Ran Blake: un poeta in bianco e noir

In occasione dei suoi novant’anni, approfondiamo la figura del grande pianista e didatta, autore di una musica «sola e unica», soprattutto perché da lui sottoposta a una reinvenzione continua, ostinata, coerente. E sotto vari aspetti inarrivabile

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Cominciamo da una canzone, Laura. La musica fu composta da David Raksin per l’omonimo film (in italiano uscì come Vertigine) e nacque in un modo singolare. Era il 1944. Il regista Otto Preminger pensava di usare come leitmotiv Sophisticated Lady di Duke Ellington e chiese un parere a Raksin, già noto autore di musiche da film, il quale fu lapidario: secondo lui quel brano non c’entrava nulla con la trama, sorta di noir romantico dove un detective che deve indagare sulla morte di una donna finisce dentro una specie di sortilegio. Preminger ribatté che se Raksin aveva di meglio, glielo portasse la mattina dopo. Il compositore si rimboccò le maniche e in poco tempo scrisse il tema, mettendovi dentro la malinconia per la sua recente separazione coniugale. In un secondo tempo fu Johnny Mercer ad aggiungere un testo nel quale l’atmosfera di mistero del film si travasava nella malia dei versi: il sentimento di riconoscere una donna mai incontrata, il volto nella luce della nebbia, quegli occhi così familiari… ma Laura è solo un sogno.

Cole Porter, che ha nutrito l’American Songbook di perle memorabili, dichiarò che Laura era l’unica canzone non sua che avrebbe voluto scrivere. In effetti si tratta di un autentico miracolo perché in essa musica e testo combaciano alla perfezione. E raramente un film ha potuto contare su un traino musicale così potente. Da allora, quindi, Laura ha avuto centinaia di interpretazioni. Una di queste appare già nel disco d’esordio di Ran Blake, musicista appartato ma importante della scena americana, giunto lo scorso 20 aprile al traguardo dei novant’anni di età. Vi sono su YouTube un paio di video che lo immortalano come è oggi, anno 2025. Si è tagliato la barba, che in vecchiaia lo aveva fatto rassomigliare parecchio a Ezra Pound, e pur nei limiti imposti alle sue mani dall’età avanzata è tuttora fedele a un corpus poetico vitale da oltre sei decenni. Un corpus nel quale troviamo alti risultati come «Wende», «All That Is Tied», «The Short Life of Barbara Monk», «Sonic Temples», «Something To Live For», «That Certain Feeling». Su Laura Blake tornò in altre occasioni, come in un intenso duetto con Enrico Rava. 

Abbiamo parlato di cinema e di canzoni e così abbiamo già detto molto del pianista di Springfield, Massachusetts. Si potrebbe anzi leggere la sua musica usando la sala cinematografica come metafora: uno spazio buio nella sua quasi interezza, con l’eccezione dello schermo luminoso sul quale scorre la storia. L’idea di musica che esce dal pianoforte di Blake si sviluppa (ne parleremo più in là) in termini molto simili. Non è un caso che il pianista sia un irriducibile cinefilo fin da quando aveva sedici anni e fu colpito da La scala a chiocciola di Robert Siodmak, film che lo fece appassionare soprattutto al genere noir. Tra l’altro, il vocabolo «noir» è forse il più ricorrente nei titoli e nei sottotitoli dei suoi dischi.

Ran Blake

Già maturo alla nascita

Nella storia del jazz compaiono musicisti che, pur lasciando intuibile – se non evidente – il loro genoma artistico, hanno modificato se stessi nel corso del tempo, e gli esempi più citati restano John Coltrane e Miles Davis. Invece, ve ne sono altri la cui formazione dell’identità è stata a tal punto rapida da poter essere quasi considerati già maturi alla nascita: Lester Young, Charlie Parker, Thelonious Monk, Billie Holiday, Django Reinhardt, per citarne alcuni. Ran Blake fa parte di questa seconda squadra, o almeno questo è ciò che possiamo desumere dalla sua discografia. Perché il suo esordio – «The Newest Sound Around», in duo con la cantante Jeanne Lee – è del 1961, quando Blake ha già ventisei anni. Per avere un disco interamente a suo nome ci vorranno addirittura altri quattro anni, quando la ESP Disk – benemerita etichetta che ha documentato la nascita della New Thing – gli farà registrare «Ran Blake Plays Solo Piano». Quello che vi è di fondamentale nei primi trent’anni di vita risulta essere un vorace ascolto di musiche della più varia natura, dal quale ascolto deriverà in seguito l’attività da lui svolta parallelamente a quella di artista, e con pari impegno: l’insegnamento. Se stiamo alle parole del compositore e musicologo Gunther Schuller, Ran suonava già a metà degli anni Cinquanta come avrebbe fatto nel suo album per la ESP Disk.

