Steven Wilson: in una scheggia del cosmo

Uno dei più indaffarati musicisti del nostro tempo si interroga sull’enormità dell’universo e le piccinerie degli umani

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Lo chiamano «l’uomo dei mille progetti», e la definizione gli sta a pennello. Steven John Wilson di Hemel Hempstead, Gran Bretagna, è uno dei più indaffarati rocker del nostro tempo, ammesso che basti la parola «rock» a contenere il tanto-e-ovunque di cui ama impicciarsi. Cinquantasette anni, una passione che lo divora da quando ne aveva dieci, una vulcanica mente in perenne eruzione che lo spinge a scrivere, produrre, suonare, remixare in una vorticosa girandola geografica e stilistica. Gruppi scandinavi, bands israeliane, sedute in sala a Città del Messico, concerti ovunque sul mappamondo; e Prog, metal, pop, ambient, electro in varie combinazioni e diluizioni. Wilson usa il suo nome o più facilmente si nasconde dietro le sigle che ha creato e che gli riempiono la vita: i Porcupine Tree sono la più gloriosa e celebre, ma ci sono o ci sono stati anche i No Man, i Bass Communion, i Blackfield, gli Storm Corrosion, l’Incredible Expanding Mindfuck e naturalmente i lavori solistici, frutto peraltro di una vocazione tardiva, dopo i quaranta. 

Per dare un’idea di quel che gli frulla in capo, Steven ama raccontare che il fuoco della musica gli si accese quando un Natale di tanti anni fa il padre e la madre si regalarono un disco ciascuno: «Dark Side of the Moon» per il signor Wilson, «Love to Love You Baby» di Donna Summer per la signora. Il giovane innocente crebbe influenzato (meglio: ossessionato) da quegli album, ascoltati fino ad aver le orecchie scorticate. Oggi sostiene che  tutta la sua musica può essere ben raccolta in quella doppia capsula, ma è bene chiarire una cosa; Donna Summer avrà anche indicato al pargolo il grande mondo dei ritmi ma furono i Floyd a incendiare davvero la sua mente e a popolare la testa con tutta quella fauna di grilli e sirene che ancora oggi melodiosamente fanno rumore. Il signor Wilson, ingegnere, costruì per il figlio un domestico registratore multitracce e una specie di vocoder, e con quelli Steven adolescente pasticciò i primi esperimenti, usando chitarre acustiche/elettriche e sistemi elettronici via via sempre più sofisticati, con una quantità di pedali azionati fin da allora a piedi nudi: una caratteristica che nelle cronache fa sempre colore e che negli anni ha procurato al testardo barefoot tutta una serie di guai, con perenne rischio di tetano. Da quei primi giorni una contorta vicenda fitta di avvenimenti, dal profondo underground delle prime cassettine autoprodotte ai dischi indie di cui sulle prime si accorsero solo i maniaci di Prog e psichedelia, fino alla consacrazione ufficiale, una quindicina d’anni fa, e alla gloria odierna. 

Wilson passerà alla storia della musica del nostro tempo per avere rivitalizzato un genere amato/odiato come il progressive, imbalsamato poi come Prog, il genere che condizionò la scena britannica dei primi Settanta con il suo immaginario fantastico e i richiami orchestrali e sinfonici, il serpente dalle mille teste che i ragazzi del punk e della new wave decapitarono alla fine del decennio senza riuscire in realtà a sopprimerlo. Venti anni dopo Wilson tornò sulle tracce e si impegnò con i tasselli sparsi di quel puzzle, per nuovi disegni. Trovò che per il suo spirito inquieto fossero perfetti quei gentili abbandoni romantici che poi si imbizzarrivano in tempeste wagneriane, replicò con passione la mutevolezza di certi cieli musicali d’aprile, dal grigio al celeste al nero più pauroso, con le sue chitarre, i pedali, l’urlo delle tastiere e della sezione ritmica. Non si limitò mai a recuperare ma volentieri a trasformare, a dilatare. Nel tempi i brani si sono spinti fino alla soglia del quarto d’ora e anche oltre, e con il tempo la favola ha indurito i suoi tratti. Il mondo degli elfi e dei fantasmi gentili è diventato anche un rumoroso inferno che spesso mette i brividi.

Steven Wilson

Il nuovo progetto di Steven Wilson è un album a suo nome intitolato «The Overview», due lunghe suite di una ventina di minuti ciascuna che vanno a comporre un album che dura quanto un classico long playing di quando il nostro cinquantenne era ragazzo: difficile che sia un caso. «Si tratta di un viaggio di quarantadue minuti basato sul cosiddetto effetto panoramico», è la spiegazione ufficiale, «secondo il quale gli astronauti che vedono la Terra dallo spazio subiscono un cambiamento cognitivo trasformativo, sperimentando spesso un apprezzamento e una percezione della bellezza travolgenti e un maggior senso di connessione con le altre persone e con la Terra nel suo complesso. Non tutte le esperienze peraltro sono positive; alcuni vedono la Terra veramente per quello che è, insignificante e persa nella vastità dello spazio, e la razza umana come una specie in difficoltà. Come riflesso di ciò, l’album presenta immagini e storie della vita sulla Terra, sia buone sia cattive.» Per rimarcare questi concetti Wilson ha voluto anche un film d’accompagnamento affidato a un regista amico, Miles Skarin, «un’esperienza audiovisiva» che aggiunge suggestione a suggestione e nelle prossime settimane porterà «The Overview» anche al cinema, con i pro e i contro di progetti simili; è ormai accertato che in quest’epoca l’occhio ha vinto la sua storica gara con l’orecchio ma viene il dubbio che il libro aperto delle immagini possa togliere qualcosa alla fantasia di chi ascolta, impoverendola.

