Wallace Roney: l’erede di Miles

Il trombettista di Filadelfia, allievo di Dizzy Gillespie e Miles Davis, torna sul mercato con un nuovo, brillante album e ospiti di prestigio come Gary Bartz

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Wallace Roney

Negli anni Ottanta, negli Stati Uniti, un folto gruppo di jazzisti iniziò a coagulare attorno a sé una musica che traeva linfa vitale dalla grande tradizione dell’idioma che, da tempo, ci appassiona. Si formarono gruppi, costituiti prevalentemente da afro-americani, che avevano una forte propensione per il neoclassicismo, ponendo l’accento sull’esecuzione di stampo boppistico da una prospettiva conservatrice e contemporanea nello stesso tempo. Tali gruppi non fecero altro che affinare l’evoluzione cominciata negli anni Settanta con il cosiddetto neo-bop. Gli amanti delle etichette parlarono di straight-ahead jazz.

Liquidare questi gruppi come dei semplici restauratori, capaci soltanto di copiare in maniera pedissequa il linguaggio del bebop, è però un errore. Per due motivi molto importanti. Il primo è che – fatta eccezione per Wynton Marsalis, grande musicista fortemente coinvolto in una accademizzazione del jazz che per alcuni sta già decretando la sua morte creativa – gran parte di questi musicisti non ha fatto altro che sintetizzare le varie declinazioni attraverso le quali il jazz si è espresso nel secolo scorso, sviluppando un linguaggio più aggressivo e tagliente. Se n’è avvantaggiata in modo particolare la sezione ritmica che, da allora, è diventata ancora più coinvolgente e comunicativa che in passato. Per cui, se è vero che Art Blakey e i suoi Messengers furono la palestra in cui molti di loro si fecero le ossa, è altrettanto vero che nulla fu copiato.

Semplicemente, partendo da un approccio bop, l’intera tradizione jazzistica venne vivisezionata e, in definitiva, approfondita. Il secondo motivo è diretta conseguenza del primo: anche nel mondo della cosiddetta avanguardia, tanto enfatizzata negli anni Sessanta, si iniziò a comprendere che le forme tradizionali di esecuzione, spesso soltanto ironicamente accennate nel free jazz, erano fondamentali per produrre ed esprimere creatività. Il risultato è sotto gli occhi, e soprattutto davanti alle orecchie, di tutti. Nessuno più rinuncia alla libertà conquistata, solo si cerca di ripulirla e, perché no, arricchirla. Il fatto, poi, che molti di quelli che, a nostro avviso erroneamente, sono stati definiti neo-tradizionalisti siano dei trombettisti è semplicemente dovuto alla natura stessa dello strumento col quale questi signori si esprimono: la tromba favorisce gli approcci conservatori dell’esecuzione jazzistica, per cui è più difficile suonare musica improvvisata con la tromba rispetto, per esempio, al sassofono.

Wallace Roney è uno di loro. Trombettista brillante sulle progressioni con le quali ama creare tensioni usando accordi fuori tonalità, Wallace Roney (Filadelfia, 1960) è stato, all’inizio degli anni Novanta uno dei più ricercati arrivando a suonare contemporaneamente con due capiscuola, due leader, due batteristi tra loro assai diversi come Art Blakey e Tony Williams, riuscendo comunque a imporre il suo caratteristico timbro, cupo e metallico insieme. Se, come molti affermano, la tromba è simbolo di potere, allora Wallace Roney è un uomo potente che dai grandi giganti, Miles Davis in primis, ha ereditato la capacità di farsi valere a prescindere dal contesto in cui si trova a interagire. Ha appena pubblicato un nuovo disco, «A Place In Time» (HighNote/IRD).

Wallace Roney

Ho ascoltato il tuo nuovo album, nel quale proponi una musica fortemente collegata ai quintetti di Miles degli anni Sessanta…
Sono stato molto influenzato dai gruppi di Miles di quel decennio… Ma anche dal gruppo di John Coltrane del periodo Atlantic e dei primi anni Impulse!, dai Jazz Messengers di Art Blakey, dal quartetto di Ornette Coleman. Però Miles è stato il mio maestro, il mio mentore. Il suo concetto musicale è stato quello di spingere la musica in avanti, sempre. Questo ha esercitato una fortissima influenza su di me e ciò che cerco di fare è tentare di aggiungere qualcosa alla grande spinta innovativa che lui ha esercitato sulla musica.

Hai studiato con Miles, nell’ultima parte della sua vita. C’è qualcosa di lui che te lo fa ricordare in modo particolare?
Mi chiedono tutti la stessa cosa. E la mia risposta è sempre la stessa: non solo qualcosa, tutto. Miles non ha commesso un solo errore, ha lasciato nella musica un’impronta luminosa. Come del resto Art Blakey, un altro al quale devo moltissimo. Erano delle persone speciali, degli uomini e degli artisti speciali, che hanno rivoluzionato la musica. Tutto quello che dicevano e facevano era importante. Sono stati i due più grandi musicisti che mi sia capitato di incontrare. Non parlo solo per me: probabilmente sono stati importanti per molti, moltissimi altri. Erano molto simili tra loro, solo che Art non accettava compromessi di nessun genere, non osava, mentre Miles era curioso di provare qualsiasi cosa. Ad Art non piacevano le mode, le tendenze del momento, Miles amava le sfide, i cambiamenti, gli piaceva confrontarsi con tutto quanto. Meravigliosi entrambi, nelle loro differenze.

