Youn, parliamo del tuo nuovissimo album: «She Moves On». Rappresenta un nuovo viaggio musicale?
E’ veramente un nuovo viaggio, una nuova direzione non pianificata. Non avevo mai registrato, precedentemente, con musicisti statunitensi e ho avuto l’occasione per farlo. Ho sempre suonato con musicisti europei, che adoro. Tre anni fa ho deciso di prendermi una pausa e sono tornata a casa: avevo vissuto a Parigi per molto tempo e volevo tornare a casa in Corea. Avevo bisogno di ritrovare la mia creatività e di presentare cose nuove al mio pubblico, che amo. Durante questo periodo ne ho approfittato per andare a New York, dove sono rimasta per circa tre mesi e ho assistito a molti concerti: dai quelli nei jazz club a Beyoncé, Guns n’ Roses, Sting, Peter Gabriel: tutte musiche differenti dal jazz. Ma non pensavo di certo che avrei registrato a New York, volevo solo divertirmi. Quando sono tornata in Corea, a novembre, ho scoperto questo fantastico tastierista, Jamie Saft, e ho scoperto che lui viveva a New York e gli ho inviato una mail, chiedendogli se voleva collaborare con una cantante jazz coreana; e lui mi ha risposto: «Ma certo! Dai, vieni». E così abbiamo registrato il disco, senza che nulla fosse stato pianificato.
Quale criterio hai seguito nella scelta dei brani?
Amo tutti questi songwriter, come Joni Mitchell, Paul Simon; amo la musica di Jimi Hendrix, Lou Reed, ma non li conoscevo bene. Quando sono arrivata a New York, Jamie me li ha fatti conoscere meglio, perché lui è un profondo conoscitore della musica dei songwriter statunitensi, così come Frank Sinatra; Jamie è un musicista d’avanguardia, ma anche con una profonda conoscenza delle voci del jazz e non solo: per lui sono fonte di ispirazione per la sua musica. Così, ho avuto modo di scoprire nuovamente – e conoscere meglio – questi grandi musicisti e le loro composizioni. I brani li ho scelti senza un particolare motivo, solamente perché mi piacciono, perché mi emozionano. Ho chiesto a Jamie di suggerirmi alcuni brani in particolare, perché la discografia di questi musicisti è sterminata. E lui mi ha suggerito di ascoltare tutti gli album di ciascuno di loro, partendo dal primo. Quando trovavo un brano che mi piaceva, chiedevo a Jamie se poteva andar bene e, alla fine, mi sono accorta che avevo selezionato una serie di brani poco consueti e che erano stati poco «coverizzati». Non è stata una decisione pianificata quella di scegliere dei brani meno conosciuti, è frutto solo del mio gusto, delle emozioni che ho provato nell’ascoltare quei brani.
Il titolo del tuo disco si ispira alla canzone di Paul Simon. La ragazza che va avanti sei tu?
Sì, penso che stia andando avanti. In realtà, non so dire in quale direzione vada la mia musica. Non so cosa stia succedendo e cosa possa succedere e cosa potrò trovare strada facendo. So solo che sto andando avanti. Forse, suonando con musicisti statunitensi continuerò a cantare canzoni americane, ma continuerò sempre sulla via del jazz.
A conti fatti, sei completamente soddisfatta di questo disco?
In realtà, è tutto molto nuovo per me e ancora non realizzo molto ciò che è successo. So che è stato bellissimo registrare a New York, ma tutto è avvenuto così velocemente. Allo stesso tempo, mi ha dato una nuova energia per provare nuove cose, sperimentare nuovi percorsi e andare avanti. Questo album mi ha dato una differente prospettiva della musica.
Se la tua musica fosse un dipinto, cosa rappresenterebbe?
La natura con i suoi diversi colori, i fiori, ma non quelli che puoi trovare in un negozio, ma quelli che puoi trovare in natura, quelli selvaggi.
Quanto ha influenzato la tua famiglia la tua creatività e le tue scelte?
I miei genitori erano dei musicisti. E quindi ho ascoltato musica da sempre, ma non jazz. I miei genitori sono stati anche i miei maestri e mi hanno spinto a ricercare musica. Mi hanno dato degli ottimi consigli, mi hanno spronato senza enfatizzare nulla. Mia madre è stata una grande cantante e mi ha insegnato a sfruttare tutte le possibilità che la voce riserva e a essere creativa, a fare pratica quotidianamente.
Allora, perché hai deciso di trasferirti in Francia?
Volevo studiare francese. Non volevo fare la musicista, ma volevo occuparmi di altro: lavoravo per una società di moda. Accettai di entrare a far parte di una compagnia di musical, ma il mio ruolo prevedeva solo che cantassi e non anche la parte attoriale. Così, ho capito cosa volevo fare nella vita. Chiesi a un mio amico musicista coreano cosa avessi dovuto fare, quale musica avrei dovuto ascoltare. E lui mi consigliò il jazz. Cosa è il jazz? gli chiesi! Così ascoltai delle canzoni francesi jazz e mi informai in quale scuola a Parigi avessi potuto studiare jazz.
All’inizio della tua carriera hai collaborato con la Korean Symphony Orchestra. Cosa ti ha insegnato questa esperienza nell’approccio al canto?
Fu uno shock, perché mio padre era il direttore dell’orchestra. Ed è stata una grande esperienza. Ho capito, però, che per fare musica bisogna sempre saper collaborare, altrimenti tutto diventa molto difficile.
C’è qualcosa in particolare dalla quale trai ispirazione?
La gente, senza dubbio. Ovunque vada, la prima cosa, la più importante è la gente che assiste ai miei concerti: è quella che mi da la carica. Per esempio, il pubblico italiano è sempre meraviglioso!
Hai altri progetti in cantiere?
E’ un cantiere aperto!
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Io vivo in un sogno, perché non avrei mai potuto immaginare anni fa che tanta gente avrebbe conosciuto la mia musica.
Alceste Ayroldi