Blake ha avuto come mentori e insegnanti proprio Schuller e Mary Lou Williams, si è laureato al Bard College di New York, si è perfezionato con John Lewis, Oscar Peterson, alla School of Jazz di Lenox, Massachusetts, luogo frequentato dal fior fiore del jazz moderno a cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, alla Suffield Academy, alla quale ha dedicato un bel disco in duo con Houston Person («Suffield Gothic», Soul Note, 1983). Alla fine ha creato un mondo che nel jazz non esisteva ma che non ha inciso sulla musica venuta dopo di lui. Anzi, rispetto al jazz la musica blakeiana è in una posizione contigua e spesso comunicante. 

A Blake è stato accostato più volte Thelonious Monk. Lo stesso pianista di Springfield ha dichiarato che Monk ha avuto un peso importante nella propria crescita artistica, ed è fuor di dubbio che si trova in loro un comune modo «sghembo» di procedere, con un marcato gusto per le dissonanze e per un martellante impiego delle dita. Inoltre, entrambi considerano il pianoforte uno strumento non soltanto armonico, come la chitarra, ma soprattutto eminentemente percussivo, dunque più vicino alla batteria. (Tra parentesi questa idea di piano spiega anche l’interesse per Horace Silver, al quale Ran Blake ha dedicato un intero disco – «Horace Is Blue: a Silver Noir», Hatology, 1999 – benché non fra i suoi meglio riusciti). Nella maturazione di Blake come solista c’è, attraverso Monk. la lezione dello stride piano adattata al pianismo moderno. E vi è di certo anche l’esempio di Duke Ellington: per intenderci, quello di «Money Jungle» (1962), disco che sicuramente Ran Blake avrà ascoltato nei suoi anni giovanili. 

Tuttavia, tra Monk e Blake corre una considerevole distanza. Per dirne una, il primo lavora sul ritmo nella sua accezione «ballabile», da figlio degenere della Swing Era quale fu… Il secondo, invece, suona prevalentemente in rubato (non essendo per natura uno swinger); quando anche Monk rinuncia al ritmo, al suo amato mid-tempo – lo fa molto di rado, come nel meraviglioso piano solo di I Should Care (1964) – troviamo un’anticipazione di Blake. Quanto ai contenuti, in Monk tutto è appunto danza, gioco mentale, un vispo azzardo seppure immerso in una luce sinistra; per Blake, invece, suonare è la costante rappresentazione del lato dell’ombra, con il suo carico di angoscia. Sono pochissimi nella storia del jazz i musicisti presso i quali l’ombra è aspetto imprescindibile della poetica: Bud Powell, Chet Baker, in misura minore la Billie Holiday degli ultimi anni. Ma va segnalato, a scanso di equivoci, che l’uomo Blake è peraltro una persona assai dotata di sense of humour…

In «Ran Blake Plays Solo Piano» si scorge un’altra delle sue passioni: la musica gospel. È questa a regalargli quei bassi profondi e corpulenti che faranno parte del suo equipaggiamento d’artista: come in Sister Tee, pezzo scritto dallo stesso Blake che riecheggia Hallelujah I Love Her So di Ray Charles. Ma in questo album di debutto il pianista si sofferma con maggiore interesse sulle ottave acute dello strumento, insistendo su note singole, in un arco espressivo che va dalla delicatezza del carillon (accade in Eric, suo omaggio a Dolphy) fino a una carica che talvolta sfiora la veemenza (Birmingham, U.S.A., ispirato alle lotte degli afro-americani per i diritti civili). Anche quando si concede una parentesi piacevolmente rétro (Sleepy Time Gal) vi introduce elementi di disturbo. E un altro dei tanti semi gettati in «Ran Blake Plays Solo Piano», poi destinati a germogliare nella produzione successiva del pianista, è il non dare certezze all’ascoltatore, immergendolo in un mare di precarietà: Blake spezza le linee melodiche, cambia spesso e d’improvviso il tempo – quando c’è – ma soprattutto ricorre all’uso delle pause rendendole gigantografie del silenzio (Good Mornin’ Heartache). In conclusione, si tratta di un disco la cui importanza viene meglio compresa oggi di quanto non lo fosse sessant’anni fa, in piena stagione free, e che riafferma nel jazz la forza dell’ibridazione: «È una musica – aveva scritto Gunther Schuller nelle note di copertina – nella quale i mondi di Monk e Ornette Coleman, Webern e Ives, musica gospel e critica sociale si mescolano in un linguaggio musicale davvero speciale, venato di nostalgia e di un umore mutevole». Di sicuro, una musica come questa non si era ancora sentita. Peccato che il disco vendette molto poco. Artista di nicchia, pianista «per pianisti», Blake è stato quasi sempre pubblicato da case discografiche indipendenti, spesso europee, dove meglio è stata compresa la straordinaria articolazione del suo pensiero e la coerenza della sua offerta musicale.

