Ernst-Ludwig Petrowsky: prima e dopo la DDR

Con il sassofonista dell’ex Germania Est scompare una figura imprescindibile del jazz e della musica improvvisata europea, protagonista di mille avventure soprattutto con i suoi vecchi compari dello Zentralquartett: Sommer, Gumpert e Bauer. Ne ricordiamo vita e opere

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C’è chi si fa immortalare in uno scatto fotografico sulle strisce pedonali di una strada londinese e c’è chi fa altrettanto, ma inconsapevolmente, facendo pausa pranzo sulla trave di un grattacielo in costruzione a New York. Lassù possono capitare strane avventure assai comiche: ci si infila un pantalone traballando, ma anche semplicemente si legge un giornale, e se una macchina da presa filma il tutto, il gioco è fatto e le risate assicurate, come era ben noto ai cineasti nell’era del muto. 

C’è anche chi trova quelle grandi altezze metropolitane ideali per rivedere vecchi amici, sedotto dall’idea di passeggiare lungo lo scheletro di un grattacielo in costruzione. È quanto sembra raccontare la deliziosa illustrazione realizzata da Pierre Cornuel per «Ascenseur pour le 28», un album intestato a «Günter Sommer et trois vieux amis» e pubblicato nel 1985 dall’etichetta Nato di Jean Rochard, gioiosa idea discografica d’oltralpe tuttora in attività, anche se tirata avanti con novità e ristampe pubblicate col contagocce. Cornel lavorò diversi anni per la nato, realizzando copertine fumettose, eredi della sua passione per la bande dessinée, e contribuendo a rendere unici i bonbon di casa Rochard, del quale tra l’altro era cugino. Nel 1996 la collaborazione si interruppe, ma nel frattempo Cornuel aveva realizzato in pratica il meglio e la maggior parte delle copertine del cugino, tra cui «Deadly Weapons», noir sonoro allestito da Steve Beresford, David Toop, John Zorn e Tonie Marshall, l’omaggio a Bechet «Vol pour Sidney (aller)» e «Formu», firmato da Radu Malfatti et Quatuor à vant, giusto per citarne alcune in cui emerge più prepotente l’amore per il fumetto. 

Tornando ad «Ascenseur pour le 28», i tre compari del pirotecnico batterista e percussionista erano il pianista Ulrich Gumpert, il trombonista Konrad «Conny» Bauer e il più anziano di tutti, Ernst-Ludwig Petrowsky, sassofonista, clarinettista e all’occorrenza anche flautista. Era nato a Gustrow, nella defunta DDR, e se n’è andato lo scorso dieci luglio a Berlino ormai grande vecchio del jazz con i suoi ottantanove anni, quasi tutti spesi a soffiare nell’imboccatura dei suoi strumenti con la massima libertà d’espressione. Appena diciotto giorni prima lo ha preceduto nel viaggio infinito Peter Brötzmann, un altro pioniere tedesco del free e dell’improvvisazione, e si è tentati di pensare a una trama del fato piuttosto che a una semplice concomitanza dovuta al caso. 

Amici e frequentatori di entrambi, anche gli altri tre arrivavano come Petrowsky dall’altra parte di quel Muro che un solerte, ordinato, vasto e variegato dispiegamento di forze, comprendente militari appartenenti all’esercito della DDR, unità di polizia e membri delle cosiddette milizie dei lavoratori (Betriebskampfgruppen), attaccò a innalzare – partendo da Potsdamer Platz – lungo un perimetro di 155 chilometri, passando sopra qualsiasi ostacolo, parchi, piazze, edifici e finanche cimiteri, e incorniciando il tutto con circa centocinquanta tonnellate di filo spinato. Questo colpo di mano venne battezzato «Operation Rose» e si svolse nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961. 

Passare quella frontiera divenne complicatissimo e pericoloso, anche per chi intendeva spostarsi per andare a suonare. Lo capirono presto Petrowsky e i suoi amici, e forse la copertina del disco della nato stava proprio a significare, con grazia e leggerezza, quanto fosse complicato trovarsi fuori dalle mura di casa, (o meglio: fuori dal Muro), perché il solo ottenere un visto d’ingresso dalla Künstler-Agentur di Berlino era come muoversi acrobaticamente sospesi sulle putrelle di un grattacielo in costruzione, proprio come li disegnò Cornuel. 