Wilson vede la Terra dallo spazio, e noi con lui, ma il sorvolo è anche metaforico e riguarda l’amata musica che dicevamo prima, quella soprattutto dei Settanta. A lungo Steven ha preso le distanze dal Prog, per il comprensibile timore di essere scambiato per un banale emulatore, per un falsario d’epoca; e dopo il 2013, dopo l’acclamato «The Raven That Refuses to Sing», confessò l’intenzione di abbandonare proprio quel territorio. Qui però lo ascoltiamo tornare sui suoi passi, e per un semplice motivo: la sceneggiatura che aveva previsto, le due ampie tele e l’idea di un concept, gli è parsa perfetta per quei suoni e quelle atmosfere e specie la prima suite, Objects Outlive Us, è un fantastico resumé di quel che il cresciuto ragazzino innamorato di «Dark Side of the Moon» ha assorbito negli anni. A folate, a onde, a strappi, secondo il classico chiaroscuro di questo pittore di suoni, ci arrivano echi degli amati Pink Floyd e Yes e Jethro Tull e King Crimson, e poi ancora Caravan, Steve Hackett, Gentle Giant, Hawkwind, Tangerine Dream, e l’elenco sarebbe ancora lungo. Per inciso, tutti i nomi citati compaiono nella discografia del nostro Steven, che tra le molteplici occupazioni ha anche quella di remixer di opere storiche, preferibilmente (ma non solo) anni Settanta; un divertimento che gli ha dato fama ma procurato anche polemiche, per un certo suo immedesimarsi troppo nelle opere e ripittare proprio anziché limitarsi a restaurare.

Steven Wilson The Overview

«The Overview» è nato come disco rigorosamente «solo» ma strada facendo si è aperto a nuovi suoni e sfumature e ha richiesto l’intervento di altri musicisti; che sono poi regolari collaboratori, dal batterista Craig Blundell al tastierista Adam Holzman a Randy McStine, chitarra. Wilson si è accollato il grosso del lavoro e suoi sono anche le musiche e buona parte dei testi, con l’eccezione di un capitolo della prima suite, Objects: Meanwhile, che è stata affidata al grande Andy Partridge, che dal divano di casa sua a Swindon, dove da anni si è ridotto a fare l’Oblomov di provincia, ha inviato dei bellissimi versi che compendiano la filosofia di questo lavoro. Siamo un sassolino nel cosmo, si accalora Wilson, che subito all’inizio immagina l’incontro con un extraterrestre e maledice la stupidità degli umani che non capiscono questa verità fondamentale. Partridge rimarca suggestivamente il concetto, accostando banali storie quotidiane ai grandi eventi cosmici che accadono e neanche sfiorano le nostre  menti; tempeste solari, nebulose che si immergono nella Via Lattea, pianeti che scompaiono in lontanissime galassie mentre qualcuno fa una coda di un’ora per entrare in banca, un autista si cruccia per gli arretrati che non riceve, una donna si dispera perché la borsa della spesa si è rotta e uova e farina son finite a terra. «E le stelle si allineano in ordine/mentre noi litighiamo per limiti e confini». 

La prima parte è quella del lamento, della sconsolata invettiva, e ha la stoffa Prog che abbiamo detto; la seconda, The Overview, si stacca dal pianeta Terra con propellenti sonori più elettronici e simula un viaggio in spazi lontanissimi, con la voce della moglie di Wilson, Rotem, che nomina e misura corpi celesti come se li stesse vedendo dall’oblò di una navicella in volo. Ganimede, Callisto, Wolf 359, e poi Sirio, Altair, Vega, Polaris, sempre più lontano, fino a Omega centauri, Messier 54, Tarantula nebula; e ci si ferma all’exametro, poi nella scala verrebbero zettametro e yottametro, masse e dimensioni inconcepibili per la povera mente di chi abita in una scheggia del cosmo.

Wilson porterà «The Overview» in scena a inizio maggio, iniziando a Stoccolma un tour, il primo solistico da otto anni in qua, che dovrebbe vederlo impegnato almeno sino a fine anno. Eseguirà le due suite in quadrifonia e con le immagini del film, completando lo show con brani del passato, a cominciare da quelli di «The Harmony Codex», l’album precedente mai testato dal vivo. Nel frattempo sarà nei negozi anche il remix di «Pink Floyd at Pompeii», colonna sonora del leggendario film di Adrian Maben che a 53 anni dall’uscita Gilmour e compagni hanno deciso di pubblicare per la prima volta su disco in pompa magna. L’ha curato Wilson naturalmente, in uno dei suoi periodici viaggi alla ricerca del tempo perduto, per riprovare qualcosa che somigliasse alla gioia di quel lontano Natale che dicevamo, con i Pink Floyd e Donna Summer sotto l’albero.

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Riccardo Bertoncelli
Riccardo Bertoncelli
Riccardo Bertoncelli è un giornalista, critico musicale e conduttore radiofonico italiano.