Il canto quotidiano

La prima volta, dicevamo, in cui Ran Blake appare su disco è nei duetti di «The Newest Sound Around» con Jeanne Lee. È il caso di approfittare dell’occasione per aprire una parentesi sulla cantante newyorkese, imperdonabilmente finita nel dimenticatoio. Nata nel 1939, morta ad appena sessantun anni, Jeanne è stata figura unica sulle scene degli anni Settanta. Sin da giovane aveva basato la sua ricerca sulla confluenza di varie discipline artistiche (balletto, poesia, happening), anche se l’attività per la quale viene ricordata è all’interno della musica afro-americana, con collaborazioni importanti: Archie Shepp, Cecil Taylor, Anthony Braxton, Carla Bley, Marion Brown, Mal Waldron, Gunther Hampel (che diventerà suo marito). Come per Ella Fitzgerald, il primo passo della sua carriera fu la vittoria al concorso per giovani talenti del teatro Apollo di Harlem. Si era presentata lì accompagnata da Ran Blake, che aveva conosciuto quando entrambi frequentavano al Bard College, e con il quale era nato un felice rapporto personale e artistico, anche se di breve durata professionale. Già ai tempi del Bard avevano registrato a proprie spese un album demo, poi finito chissà dove. L’Apollo spianò a entrambi la strada per la realizzazione di «The Newest Sound Around». Il duo fu anche colto dal vivo a Stoccolma («Free Standards», Columbia, 1966) e molti anni dopo si ricostituirà per una sola occasione discografica («You Stepped Out of a Cloud», Owl, 1989). 

Jeanne Lee, anche quando interpreta delle canzoni, utilizza la voce come uno strumento, con più attenzione ai suoni, al fraseggio, alle armonie, all’atmosfera generale. Contralto profondo, ricostruisce la melodia forzandone gli elementi costitutivi, dilatando i tempi, rifuggendo dal vibrato, fino a ottenere una sorta di soul sull’orlo dell’astrattezza. Un’artista così non poteva che intendersi a meraviglia con Ran Blake. Su YouTube si trova un video registrato al festival di Antibes del 1963 e centrato sulla loro versione di All About Ronnie, video dal quale è palese l’attenzione del pianista all’intima evoluzione del canto di Jeanne Lee: in alcuni momenti lui la lascia sola, a cappella, in altri la «terremota» con le sue bordate sulla tastiera, sempre fissandone il volto per seguirla al meglio. È interessante osservare che nel primo disco la scaletta dei brani, con qualche rara eccezione, è formata da standard amati nel jazz: come il citato Laura, dove Blake tiene il tempo ma sparpaglia dissonanze, oppure Left Alone, la cui interiorità è rimarcata dalla vicinanza di Jeanne Lee al microfono. Nelle registrazioni di Stoccolma, invece, il duo va a immaginare gli standard potenziali – siamo nel 1966 – includendo quindi Jobim e i Beatles (già affrontati nel 1961 in versioni rimaste a lungo inedite), seppur secondo una personale visione «deformante» delle cose. 

