storia del re assassino Enrico VIII. La fantasia dell’autore corre sfrenata e porta a intitolare i momenti strumentali con i nomi di personaggi storici scelti per pura suggestione; il disco chiude con John Milton, brano «romantico, impressionista» ispirato da un programma BBC che diventa un singolare sigillo dai toni soffusi, quasi ambient. 

Presentato con una geniale copertina di Andy Warhol ispirata alle diapositive Kodak, «Academy in Peril» stupì più che convincere. C’era una rivoluzione sonora in corso, e le orecchie non erano pronte ad accogliere; tutto quello che un artista poteva sperare erano recensioni affettuosamente bislacche come una di quelle che aveva accolto «Vintage Violence»: «Come se un album dei Byrds fosse stato prodotto da Phil Spector e lasciato marinare sei anni in una miscela di vino rosso, anice e peperoncino».Cale in ogni caso non si depresse e continuò la sua vita di sempre, tormenti e vizi compresi; producendo i Modern Lovers di Jonathan Richman, componendo colonne sonore per i film di Andy Warhol, partecipando a una effimera reunion con i Velvet Underground al Bataclan di Parigi e riprovando qualche mese dopo, primavera 1973, con un lp a suo nome sempre per la Reprise:  «Paris 1919». 

«Il primo vero album rock di John Cale»; ecco un’altra mezza bugia, o una mezza verità. «Rock» in effetti è termine troppo generico per un album ancora una volta mercuriale, eclettico, che abbandona gli strumentali di «Academy in Peril» per canzoni che cambiano volentieri abito di volta in volta. Senza più orchestra, Cale lavora in quintetto con tre membri dei Little Feat (Lowell George, Bill Payne, Richie Hayward) e propone canzoni per lo più meditative, nostalgiche, di stoffa morbida, che non si sarebbe detto nelle corde di quegli sgherri rock blues: Child’s Christmas in Wales, che prende il titolo da un racconto di Dylan Thomas ma segue percorsi autobiografici, Hanky Pank Nohow, che si può immaginare cadenzata dall’armonium di Nico, Andalucia, Half Past France. Ogni tanto brillano fuochi imprevisti e paradossali: il carnevale folle di Macbeth, il pop reggae di Graham Greene, il beat la-la-la di Paris 1919, con il titolo che si riferisce, chi l’avrebbe detto, al congresso di pace dopo la Prima Guerra Mondiale, quello che portò allo sciagurato trattato di Versailles. Chiude il disco una ballad sussurrata con curiosa cadenza alla Lou Reed, Anctartica Starts Here: «una canzone sulla cocaina», spiegherà un giorno Cale, molto preso dall’argomento, «che stavo per intitolare Cocale». 

Con una mossa che per certi versi gli salvò la vita, John tornò in Europa alla fine del 1973, accasandosi presso la Island sempre da artista multitasking, autore interprete produttore. Sistemò con pena i suoi affari sentimentali, affittò un appartamento a Earl’s Court e lì ritrovò energia, «passando le giornate ad ascoltare i Beach Boys e Gustav Mahler» e meditando nuovi progetti che presto sarebbero sbocciati. Il concerto del 1 giugno con Nico, Eno, Kevin Ayers, la produzione di «The End» per Nico, un album epocale come «Fear», il primo tour europeo… I Velvet Underground erano sempre più lontani, John Cale cominciava una delle stagioni più felici della sua carriera.

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