Sam Cooke: «Mr. Soul» fra chiesa e night club

Vita, carriera e tragica fine di una delle grandi voci del Novecento, non solo afro-americano

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Per l’America nera, emersa dalla seconda guerra mondiale con un nuovo bagaglio di ambizioni, speranze, rabbia e determinazione, gli anni Cinquanta sono stati un periodo di grandi conquiste sociali, umane ed artistiche, e al contempo di formidabili contrasti, conflitti e inquietudini. In quel decennio che ha visto la Corte Suprema degli Stati Uniti minare – in un clima di drammatica e spesso violenta resistenza – la struttura segregazionista e razzista della società meridionale, i ghetti delle città settentrionali continuare a dilatarsi e farsi via via più esplosivi, la creatività nera ottenere riconoscimenti straordinari (dal Pulitzer alla poetessa Gwendolyn Brooks al successo sulle scene di Broadway del dramma di Lorraine Hansberry, A Raisin in the Sun), l’idea d’una identità afroamericana profonda – pur attraverso la ricerca dell’integrazione politica – veniva prepotentemente consolidandosi.

Un’identità che nel jazz simboleggiavano geniali e innovativi musicisti come Charles Mingus o Max Roach, e che nel campo della musica popolare nera – ben più di quanto non facessero i dominatori delle hit parade ufficiali del ghetto, i Fats Domino, i Chuck Berry, gruppi come i Platters, i Clovers o i Drifters – esprimevano mirabilmente i protagonisti del fervido ed esuberante scenario del gospel. Allora quasi invisibile dalla prospettiva dell’America bianca (con l’eccezione di grandi vedettes femminili come Mahalia Jackson e Sister Rosetta Tharpe), il gospel era capillarmente diffuso attraverso l’intero panorama afroamericano rurale ed urbano, da Atlanta a Chicago, da Harlem a Los Angeles, in un circuito di chiese battiste (la vasta, potente denominazione di cui faceva parte il reverendo Martin Luther King Jr) e metodiste, e di migliaia di piccole, umili ma vibranti storefront churches delle varie sette pentecostali. Il concetto di «soul», come espressione dell’anima afro-americana, dell’esuberanza creativa disinibita della gente del ghetto, nasceva proprio con i cantanti di gospel, con la loro vocalità insieme torrida, sanguigna e virtuosistica, con il loro slancio celebrativo (a livello religioso, sì, eppure anche carnale ed esistenziale) e la loro miscela irresistibile di pathos, emozione, teatralità e umorismo.

A guidare il movimento del gospel, sul versante maschile, erano in quegli anni gli splendidi quartetti vocali dalla tensione armonico-ritmica profonda e complessa, che portavano alla piena maturità una tradizione ormai antica di eclettico ed eccitante intrattenimento religioso. E dall’effervescente gioco dialettico dei quartetti (che si esibivano ora a cappella, senza accompagnamento, ora integrati da scarni complessi strumentali) emergevano solisti di grande personalità, dall’insolita possenza e dalla guizzante fantasia modulatoria. Alcuni di questi, dotati di una marcata individualità stilistica e di un carisma e di una comunicativa intensi, erano i primi, autentici maestri e modelli del soul. Claude Jeter, leader dei Swan Silvertones, dal falsetto dolente e dai bizzarri, estatici miagolii, Julius Cheeks, feroce e acre voce-guida dei Sensational Nightingales, quindi l’elegante e accorato R.H. Harris dei Soul Stirrers, l’inquieto Sam McCrary dei Fairfield Four, il duro, spigoloso Archie Brownlee dei Five Blind Boys of Mississippi e il veemente e drammatico Clarence Fountain dell’altro popolare gruppo di non-vedenti, i Blind Boys of Alabama, il plastico e versatile Ira Tucker e il fiero, impetuoso James Walker, entrambi dei Dixie Hummingbirds, e altri ancora, crearono a confronto con un repertorio di inni tradizionali rielaborati e di moderni gospel song un variegato, cangiante e scintillante campionario di stilemi e situazioni e colori espressivi al quale più generazioni di voci soul (anch’esse, del resto, regolarmente svezzate in quartetti religiosi) si sarebbero costantemente richiamate.