Nella musica di Ran Blake uno degli aspetti più affascinanti è la considerazione della canzone come emblema dell’apparenza. Entra nell’orecchio di chiunque, agisce come vasodilatatore di emozioni, può segnare un capitolo della vita, eppure si tratta di quotidianità ingannevole. Le versioni che Blake dà di temi che magari conosciamo a memoria ci dicono che la canzone rispecchia la realtà soltanto in minima parte. E allora ecco che dietro la superficie di sentimenti, ricordi, sogni, rassicurazioni, dietro tutto quello che vi è di consolatorio, il suo pianoforte disegna l’angoscia, la tensione, le minacce. Blake ci mostra quello che nella canzone sta in ombra. È un po’ come la famosa doccia in Psyco di Hitchcock, dove un fatto banale viene rovesciato in misfatto.

La collaborazione con i cantanti diventa, a questo punto, un modo di cercare la canzone in quello che è il suo habitat: la voce umana. Le scelte di Blake sono cadute su artiste molto differenti fra loro. Nella portoghese Sara Serpa, sua ex allieva, ha trovato un timbro adolescenziale e un modo cauto di procedere, da provino per Broadway, come pure l’attitudine a non arretrare di fronte a un monumento come Strange Fruit di Billie Holiday, per di più a cappella, e a lasciarsi andare al gioco cabarettistico di Fine and Dandy («Aurora», Clean Feed, 2012). La statunitense Dominique Eade lo ha posto al cospetto di una voce piena, strutturata, da teatro lirico, e una vocazione quasi belcantistica per i crescendo. Eade è l’unica cantante ad aver regolarmente usato il vibrato accanto al pianista, un vibrato arioso, controllato da una tecnica di prim’ordine («Town and Country», Sunnyside, 2017). Il suo canto è lontano mille miglia da quello di Jeanne Lee, come lo è da quello dell’indo-americana Christine Correa che, tra tutte, vanta la collaborazione più lunga con Blake: insieme hanno pubblicato ben cinque dischi. Anche lei ha voce piena ma declinata in una pronuncia perentoria e in un piglio drammatico tali che Blake l’ha opportunamente impegnata in due omaggi ad Abbey Lincoln («Tribute to Abbey Lincoln, Volume One», 2012, e «The Road Keeps Winding: Tribute to Abbey Lincoln, Volume Two», 2015, entrambi Red Piano).

Ran Blake

In questo discorso ci si potrebbe permettere un azzardo e includere i duetti realizzati da Ran Blake con Enrico Rava. Che non è un cantante, naturalmente, ma che dagli anni Ottanta in poi ha costruito parte del suo lavoro sulla ricerca della «vocalità» della tromba, in una elaborazione che assimilava Armstrong, Miles Davis, Chet Baker, e che dunque congiungeva il jazz americano all’Italia, terra del Belcanto. Il disco uscito dal loro incontro («Duo en Noir», Between the Lines, 1999) e registrato dal vivo a Francoforte, è in parte ispirato ai film di Hitchcock e di Siodmak, ed è stato dedicato a posteriori al trombettista Art Farmer (che ci lascerà di lì a poco). Blake suona in modo meno avventuroso del solito ma ugualmente sa rendere imprevedibile la lettura degli standard prescelti e, in definitiva, valorizza i «racconti» di un Rava dalla toccante limpidezza.

È stato comunque con Jeanne Lee che Blake ha dato vita al rapporto più telepatico, più intimo, più importante di tutta la sua carriera, pur costellata di innumerevoli esperienze in duo. Nel ricordare Jeanne il pianista avrebbe confessato, con tristezza: «Pensavo che saremmo invecchiati insieme».

Il passato è una terra fertile

C’è una cantante per la quale Ran Blake nutre una particolare venerazione: Chris Connor, voce fra le più esemplari degli anni Cinquanta americani. Di certo il pianista dovette sentirsi al settimo cielo quando Connor accettò nel 1978 di partecipare al suo disco «Rapport» (Novus) per una nebbiosa versione del brano Wende. Al di là degli aspetti più puramente tecnici, Blake ne ha individuato gli aspetti importanti dello stile: «la sua intensità, o uso del silenzio, e la sua abilità di sorprendere». I quali, alla fine, trasformano «le sue performances più ardite», secondo le parole di Luciano Federighi, «in piccoli oggetti ansiosi» (1). Questi pochi tratti bastano a capire perché, al di là delle ovvie, numerose e profonde diversità di stile, Blake senta vicina a sé l’arte della cantante di Kansas City, fino ad averle dedicato uno dei suoi album più belli («Cocktails at Dusk: A Noir Tribute to Chris Connor», Impulse!, 2012).