La Künstler-Agentur, per rammemorare tristi istituzioni, era l’agenzia che, avvalendosi di elaborate procedure kafkiane, decideva i viaggi all’estero degli artisti della Germania dell’Est e ne incassava i cachet. Ciononostante, il jazz e in generale le musiche fuori dalle sale d’accademia della DDR non si spensero, e gente come Petrowsky, Sommer, Bauer e Gumpert seppe scrivere pagine valorose e stimolanti al tempo stesso. I quattro lo fecero sia assieme sia seguendo un percorso individuale. Ognuno di loro lasciò diverse tracce in casa Rochard ma, come gran parte dei deliziosi dischi nato (e quelli chabada, l’altro ramo della famiglia), esse sono tuttora fuori catalogo. Petrowsky, in particolare, spunta nella raccolta preparata in occasione dei primi cinque anni d’attività della nato, «Alternate Cake», con il brano intitolato Pavane (MJ, luglio 2020), un imperdibile ibrido di free e barocco.

Il sassofonista si era fatto le ossa come autodidatta, a metà dei Cinquanta, suonando bop con il pianista Eberhard Weise, dapprima assieme nell’orchestra a nome di quest’ultimo e una decina d’anni dopo nell’Ensemble Studio IV, proponendo proprie composizioni e il fior fiore del repertorio di Charlie Parker, Sonny Rollins e altri maestri del genere, alla ricerca di un’espressione originale che alla lunga lo avrebbe portato a liberarsi dai modelli formali tradizionali e a spingersi sempre più nella pratica dell’improvvisazione. Tra i primi ad andare alla ricerca di una autonomia di linguaggio, assieme a Petrowsky, c’erano il pianista Joachim Kühn, il fiatista Friedhelm Schönfeld, e il contrabbassista Klaus Koch, a riprova di un vento di cambiamento che mai smise di soffiare a Est nonostante l’edificazione del Muro. 

In questo scenario, qui riassunto davvero in breve, l’Ensemble Studio IV ebbe un ruolo chiave. Composta da membri dell’istituzionale Radio Big Band, la formazione era a sua volta di casa negli studi dell’emittente statale della DDR. Schierava, oltre a Petrowsky, Weise e Koch, anche il trombettista e flicornista Hans-Joachim Graswurm, il trombonista Hubert Katzenbeier e il batterista Wolfgang Winkler. Tra produzioni in studio e concerti contribuì non poco a diffondere l’idea che le frontiere, almeno quelle del jazz, fossero oltrepassabili. D’altra parte, Petrowsky aveva scoperto l’operato di Ornette Coleman, George Russell, Don Cherry nonché di altri illuminati, e come naturale conseguenza gli erano apparsi nuovi orizzonti. Il jazz modale dell’Ensemble Studio IV era un manufatto raffinato, di concezione avanzata rispetto al pubblico di massa cui si rivolgeva. All’alba dei Settanta, quindi, il dado era oramai tratto. In combutta con Sommer, Gumpert allestì i SOK, formazione dotata di una florida sezione fiati e di strumenti elettrici, che suonava un po’ alla maniera delle band di rock-jazz esplose in quegli anni. Petrowsky partecipò al progetto come ospite, ma poi quando gli amici decisero di non continuare su quella strada si ritrovò con loro e con Klaus Koch a formare il quartetto Synopsis, che esordì partecipando al Jazz Jamboree di Varsavia nel 1973 con un free jazz energico, anzichenò pimpante. Lo testimonia l’album omonimo pubblicato nel 1974 dall’etichetta di Stato della DDR: la Amiga. Il quarto uomo della combriccola fu il trombonista Conny Bauer, ed ecco che si capisce quanto sia franca e schietta l’intestazione di «Ascenseur pour le 28», perché quella curiosa sigla, «Günter Sommer et trois vieux amis», indicava di voler raccogliere l’eredità di Synopsis, che aveva chiuso definitivamente i battenti nel 1978 dopo l’uscita del contrabbassista Koch. 