Passionali, eloquenti, istrionici e sensuali nel canto come nella presenza scenica, questi tenori e baritoni della chiesa battista e sanctified caratterizzarono a fondo l’estetica musicale più autenticamente nera degli anni Cinquanta e lasciarono subito una forte impronta in un gran numero di cantanti loro contemporanei attivi nel settore profano della musica del ghetto. Bluesmen emergenti, nel Meridione, del calibro di Billy Wright, Junior Parker e – in particolare – B.B. King e Bobby «Blue» Bland, vennero personalizzando i loro racconti di quotidiano erotismo e conflittualità sentimentale in una veste canora fortemente emozionale e dinamica, legata all’insegnamento stilistico dei maggiori leader di quartetti gospel. E sempre nell’articolato messaggio espressivo dei vari Harris, Tucker o Brownlee, trovarono ispirazione e un chiaro punto di riferimento diversi artisti vocali le cui ambizioni e la cui versatilità li spingevano verso un’area meno circoscritta, più sfaccettata (e in un certo senso effimera), contaminata con il pop.

Tra questi ultimi, per talento, immaginazione e anche per universalità di appeal, spiccavano due cantanti destinati a introdurre e definire il soul come genere profano dominante dell’America nera, rappresentandone l’uno – Sam Cooke – l’eleganza, la naturalezza e il più seducente lirismo, l’altro – Ray Charles – la torrida eloquenza, l’aggressivo senso dello spettacolo, la flessibilità di linguaggio. Benché Sam emergesse artista già compiuto dal cuore del mondo del gospel (del quale fu il primo illustre transfuga) e Ray di questo recuperasse i valori formali (agendo dall’esterno) per trovare la propria immagine più personale, entrambi furono oggetto di sdegnose, violente critiche da parte della gente di chiesa. La loro sacrilega operazione, tuttavia, permise all’intero panorama della musica popolare afro-americana di raggiungere una vibrante compattezza e una coerenza espressiva senza precedenti.

Ray Charles, come ogni cantante e musicista nero del Meridione, si formò a stretto contatto con le espressioni più intense della musica religiosa: ma il jazz e il r&b ebbero un rilievo altrettanto importante nel suo sviluppo artistico. Sam Cook (la «e» finale, nel cognome, fu aggiunta successivamente) era invece l’autentico uomo del gospel. Nato il 22 gennaio del 1931 a Clarksdale, nell’area del Mississippi nota come Delta, crebbe a Chicago, dove la famiglia si trasferì presto sull’onda del formidabile, ininterrotto flusso migratorio dal Profondo Sud alle metropoli del Nord industriale, e dove il padre divenne predicatore in una chiesa pentecostale, la Church of Christ Holiness Church.

Chicago stava allora affermandosi come capitale del nuovo gospel, quello del fertile e immaginifico compositore Thomas A. Dorsey e della magnetica Sallie Martin, e Sam – che all’età di nove anni si unì a un fratello e a due sorelle per formare il quartetto dei Singing Children – ne assorbì l’entusiasmo, il clima di fervida celebrazione. Il suo modello era R.H. Harris, giunto dal Texas a Chicago con i Soul Stirrers sul finire degli anni Trenta: un tenore nel cui fraseggio insieme aggraziato e determinato si coglievano una elasticità di modulazione e una libertà ritmica inauditi. La carriera del giovanissimo Cooke seguì da vicino quella del maestro. Adolescente, Sam entrò negli Highway QC’s, un gruppo giovanile della Highway Baptist Church che non solo riecheggiava lo stile dei Soul Stirrers, ma che per questi avrebbe a lungo svolto la funzione di incubatrice di talenti. E quando, nel dicembre del 1950, Harris decise di abbandonare gli Stirrers, R.B. Robinson – baritono del quartetto e istruttore dei QC’s – suggerì che fosse proprio il ventenne Cooke a prenderne il posto.