Questa dedica alla cantante rientra in un cospicuo numero di omaggi – brani singoli o perfino interi dischi – che Ran Blake ha rivolto ad alcuni grandi che con la loro arte lo hanno nutrito. Ogni artista, del resto, vive sulle spalle dei giganti del passato. E quindi, ecco che, sia sul palcoscenico sia negli studi di registrazione, Blake ha rappresentato il suo pantheon personale. «Unmarked Van» (Soul Note, 1994) – disco al quale partecipa in quattro brani Tiziano Tononi – è un intenso tributo a Sarah Vaughan, dunque una cantante per la quale la voce deve farsi strumento musicale in grado di surfare sul «racconto» del testo. Come già in Chris Connor e in Jeanne Lee, Blake ne ammira la continua esplorazione tecnica, da prendere a modello di comportamento. Nel disco, per esempio, troviamo ben quattro versioni di Tenderly: non si tratta di takes, cioè di versioni affini dalle quali poi si sceglie la migliore da pubblicare; ogni volta, invece, il pianista ricompone daccapo la sua visione del brano, lo esplora appunto, lo rielabora da prospettive differenti, cosicché alla fine abbiamo quattro opere completamente indipendenti tra loro.

Non è un caso che Ran Blake si sia dedicato, con notevolissimi risultati, anche a due autori come Duke Ellington («Duke Dreams», Soul Note, 1981) e George Gershwin («That Certain Feeling», hat Art, 1990, con Steve Lacy e Ricky Ford). Nel 1973 il pianista aveva creato all’interno del NEC (New England Conservatory of Music), su invito del suo presidente Gunther Schuller, il Dipartimento per lo studio della Third Stream. Quest’ultima fu, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, un’idea di jazz che incorporava forme recepite dalla musica classica o contemporanea europea, idea che peraltro aveva già avuto svariate incarnazioni: la Rhapsody in Blue di Gershwin ne è l’esempio più eclatante, ma non è da dimenticare l’attenzione che Ellington e il suo braccio destro Billy Strayhorn riservarono, nella loro scrittura orchestrale, all’impressionismo europeo. Nei suoi corsi Blake ha presto esteso la vocazione del jazz al «meticciato», includendo lo studio delle tradizioni popolari degli altri continenti; e per questo motivo il nome muterà in un più generico Dipartimento di Improvvisazione contemporanea. Nel suo pianismo, inoltre, sono state individuate le influenze di Ives (ah, quei tours de force dei bassi…), Bartók e perfino Webern, quest’ultimo per l’abilità di concentrare la massima densità in brani di breve durata.

Naturalmente non poteva mancare Monk, verso il quale Ran aveva mostrato in gioventù un’adorazione degna di una groupie. Il borsone nero che ha voluto come logo personale in parecchie copertine dei suoi dischi lo ha chiamato Thelonious… Ai brani scritti (o amati) da Monk, Blake ha dedicato un album intero («Epistrophy», Soul Note, 1991), ricomponendoli alla radice fino a farne materia personale. Quello che dà il titolo al disco è pubblicato in tre versioni, con la prima che si accosta a Monk, mentre già la seconda si trasforma in una rarefazione di note che sfiora il disegno astratto. È un lavoro nel quale Blake sostanzialmente si confronta con il suo modello principale solo per misurarne la distanza acquisita. Proprio in questa affermazione di identità stanno il suo fascino e la sua importanza. 

Ed è impossibile non ricordare che c’era stato ancora il cognome Monk in un disco che Ran Blake aveva realizzato cinque anni prima, ma stavolta la dedica era a quella che in famiglia veniva chiamata «Boo Boo». «The Short Life of Barbara Monk» (Soul Note, 1986) ricorda la figlia di Thelonious, morta prematuramente di tumore un paio d’anni dopo il padre. Anzitutto, la sterminata discografia di Blake è occupata per gran parte dal pianoforte solo, con l’eccezione di un buon numero di duetti e di un paio di organici più ampi con allievi del conservatorio, mentre questo disco è una rara esperienza in quartetto. Al sax tenore c’è il sottovalutatissimo Ricky Ford, musicista di grande apertura mentale e dotato di una «voce» corposa e assai espressiva, Ed Felson è al contrabbasso, Jon Hazilla alla batteria, e tutti e tre sono ex allievi del pianista. «The Short Life of Barbara Monk» non è fra le opere più rappresentative di Blake, eppure in termini d’intensità è di certo fra le più emozionanti, a tal punto che la Penguin Guide to Jazz Recordings (2) aveva inserito il disco nella sua Core Collection, cioè nell’elenco dei dischi indispensabili. La malinconia che per gran parte vi aleggia non si esplicita soltanto nel brano struggente che intitola il disco, ma anche nel cupo Impresario of Death, nella canzone sefardita Una matica de ruda, in Vradiazi di Mikis Theodorakis, nel dolente Pourquoi, Laurent?, dedicato al critico jazz Laurent Goddet (che morì suicida). A far da «contrappeso» vi sono la sensualità para-ellingtoniana di Dark, due brani dell’orchestra di Stan Kenton e la brillante I’ve Got You Under My Skin.