A dirla tutta, quella curiosa denominazione riusciva contemporaneamente a essere oltremodo menzognera, perché la formazione aveva nel frattempo modificato la propria anagrafe in Zentralquartett, nome mantenuto fino ai nostri giorni. Decostruendo materiale folk, marcette, inni, temi banali, motivi buoni per ogni tipo di sacramento, dal matrimonio al funerale, agitando il tutto con iniezioni massicce di improvvisazione d’ascendenza jazzistica, penzolando su strutture armoniche e schemi ritmici perennemente traballanti, lo Zentralquartett resta forse l’impresa più riuscita di Petrowsky (ma anche degli altri tre) per quanto riguarda l’amalgama sonoro, la coesione, l’intesa; d’altra parte erano tutti vecchi amici. Col senno di poi, è stato un risultato più significativo rispetto a ciò che Petrowsky combinò con il suo storico quartetto varato nei primi anni Settanta (con Bauer, Koch e Winkler, uomini dello Studio Ensemble IV), cui si devono comunque pregevoli testimonianze di fede nella free improvisation in DDR e album di grande valore storico come «Just For Fun» (1973) e «SelbViert» (1980), entrambi realizzati dall’altra parte del Muro grazie alla FMP, che produsse anche un vero e proprio manifesto del jazz tedesco d’oltrecortina, «Snapshot – Jazz Now – Jazz aus der DDR» (1980), chiamando a raccolta il duo Gumpert/Sommer, la Workshop Band sempre di Gumpert, l’orchestra dell’altro pianista Hans Rempel, lo Studio IV (in buona sostanza l’Ensemble IV) e il quartetto di Petrowsky. 

La FMP dava sovente asilo ai musicisti della DDR e lo fece anche con lo Zentralquartett, pubblicando nel 1975 «Auf der Elbe schwimmt ein rosa Krokodil», registrazione di un concerto del 1974, prima testimonianza discografica fuori dai confini nazionali della nuova formazione. Il nome Zentralquartett era un chiaro sberleffo al Comitato Centrale del Partito, e chissà quanto fu percepito dalle autorità dell’epoca. Fatto sta che anche il nuovo quartetto registrava obbligatoriamente per la Amiga (che aveva pubblicato nel 1974 l’album di esordio del gruppo), e così fu anche per il primo disco che Petrowsky fece uscire a proprio nome nel 1978, un mosaico di registrazioni che andava da una testimonianza dell’Ensemble Studio IV (definitivamente sbarcato su lidi free) all’arcigno Petrowsky Trio, in pratica lo Zentralquartett senza Gumpert.

Ernst Petrowsky. © Rinaldo Boscolo

Quanto allo Zentralquartett vero e proprio, rispetto ai Synopsis la sua musica perdeva qualcosa del furore free ma guadagnava parecchio nel ripensare con ironia (ma anche attaccamento) la tradizione, sia quella jazzistica sia quella delle canzoni folk tedesche. Queste ultime in particolare, vissute come parte integrante di quell’identità costretta a subire l’oppressione sovietica, non ricevevano un trattamento ferocemente iconoclastico come invece facevano i colleghi dell’Ovest o quelli della scena olandese, diventando piuttosto affettuose prese in giro. Tutto l’operato del quartetto si è riassunto infine in un superlativo concerto tenuto a Lipsia il tredici luglio 2013 e dato alle stampe l’anno dopo con il titolo «Dar Kuss», una performance che ha consentito di estrarre pepite luccicanti dal repertorio del gruppo e farle brillare una volta ancora e di più. Il quartetto era sempre rimasto attivo dopo la riunificazione delle due Germanie, dando moltissimi concerti e pubblicando diversi album, in larga parte per la Intakt. Negli anni la partecipazione di Petrowsky si era fatta altalenante, e lo aveva sostituito sempre più spesso il sassofonista tenore Manfred Hering. Nel 2018 la salute del vecchio leone si era infine aggravata parecchio, obbligandolo a lasciare definitivamente il posto nello Zentralquartett a un altro tenorista, Henrik Walsdorff.