Sam iniziò a registrare con i Soul Stirrers nei primi mesi del 1951 per la Specialty, l’etichetta indipendente californiana che avrebbe guidato il mercato del gospel attraverso il decennio. In brani come Jesus Give Me Water o il classico Peace in the Valley di Thomas Dorsey, dalla session d’esordio, il suo canto appariva ancora in parte immaturo, in cerca di un pieno dominio sul materiale; eppure, come osserva Peter Guralnick nel suo fondamentale saggio Sweet Soul Music  (e poi nel suo monumentale Dream Boogie: The Triumph of Sam Cooke, del 2005) già otteneva l’effetto di un libero abbandono ritmico privo di ogni sforzo apparente, di una «passione senza tensione» e di una «indefinibile profondità di feeling avvolta in un manto di sofisticazione che gli permetteva di comunicare ogni cosa con il semplice movimento d’un sopracciglio, con la più minuta modulazione tonale.» E la voce aveva già una tavolozza riconoscibile, il suo «caldo timbro di velluto altrettanto personalizzato di quello più caustico e pungente di Harris.»

La sua maturazione fu rapida e costante. Nell’arco di pochissimi anni, attraverso gemme come How Far Am I to Canaan, Just Another Day, Any Day Now, Jesus I’ll Never Forget, Pilgrim of Sorrow, con le sue brume bluesy e il suo equilibrio di desolazione terrena e speranza celeste, e The Last Mile of the Way, che lo metteva a confronto con il baritono muscolare (ma altrettanto heavenly) di Paul Foster, il Sam dei Soul Stirrers si trasformò da acerbo discepolo di Harris, che con nudo trasporto faceva comunque già fremere i versi di racconti e inni gospel, in agilissimo quanto controllato interprete capace di evocare le più intense emozioni nascoste in un song senza rinunciare alla limpida e meditata logica del suo spazioso fraseggiare e alla rotonda, rimarchevole chiarezza dell’enunciazione. C’è una lettura del 1955 del suggestivo One More River (to Cross), un tema dall’andamento ciclico e dalla ieratica solennità, che lo vedeva stagliarsi contro le umbratili e ipnotiche armonie degli Stirrers con l’aplomb e la colloquiale eleganza di un crooner del ghetto, capace di mediare – nel graduale incremento di improvvisazione – descrizione, testimonianza e commento. Il pubblico delle chiese, adorante (ma anche quello dei teatri e degli auditorium delle città nere dove le maggiori personalità del gospel si esibivano alternandosi alle stelle del r&b), scopriva nel suo melisma, nella sua tormentosa modulazione delle sillabe, uno strumento prezioso quanto divorante, che dietro la serenità e la disarmante grazia di quel canto tenorile non lasciava tregua alla melodia, agiva infaticabile sull’altezza e sugli accenti delle note.

In una delle più commoventi e compiute interpretazioni di Cooke – Jesus Washed Away My Troubles, una sua bella composizione del 1956, dal respiro arioso – l’iniziale invocazione a «Jesus» è manipolata sulla prima sillaba in un lungo, palpitante oscillare che s’inarca nel falsetto, dando subito l’illusione dell’illuminazione spirituale. In I Have a Friend Above All Others, un altro brano che rivela la sua immaginazione di compositore, la frase introduttiva – «somebody knows…» – si apre in un gran crescendo di volume sulla seconda, sostenuta sillaba, per poi assottigliarsi e vibrare in un trillo durante l’espressivo lavorio sulla parola «knows». Nei sette intensissimi minuti di un’impressionante performance dal vivo del suo hit religioso Nearer to Thee, un altro brano in cui la scrittura e l’interpretazione di Sam si fondono in un qualcosa di unico, animate dallo stesso largo respiro melodico, e un appassionato tour de force di inquietudine modulatoria, con picchi di furiosa e incontenibile tensione, di lacerante emozionalità ritualistica, è come se Sam componesse nel rapimento del canto. La sua improvvisazione ad libitum si staglia creativa contro le ripetitive, ossessive figurazioni corali degli Stirrers, crescendo dinamicamente sul ritmo gentile ma incalzante: e si tinge di qualche misurato growl, di quelle asprigne smorfie vocali e sabbiose velature che fanno da efficacissimo punto di risalto per il suo registro naturale tenue e chiaro, del caratteristico yodel, assorto e svettante (wah-oh-oh-oh wah-ah-oh-oh…), che cuce frase a frase, fino al climax in cui le grida immense, vigorose, del baritono Paul Foster vengono a intrecciarsi alle sue sguscianti ornamentazioni.