Negli omaggi ai grandi del passato si condensa un sistema di pensiero che Ran Blake ha sperimentato su di sé e poi trasmesso ai suoi allievi. Detto in breve, l’elemento primario attraverso il quale un musicista costruisce la propria identità è l’orecchio. «Quando ascolti, l’orecchio reagisce prima che il cervello abbia il tempo di elaborare (…) Ti offre una linea diretta con il tuo DNA musicale, ti permette di accedervi e di comunicare la tua musica più onesta e originale. Mettere al centro dell’apprendimento musicale l’orecchio anziché le dita (tecnica) o il cervello (teoria) è la chiave per formare uno stile davvero personale», ha scritto il pianista in Primacy of the Ear, libro dove ha condensato in brevi capitoli la sua didattica (3). In queste lezioni Blake poi spiega che dopo avere ascoltato musiche anche molto diverse occorre lasciare che lavorino a livello subliminale e si depositino in una memoria per così dire «allenata». Alla fine si crea un repertorio mentale che può abbracciare musiche provenienti da ogni dove. Lo stesso Blake ha fatto propri al pianoforte autori di origini diverse: Kurt Weill, Al Green, Stevie Wonder (sul quale ha tenuto perfino un corso), Cole Porter, Alex North, Burt Bacharach, Frank Zappa, Milton Nascimento… È stato così fin dai suoi esordi e in proposito è da sottolineare come, in un’epoca nella quale la performance delle avanguardie jazzistiche anni Sessanta si orientava in prevalenza verso la lunga durata, Blake aveva invece scelto per sempre come campo d’azione uno spazio temporale ristretto, dai due ai sei minuti.

Buio in sala

Ran Blake è un artista talmente caratterizzato nella sua identità, talmente assorbito dal proprio mondo interiore, che la sua discografia e i suoi concerti hanno finito con l’essere in gran parte per pianoforte solo. Se alcuni incontri hanno avuto comunque esiti rilevanti – Steve Lacy, Ricky Ford, Clifford Jordan, l’allievo David «Knife» Fabris, oltre ad alcune cantanti citate – altre volte il confronto è stato con personalità troppo lontane da lui per scongiurare i compromessi, ed è il caso di Jaki Byard e di Anthony Braxton. Di certo è nel pianoforte che va cercato il senso ultimo della musica di Blake. 

Grazie a una ragguardevole preparazione tecnica, Blake va oltre la gestione delle mani più diffusa nel jazz, vale a dire con la sinistra incaricata dell’accompagnamento (accordi, ritmo) e la destra destinata, invece, a tracciare la linea melodica. Blake si avvicina piuttosto ad Art Tatum nello scompaginare i ruoli tradizionali fra le due mani, affinché si estenda lungo tutta la tastiera un’idea dell’interpretazione – rigogliosa ma a volte anche distillata – espressa da un continuo andirivieni fra note singole, block chords e arpeggi. A favorire la sua padronanza dello strumento sono state le dimensioni allungate delle mani. Ma anche lo straordinario uso dei piedi, come ha ricordato Fred Hersch in un’intervista: «Andavo ad ascoltarlo quando studiavo al NEC. È il maestro dei pedali, riesce a farci più di quasi tutti gli altri pianisti che conosco. Mi sedevo alla Jordan Hall e continuavo a pensare: Come diavolo ha fatto? E riesce a farlo tuttora (…) ogni sorta di mezzo pedale, di un quarto di pedale» (4).

