Walter Becker: la metà degli Steely Dan

La metà degli Steely Dan rivisita i cinquant’anni di uno dei gruppi fondamentali del jazz-rock degli anni Settanta, ancora in piena attività

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Walter Becker

Walter, hai realizzato un album con un produttore, hai avuto un produttore con gli Steely Dan, ma tu stesso sei un produttore…
Questo è vero, in una certa misura. Ma quando hai qualcuno che capisce abbastanza bene ciò che vuoi fare, qualcuno che ti può aiutare, che può vedere come stanno le cose, che può dare forma alle tue idee e scrivere insieme a te – ovvero quel che ha fatto Larry Klein – può essere d’enorme aiuto. Per cui, quando abbiamo inciso i brani, ho finito per restare in sala con il gruppo e limitarmi a suonare…

Lasciando che l’espressività scorresse libera…
Proprio così. Non dovevo trasformarmi continuamente da musicista a produttore e viceversa. Ed è lo stesso quando canto: è più facile appoggiarsi a qualcun altro che risolve tutto… Canti una manciata di takes, poi il produttore le mette assieme.

È interessante il fatto che tu abbia scelto come produttore un bassista. Dipende anche forse dalla tua ottima conoscenza del basso elettrico?
Che Larry Klein sia un bassista è stata più una coincidenza che altro, perché non ha suonato mai se non su un brano. Il suo contributo è stato più in termini di scrittura e a livello concettuale. Larry è un ottimo musicista, ma è anche estremamente abile come produttore.

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Donald Fagen e Walter Becker – Steely Dan in una immagine del 1993

Nella tua carriera hai fatto un grande sforzo per non scrivere canzoni d’amore. La nostra idea è che tu e Donald Fagen abbiate sempre scelto di forzare le convenzioni, anche nella scrittura. Vi è costato fatica – ammesso che fosse una scelta deliberata – procedere in questa direzione?
Di solito, quando è il momento di scrivere i testi delle canzoni, seguo la prassi della minima resistenza e applico il mio naturale interesse verso le cose. Ci ho pensato, e se mai farò qualche altra cosa a mio nome proverò a inquadrare questo aspetto in un modo diverso. Lo renderò più una faccenda di stile, in modo che le cose accadano in una certa maniera. Ripeto, ci ho pensato ma non l’ho ancora fatto. In tutti questi anni ho scritto per gli Steely Dan nei lunghi intervalli tra gli album a mio nome. Alcune mie canzoni sono state scritte a sprazzi nel corso degli anni, ma nella maggior parte dei casi mi sono seduto a tavolino e ho deciso a mente fredda il da farsi. Quando lavori per te stesso, dopo aver sfacchinato in coppia per tanti anni, godi di stimoli inaspettati. Quando scrivo con Donald, magari io ho una certa idea e lui ne ha un’altra… e se non siamo entrambi d’accordo buttiamo via tutto. Ma la libertà che ti ritrovi in mano lavorando da solo può essere sconvolgente. E per i pochi dischi a mio nome è stato sempre così.

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La prima versione degli Steely Dan nel 1972: da sinistra Jim Hodder, David Palmer, Denny Dias, Donald Fagen, Jeff “Skunk” Baxter and Walter Becker – foto Michael Ochs Archives/Getty Images

I tuoi esordi musicali sono avvenuti in un periodo di grande eclettismo, nella musica e in mille altre manifestazioni artistiche. Gli anni Settanta, invece, sono stati un decennio completamente diverso. E quando hai deciso di fare i due dischi a tuo nome hai dovuto affrontare un mondo diverso, più rigido, specialmente nel campo musicale. Cosa ne pensi?
Penso che, per esempio, certe soluzioni armoniche che io e Donald abbiamo inventato come Steely Dan negli anni Settanta, e che all’epoca avevano fatto colpo, oggi sono diventate un luogo comune. Quindi non puoi più usare le stesse tecniche per ottenere lo stesso effetto, devi trovare qualcosa di nuovo.

Nuove armonie jazzistiche, dici?
Sì, certo. È necessario cercare cose nuove: io e Donald lo abbiamo sempre fatto lavorando assieme e lo faccio anche quando lavoro da solo. Cercare soluzioni armoniche che spacchino. Cercare di usare i testi in modo che facciano colpo.