Lungo questo percorso, «Ascenseur pour le 28» si può indicare come una tappa significativa e non soltanto una chance colta al volo di lavorare fuori dai propri confini, come tutti e quattro all’epoca erano in qualche modo obbligati a fare non riuscendo sempre ad averla vinta sulla Künstler-Agentur. Capitò, per esempio, che nel 1982 il programma del festival di Chantenay-Villedieu annunciasse il duo Petrowsky-Sommer, salvo poi dovervi rinunciare per problemi di visto, e successe invece di ritrovarli assieme a Gumpert e Bauer al Théâtre Dunois di Parigi tra il pomeriggio e la sera del tre e del quattro maggio 1984, suonando tra gli altri i brani che andarono poi a comporre la scaletta di «Ascenseur pour le 28». 

Apriva le danze proprio uno spiritato Petrowsky in Nelly et Sylvain, brano che poi assume le movenze di una marcia non si sa quanto solenne sfociando in un battibecco tra contralto e trombone, sorretto, disturbato, sottolineato, mai interrotto dagli altri due partner. Segue Daniel und sein Volvo, subito trascinante nel ritmo, che seppur sfilacciato non si smarrisce mai del tutto, mentre ciascuno dei quattro prova a slabbrare il tessuto sonoro, a sminuzzarlo cercando vie di fuga. In bella evidenza Gumpert nella seconda parte, nonostante le angherie dei colleghi, fin quando le ostilità non sfociano in Makoko aperçoit Monsieur Léon; il brano, che chiude il primo lato, espone un tema solenne sul quale Petrowsky grida il suo amore per Coleman. L’unico pezzo a firma collettiva (gli altri sono tutti di Sommer) apre il secondo lato: Toute pour Raoul. Un paesaggio disegnato da Petrowsky al flauto e da Gumpert alle prese con le corde del piano, da Bauer che gorgheggia a perdifiato e da Sommer con movenze danzanti forse allo xilofono o a un analogo idiofono per un notturno dalla savana. Segue Jiair und J.E., per ritmo irresistibile e allegria contagiosa quasi una marcetta di matrice sudafricana, salvo poi risolversi in uno spiraliforme e stupefacente duo Petrowsky/Bauer che lascia di stucco per perizia, sintonia e azzardo della coppia. Si chiude con Isabel Records Boxes, con il quale i quattro tornano in un certo senso a casa, rendendo omaggio alle musiche popolari, tipiche delle feste di paese, di fiere e cerimonie d’altri tempi, ma alterate da fremiti free a ogni angolo. 

I quattro amici erano decisamente in stato di grazia. Non ci furono solo le comparsate alla nato per Petrowsky, che fino alla caduta del Muro si diede da fare in svariati contesti, un po’ qui e un po’ là, da un lato e l’altro del confine, in diversi dischi, incluse le collaborazioni con la Berolina Sound Orchestra di Siegfried Mai dedite all’easy listening più svergognato tanto per sbarcare il lunario, con Petrowsky travestito da Fausto Papetti alle prese, per esempio, con un mega-hit di fine Sessanta come Eloise di Barry Ryan. A riscattare questi compromessi c’erano le partecipazioni nella George Gruntz Concert Jazz Band, negli album della Ulrich Gumpert Workshop Band, nella Globe Unity Orchestra (lo si ascolta in «Intergalatict Blow» targato JAPO), e sempre con Alex von Schlippenbach fu della partita nella realizzazione del disco d’esordio della Berlin Contemporary Jazz Orchestra, registrato nel maggio del 1989 e pubblicato da ECM l’anno successivo: a cavallo della riunificazione nazionale.

Soprattutto, Petrowsky fece parte di un autentico supergruppo dell’improvvisazione internazionale, l’immaginifico Bergisch-Brandenburgisches Quartett, che schierava lo svedese Sven-Åke Johansson, poliedrico percussionista ma anche poeta e artista visuale, il multistrumentista tedesco Rüdiger Carl e un altro connazionale, ma nato a Occidente, ovvero Hans Reichel, inventore di strumenti a corda e chitarrista eccelso. Un’officina sonora che non ha lasciato molte testimonianze discografiche, sufficienti però a dar conto del suo valore, come ha ulteriormente provato l’album pubblicato lo scorso anno dalla Black Truffle, «BBQ Live ‘82», che ha rimesso a nuovo i nastri di un concerto tenuto a Moers, «un girotondo caleidoscopico nel quale ruotano invenzioni strumentali, citazioni, libere associazioni e fantastiche licenze per girovagare tra il jazz e tutto quanto vi si potesse mescolare assieme» (MJ, novembre 2022). 