Della padronanza dello strumento messa al servizio di una poetica preziosa, com’è ovvio, la discografia di Ran Blake è piena di esempi; ma dovendo indicare uno solo fra i brani più emblematici si può ricorrere a Jim Crow (dall’album «Wende», Owl, 1976). Il titolo si riferisce al personaggio di una canzone ottocentesca, con annesso balletto, nel quale era messo in caricatura lo schiavo afro-americano, divenuto poi simbolo della segregazione razziale. In poco più di tre minuti Ran Blake ci racconta una storia che si apre in modo beffardo, con violente bordate sulla tastiera e dissonanze come di campane percosse con forza. A minuto 0.52 entra in scena un riff tenuto tutto sulle note gravi e a volume basso, a creare una minaccia in avvicinamento. Poi riesplode per qualche momento l’atmosfera iniziale e da lì, a sorpresa, emerge un boogie-woogie. Infine altra violenza, prima che il racconto si avvii verso un finale di rarefazione estrema. Questo brano è significativo di quanto Ran Blake sia fino al midollo uno storyteller che descrive ambienti ed eventi. 

Il misterioso potere evocativo del suo pianoforte, dunque, rimanda alla sala cinematografica, dove Ran Blake si è rinchiuso un’infinità di volte, «inghiottito in una sospensione del tempo», per dirla con Italo Calvino (5). L’esperienza in questo spazio buio, che soltanto in una parete è illuminato dalle immagini della storia che scorre sullo schermo, si trasferisce in parecchie performances del pianista, che sono appunto costruzioni formate dalla tenebra delle ottave basse – una oscurità gelida o febbrile oppure esplosiva – dentro o accanto alla quale si muovono le frammentarie melodie che arrivano fino all’estremo più acuto dello strumento. Il pianoforte mette in scena la suspense, il mistero, i fantasmi che si possono trovare (o attribuire…) all’interno di un brano, anzi, di una semplice canzone. È fuor di dubbio che per raccontare certi fantasmi bisogna averceli dentro; e dunque, il chiudersi in una sala cinematografica per guardare un film noir e praticare l’improvvisazione jazzistica (che invita a non coltivare certezze) sono per Ran Blake due buoni modi di esorcizzarli. Da questa passione per il cinema, che così tanto ha nutrito la sua musica, sono nati non solamente brani in omaggio a film, registi e autori di colonne sonore ma perfino interi dischi, come «Film Noir» (1980), «Vertigo» (1984) e «Chabrol Noir» (2015).

Nella discografia di Ran Blake vi è comunque qualche eccezione. Quel gigantesco teorema dell’inquietudine, da lui enunciato in ogni performance, viene ad esempio molto circoscritto in «All That Is Tied» (Tompkins Square, 2006), forse il più abbordabile per chi si accosta per la prima volta alla sua musica. In questo disco egli ripercorre alcuni suoi brani già eseguiti in passato. Stavolta il passo si fa più tranquillo, la postura è meditativa, il clima si presenta generalmente più quieto anche in pezzi che nelle versioni passate avevano toccato l’aggressività (Birmingham, U.S.A.). Questo riprendere in mano antiche pagine diventa un emozionante lavoro sulla memoria nel quale Blake fa riemergere la spiritualità e la cordialità dell’amato gospel, e dove ritrova nel proprio vocabolario le blue notes.

«All That Is Tied», si diceva, rappresenta un’eccezione, come lo è il seguente e meno riuscito «Driftwoods» (Tompkins Square, 2008). Per il resto, i dischi di Blake formano un corpus lineare e ben definito nel quale le differenze che si colgono sono appena percettibili: per fare due esempi, «Wende» (Owl, 1976) inclina verso una lirica malinconia, mentre «Realization of a Dream» (Owl, 1978) ha un percorso più tormentoso (dischi eccezionali entrambi, comunque). La compattezza con la quale si presentano gli oltre sessant’anni dell’attività creativa di Ran Blake è il riflesso di una natura e di un destino che sono stati bene individuati dallo scrittore Jon Fosse in ciò che accomuna gli artisti: «In altre parole, ogni vero poeta può scrivere solo una poesia, in realtà ha solo una poesia, e nella sua produzione letteraria degna di questo nome rimane fedele a questa poesia, la ascolta e cerca continuamente di esprimerla. Perché questa poesia non può mai essere completamente espressa. (…) Analogamente anche un grande musicista ha la sua musica, sola e unica, che cerca di suonare, volta dopo volta». 

Sì, una musica «sola e unica» soprattutto perché sottoposta da Ran Blake a una reinvenzione continua, ostinata, coerente. E sotto vari aspetti inarrivabile.

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