Forse è anche una maniera di mantenere vivo l’interesse in ciò che fate… Esattamente. Devi sempre trovare qualcosa che ti entusiasmi, per affrontare il tuo lavoro e arrivare fino in fondo.

Per quanto riguarda i testi delle vostre canzoni, saprai senz’altro che, negli anni, molti ascoltatori hanno incredibilmente preso alla lettera le strane vicende che raccontavate negli album degli Steely Dan.
Quel che passa nella testa della gente non lo capirò mai…

Hai mai pensato che qualcuno potesse prendere così sul serio testi di fantasia o che si riferivano indirettamente alla vita di tutti i giorni? Come se i vostri personaggi fossero persone reali e non totalmente inventati!
Dopo il primo album degli Steely Dan («Can’t Buy A Thrill», 1972) io e Donald fummo contattati da una persona con evidenti problemi mentali, convinta che tutte le canzoni del disco parlassero di lui. Ci disse che la sua ragazza lo aveva lasciato e che non riusciva a togliersela dalla testa… Insomma, questo tipo continuava a starci addosso e non riuscivamo a levarcelo dai piedi. Il bello è che quel tale non era affatto un caso isolato, anzi. E la faccenda è ulteriormente peggiorata dall’avvento di internet. Arrivano commenti da una grande quantità di persone e, alla lunga, ti convinci che tanta gente idealizza le cose che hai scritto nelle canzoni e si fa delle idee completamente assurde sul tuo conto. Il paradosso è rapportarsi al lavoro di un songwriter facendolo diventare una persona fittizia, una specie di entità che ha scritto o sta cantando ciò che ascolti. C’è chi non si rende conto che il Walter Becker che scrive canzoni non è lo stesso che ha una vita propria, chi non si rende conto che non si può sovrapporre il lavoro alla vita privata di un artista. È una situazione assurda e lo è sempre stata, tanto che a un certo punto abbiamo cominciato a scrivere canzoni che cercassero di parlare in maniera più diretta a queste persone, che affrontassero l’idea che la gente aveva di noi attraverso le canzoni. È un aspetto singolare della dinamica che si instaura tra artista e pubblico, e ogni tanto mi viene in mente che siamo quasi costretti a sentirci responsabili perché qualcuno ci prende clamorosamente alla lettera… È difficile capire come gestire in maniera sana e non paranoica questo tipo di interazione.

Ma, per dire, come credi che siano stati interpretati i vostri testi in Paesi non di madrelingua inglese? Il rischio del fraintendimento c’era.
Già. A metà anni Settanta, quando abbiamo iniziato a essere intervistati anche in Europa, ci siamo resi conto che non tutti, da voi, comprendevano bene la nostra lingua. Non sapevano cosa volessimo dire con termini come scam o pretzel, apprezzavano la musica ma non capivano le parole. Questo porta all’estremo limite ciò che succede anche con chi le parole le capisce, perché la gente non sa sempre ciò che vuoi dire quando scrivi ma a grandi linee riesce a indovinarlo. Un tempo conoscevo un tale che aveva pubblicato una raccolta di testi di canzoni completamente fraintese, misheard lyrics, ed era uno spasso leggere ciò che si era immaginata la gente. Molte volte quelle interpretazioni sballate avevano più senso di quel che avevamo scritto noi!

Ma negli ultimi trent’anni l’Europa è diventata più vicina agli Stati Uniti…
Credo di sì. I mass media hanno fatto la loro parte, almeno in questo.