Divenuto – per l’originalità e la fluida e a tratti persino angelica eleganza del canto ma anche per lo charme personale, per l’insolita, cesellata bellezza del volto – una delle figure più amate e carismatiche dell’universo del gospel, idolo di più generazioni di fan simultaneamente e sex symbol per le signore giovani e anziane del circuito religioso nero, Sam Cooke cominciò a subire l’attrazione del più lucroso mondo della musica pop. Su incoraggiamento dell’amico J.W. Alexander, tenore e manager di un altro famoso quartetto, i Pilgrim Travelers, e dell’arrangiatore Bumps Blackwell, e a dispetto delle riserve espresse dal titolare della Specialty, Art Rupe, nel 1956 il cantante affrontò la sua prima session da solista in una veste profana, registrando garbate ballads come Loveable (un tema dalla melodia e dalle armonie gospelizzanti che fu pubblicato sotto lo pseudonimo di Dale Cook: ma il canto era inconfondibile e la gente di chiesa non si lasciò ingannare), That’s All I Need to Know (firmato dal fratello L.C. Cooke) e I’ll Come Running Back to You, pop nel messaggio sentimentale, nell’accentazione terzinata, nel colore angelico del coretto, ma gentilmente soulful nell’interpretazione.

Fino all’estate del 1957, Sam continuò ad apparire con i Soul Stirrers. In aprile ci fu un’ultima session Specialty da cui emersero un fiero, drammatico Were You There (When They Crucified My Lord)? e una sua tersa composizione, That’s Heaven to Me, intrigante e innovativa nella progressione armonica. Ma il «tradimento» era ormai consumato, e già sul finire di quell’anno la straordinaria fortuna commerciale di You Send Me, un’altra romantica ballatina che – su etichetta Keen – raggiunse il vertice tanto delle hit parades r&b quanto di quella pop, lo consacrò vedette della canzone nera. Sam Cooke – o meglio «Mister Soul», come entro pochi anni avrebbero cominciato a chiamarlo, aprendo ufficialmente una nuova era – non mancò di sacrificare qualcosa al successo, sul piano artistico. Già You Send Me mostrava il suo stile sfrondato, leggermente semplificato, in accordo con la graziosa essenzialità del testo e in omaggio alla vocazione divulgativa della pop music di allora: e una gran parte degli hit che seguirono, sempre per la Keen (You Were Made for Me, Win Your Love for Me, Everybody Likes to Cha Cha, il delizioso Wonderful World) e a partire dal 1960 per la potente RCA e le produzioni di Hugo Peretti e Luigi Creatore (Chain Gang, singolare, accattivante novelty song dal tema carcerario, salì subito al secondo posto delle classifiche), confermarono quella linea di tendenza. Tra ballabili come Twistin’ the Night Away, Havin’ a Party o Another Saturday Night, blues rivisitati in una veste amabile, relativamente edulcorata, come Little Red Rooster o quelli più sofisticati raccolti insieme a song ellingtoniani o gershwiniani nel bell’album del 1961, «My Kind of Blues», o una venerabile folk ballad come Frankie and Johnny, e i molti standard e «sempreverdi» della canzone USA (da Stephen Foster a Lerner e Loewe) che popolavano i suoi album, tra cui l’elegante produzione di Bumps Blackwell «Encore« (When I Fall in Love, My Foolish Heart, Ac-Cent-Tchu-Ate the Positive) e l’omaggio a Lady Day (arrangiato da Rene Hall) che aprivano e chiudevano la stagione Keen o la rilettura di hit degli anni Cinquanta che apriva il periodo RCA o il geografico «Cooke’s Tour», con l’orchestra di Glenn Osser, o l’album di grande risonanza registrato dal vivo al Copa di New York, Cooke si presentava come raffinato interprete per tutte le stagioni, sorta di aggiornato erede di Nat King Cole, dallo spirito meno jazzistico e dal piglio naturalmente più churchy. Tuttavia, anche