29 giugno 1978, Imolas: Ernst Petrowsky, Klaus Koch e Gunter Sommer. © Walther Dal Pesce

Insomma, dal momento che le iniziali di Petrowsky rimandavano all’acronimo del supergruppo prog per eccellenza (ELP, ovvero Emerson, Lake & Palmer), lui una formazione all-stars la mise comunque nel suo curriculum. Non l’unica, per la verità, perché partecipò anche a un altro incontro fra stelle, il Clarinet Summit, una super-band con i colleghi di strumento Gianluigi Trovesi, Perry Robinson, Theo Jörgensmann, John Carter e Bernd Konrad. Il resto della sontuosa formazione che incise dal vivo al New Jazz Meeting Baden-Baden nel 1979 variegava ulteriormente l’assortimento con il britannico Stan Tracey al piano, il violinista francese Didier Lockwood, il trombonista svedese Eje Thelin, i contrabbassisti Jean-François Jenny-Clark e Kai Kanthak e, a completare la ritmica, Aldo Romano e Sommer alle batterie. Il disco, prodotto dal lungimirante Joachim-Ernst Berendt per la MPS, «You Better Fly Away» (1980), è quantomeno pirotecnico, sempre sul filo dell’esibizionismo individuale ma miracolosamente audace e godibilissimo al tempo stesso. 

In un altro album uscito nel 1982, l’infaticabile Ernst-Ludwig accompagna al flauto Uschi Brüning in una felice rilettura della beatlesiana The Fool on the Hill. Cantante tecnicamente attrezzata e dal timbro consistente, Brüning arrivava da Lipsia e da qualche anno ai due capitava di suonare assieme. Il vinile in questione (sempre su Amiga) è intestato a lei e la scaletta presenta diversi standard jazzistici e brani pop. Si potrebbe anche tralasciare di parlarne se non fosse che i due quell’anno convolarono a nozze e non si lasceranno più, avviando anche un sodalizio artistico che darà vita a diversi dischi sospesi tra improvvisazione e investigazione timbrica. Sarà con Uschi che nel 2012 Petrowsky realizzerà un omaggio sostanzioso al suo modello nonché eroe di riferimento, Ornette Coleman, l’uomo che più di tutti lo aveva dirottato sulla via della libertà espressiva. Il disco si intitola «Ornette Et Cetera» e vedrà affiancati alla coppia il chitarrista Jeanfrançois Prins e il batterista Michael Griener. Come si evince dal titolo, l’album contiene anche altro, ma il nucleo è costituito da alcune splendide composizioni di Coleman affrontate con rispetto, amore e invenzione. Prova ne sia che nell’immortale Lonely Woman Petrowsky avvolge il canto notturno di Brüning con volute di note febbricitanti al flauto.

Ridotto in souvenir il Muro, Petrowsky ha mantenuto una rotta orientata contemporaneamente verso diversi punti cardinali. Da sempre era soprannominato «Luten», che nella forma dialettale delle sue parti – il circondario di Rostock, nel nord-est della Germania – sta per Ludwig, e da lì prese il nome una formazione a organico variabile, il New Old Luten Quintet (ma a seconda dei casi anche trio o settetto, adeguando la denominazione), che ha lasciato una miriade di mini-album, tutte schiette testimonianze di una personale interpretazione del free jazz, talora carico ancora di rabbia primigenia, talora meditativo, a volte astratto. Un impegno in più, tra i tanti che il buon Luten ha perseguito negli anni Duemila su vari fronti, fino a quando nel 2018 gli acciacchi e l’età gli hanno presentato il conto. Lui ha tenuto duro fino al dieci luglio 2023, poi deve aver capito che si sta più comodi in equilibrio su una nuvoletta che su una putrella.

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