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Walter Becker e Donald Fagen, fondatori degli Steely Dan in una fotografia recente

L’impressione che si è sempre avuta degli Steely Dan è che tu e Donald Fagen aveste una pazienza infinita: per fare un album ci mettevate un’eternità cercando il giusto groove, cambiando decine di musicisti prima di trovare quelli giusti, lavorando in studio in maniera meticolosa, addirittura certosina… Adesso, invece?
Oggi è cambiato tutto. C’è un limite al tempo che posso passare a lavorare su un brano specifico. Quando ho registrato il mio ultimo album, per esempio, abbiamo preparato tutti i brani in dieci giorni. I musicisti sono rimasti sempre gli stessi, avrò forse aggiunto un paio di persone. Abbiamo fatto le prove tutti assieme, abbiamo suonato tutti i pezzi così che tutti quanti potessero rifletterci sopra con un certo anticipo e così via. L’idea era di catturare il massimo della spontaneità in sala di registrazione, quindi abbiamo soltanto sovrainciso un po’ di voci. E se fossi stato un vocalist migliore avrei provato a cantare in diretta. Farei tutto live, se potessi. È molto meglio per me lavorare in modo più compatto, probabilmente perché ho più esperienza e sono più bravo di un tempo a captare l’attenzione dei musicisti. Insomma, oggi devo essere in grado di fare il mio lavoro senza perdere due anni su un disco.

All’epoca ti è mai capitato di pensare che sì, stavate lavorando sodo su un album ma c’era il grosso rischio di perdere la strada? Oppure era proprio necessario perdere la strada per poi trovare quella giusta?
Di certo impari qualcosa di nuovo; se ti metti nei guai, poi devi sapertela cavare. Ci è capitato spesso di venircene fuori con delle canzoni che erano troppo complicate o poco definite, brani che mettevano assieme un po’ di questo e un po’ di quello… È un ottimo modo per farsi le ossa. Non lo consiglio certo a tutti ma si imparano tante cose nuove. Inoltre Donald è molto diverso da me: lui può discutere su una canzone per una settimana intera, senza mai toccare il pianoforte, poi si siede e suona ciò che è davvero giusto per quel determinato brano. In pratica Donald riesce a elaborare mentalmente la corretta direzione di un brano. Lui dice di averlo imparato osservando Glenn Gould. Per esempio, quando abbiamo registrato «Gaucho» non riuscivamo a ottenere dai musicisti il risultato che volevamo e siamo stati costretti a lavorare con il computer per creare il flow delle canzoni… Praticamente abbiamo inventato il sequencer: è stata la prima volta su un disco, nessuno lo aveva fatto prima. C’era chi usava loop o cose del genere, ma noi siamo stati i primi a usare il computer in una registrazione digitale. Ed era il 1980. Per cui, tante volte si scoprono cose nuove mettendosi fondamentalmente nei guai, e credo che i musicisti che avevamo chiamato a suonare nell’album la pensassero, in fondo, allo stesso modo: non avrebbero mai fatto la cosa più semplice ma scelto la via più ambiziosa. Quando funzionava era fantastico. Ma non sempre funzionava subito e io spesso mi annoiavo: allora era necessario trovare delle soluzioni.

Quand’è che il rapporto tra te e Donald Fagen è stato definito a livello pratico, se mai c’è stato un passaggio del genere? Scrivere canzoni assieme è come essere sposati, non c’è bisogno di parlare perché le cose funzionano lo stesso… E poi arriva il momento in cui è necessario mettere bene in chiaro il funzionamento della coppia.
Io e Donald ci siamo conosciuti all’università. Avevo due anni meno di lui, che suonava in tutti i gruppi – al college ce n’erano quattro o cinque – e volevo suonare il basso. Così l’ho abbordato e gli ho detto: «Ehi, se mai ti servisse un bassista, fammi sapere…». Ma a Donald non poteva fregare di meno. Il suo bassista era quello che trovava gli ingaggi, quindi non poteva essere sostituito.

Era come quello che ha il furgone…
Esatto, in pratica era lui quello con il furgone! Comunque, nei pressi del college c’era un piccolo club in cui andavo a suonicchiare la chitarra. Una volta Donald mi sentì suonare e fu allora che iniziò a prendermi in considerazione, perché i chitarristi che conosceva erano tutti sostituibili e facevano abbastanza schifo. Da quel momento abbiamo cominciato a lavorare assieme, soprattutto dopo aver scoperto che ascoltavamo lo stesso tipo di musica.

Questo risale ai tardi anni Sessanta?
1967, 1968, e da allora non è più finita…

Ernesto De Pascale

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Walter Becker e Donald Fagen – Steely Dan in un concerto allo Hollywood Bowl June 18, 2016 in Hollywood, California – foto Mathew Imaging/WireImage