se produzione e arrangiamenti commerciali, a volte inamidati o sovraccarichi di archi e coretti, impedivano la libertà creativa e lo spessore emotivo delle più mature prove con i Soul Stirrers, il canto di Sam rimaneva magistrale, un esempio di bilanciamento tra controllo tecnico, ricchezza di articolazione e densità di feeling: furono numerosi i cantanti più giovani e future star del soul, da Otis Redding a Johnnie Taylor, che trovarono allora in lui la guida artistica più importante. E intanto il lato più schietto della sua personalità aveva comunque modo di emergere. Come produttore, per la sua etichetta, la SAR Records, Sam Cooke registrò promettenti soul men come i Sims Twins o il citato Johnnie Taylor, anch’ egli alunno dei Soul Stirrers e sanguigno e fortunato interprete di una gemma firmata da Sam, Rome Wasn’t Built in a Day, in una cornice spesso più palpabilmente nera rispetto alle proprie incisioni per la RCA. O ancora suo fratello, L.C., o i Valentinos (già Womack Brothers, in ambito gospel) del suo pupillo Bobby Womack, che con tempismo sospetto (e apparso a tanti scandaloso) avrebbe sposato la vedova di Sam, Barbara. Come compositore, Cooke realizzò alcune delle canzoni più originali, emozionanti e durature dell’era del soul, quelle stesse che gli ispirarono le performances più sincere e suggestive degli ultimi anni: i bluesy Somebody Have Mercy e Bring It on Home to Me (nel quale lo affianca l’ambrato e personalissimo baritono di un giovane chicagoano, Lou Rawls, già solista dei Pilgrim Travelers e prossimo a diventare un versatile stilista soul-jazz), le delicate ballad Sad Mood e Nothing Can Change This Love (mirabile è la lettura che Sam ne dà in un album uscito postumo negli anni Ottanta, tratto da un infuocato concerto in un locale nero di Miami) e l’effervescente, ipnotico e celebrativo Ain’t That Good News, sviluppato sulla falsariga dei temi pop-gospel di Ray Charles e chiaro omaggio alla propria matrice religiosa. Il brano dette il titolo e l’impronta celebrativa all’ultimo album in studio del cantante.

Tra gli altri episodi esuberanti del disco (Good Times o Meet Me at Mary’s Place) il capolavoro aveva però un clima ben distinto: era una lenta e introspettiva soul ballad dalle superbe proporzioni melodiche e liriche che anticipava il coinvolgimento politico di tanti artisti neri dalla seconda metà degli anni Sessanta. A Change Is Gonna Come, sorta di inno al movimento per i diritti civili, traduceva in un contesto secolare il messaggio di redenzione del gospel, la sua palpabile testimonianza sulle asprezze del presente e la buona novella di un mondo più giusto, non lontano da venire: e l’interpretazione di Cooke era superba, con una modulata e commossa compostezza da cui traspariva una venatura di inquietudine, di dolore esistenziale. 

Tragicamente, la ballad si sarebbe rivelata il suo testamento artistico. L’11 dicembre del 1964, in un sordido motel di Los Angeles, Sam veniva ucciso a colpi di pistola dalla manager dell’albergo: un caso misterioso, che lasciò interdetto chi conosceva Cooke (e che fece anche parlare a lungo di un possibile coinvolgimento della mafia discografica, in risposta alle molte iniziative indipendenti del cantante). Di lì a poche settimane, accoppiato all’esuberante Shake, A Change Is Gonna Come portava per l’ultima volta la voce di Sam Cooke nelle Top Ten dell’America nera: entrambi i brani (come diversi altri del suo repertorio, segnatamente l’antico evergreen Try a Little Tenderness) sarebbero stati presto personalizzati da uno dei più originali e talentuosi eredi di Sam, il georgiano Otis Redding.

 

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