Sei considerato una delle grandi voci della tromba moderna. Come vivi questo momento della tua carriera e qual è il grande progetto della tua vita?
Suonare. Questo è sempre stato il grande progetto della mia vita. E lo sarà sempre. Non ho molto interesse per ciò che dicono su di me. Ovviamente mi sento gratificato se qualcuno si esprime sul mio conto in termini lusinghieri. Io lavoro molto, cercando di suonare la mia musica, cercando di migliorarmi e di esprimere qualcosa di personale. Provo a comunicarlo a chi mi ascolta. Se tutto questo arriva al mio pubblico, è per me la più grossa gratificazione.

Wallace Roney
Wallace Roney – foto Fabio Orlando

Dove vivi in questo momento?
Nell’area di New York. Nel New Jersey, a dieci minuti da New York.

New York è una città molto competitiva, anche se molto stimolante…
Assolutamente. Se la guardi da una certa prospettiva è sicuramente competitiva ma se riesci a superare questo primo impatto diventa la tua più grossa fonte d’ispirazione e ti aiuta ad esprimere qualcosa che abbia un significato.

Blues, soul, religione. Che ruolo svolgono nella tua vita?
La religione non ha alcun ruolo nella mia vita, anche se ne ha uno importante nel mondo in cui viviamo. Personalmente rispetto tutte le religioni, che non sono altro che espressioni culturali di popoli diversi. A me interessa la spiritualità che si ritrova in egual misura nel blues, nel soul e ovviamente nel jazz, che alla fine sono la stessa cosa. Il soul è una prospettiva, il jazz incarna la spiritualità di quella prospettiva.

Quali sono, o sono stati, i musicisti che hanno esercitato maggiore influenza su di te? Tra i trombettisti e, più in generale, come musicista a tutto tondo?
Miles Davis. Senza ombra di dubbio. Lui è stato il mio idolo fin da quando ero ragazzo. Ho sempre ascoltato la sua musica e ancora oggi cerco di tirarne fuori qualcosa. Naturalmente Dizzy Gillespie, Clark Terry, Fats Navarro, Kenny Dorham, Clifford Brown, Lee Morgan. Io sono di Filadelfia, quindi ho il dovere di amare Lee Morgan. Poi Johnny Coles, Blue Mitchell, Nat Adderley, Art Farmer…

Hai studiato con Dizzy Gillespie.
Sì, con lui e con Woody Shaw, un altro trombettista importantissimo.

Allora ti faccio tre nomi: Ambrose Akinmusire, Roy Hargrove, Keyon Harrold. Chi dei tre, nella tua opinione, sta svolgendo il ruolo più importante nella tromba moderna?
Sono tutti e tre fortissimi ma ne hai dimenticato uno: Wallace Roney Jr., mio figlio, che è veramente molto forte. Chiedi sue notizie ad Ambrose e vedrai che cosa ti risponde. Tutti quelli che hai citato mi chiamano spesso e li adoro, ma il piccolo Wally è un fenomeno.

Altri musicisti, nel jazz di oggi, che ti hanno impressionato?
Molti, inutile fare nomi. Però nei confronti di alcuni sono molto critico. Penso che non abbiano ancora una profonda conoscenza del linguaggio del jazz. In linea generale il livello è molto alto e molti di loro si impegnano con diligenza: ovviamente i risultati sono diversi. Con molti interagisco, mi capita di suonare sui loro dischi. L’importante è essere accomunati dall’idea di portare innovazione alla nostra musica cercando di non fare compromessi.

Non trovi che l’America sia uno strano Paese?
Come fate ad aver eletto un presidente come Obama e, subito dopo, uno come Trump? È una tragedia. Non conosco nessuno che sia felice del risultato elettorale. Non ho alcuna idea di cosa potrà succedere, se migliorerà o peggiorerà. Non lo so. So soltanto che nessuno è contento.

Cosa ne pensi dell’idea di cambiare il termine che definisce la musica afroamericana? Non più jazz ma BAM? Come di sicuro saprai, Nicholas Payton suggerisce di usare questo acronimo perché la parola «jazz» è offensiva per i neri…
Per me non lo è. Nicholas può pensarla come vuole, ma noi tutti sappiamo cosa si intende per Black American Music. Il rap è Black American Music, il soul è Black American Music, e anche il funk. Ma tutti continuiamo a chiamarlo funk o R&B. Hanno già il loro nome. Che senso ha tutto questo? Mi sembra un problema irrilevante. A me non da fastidio nessuno dei due termini, che lo chiamino come vogliono. Ma poi… Io mi chiamo Wallace Roney, mica conosco il mio nome africano, ho dovuto accettare questo, qual è il problema? Lo stesso vale per la parola jazz. Lo chiamiamo jazz, lo hanno chiamato così, questa musica è nata con questo nome ed è questa che suoniamo…

Wallace Roney
Luglio 1991, Montreaux – Wallace Roney e Miles Davis durante il celebre concerto con Quincy Jones

Ma sembra che anche Miles avesse problemi con quel termine. C’è la famosa frase rilasciata durante un’intervista: «Non chiamate la mia musica «jazz», chiamatela social music»…
Non è vero. Miles non aveva alcun problema con il termine «jazz». Documentati meglio, va’ su YouTube e cerca le varie interviste di Miles sulla definizione del jazz. Miles ha continuato a chiamare jazz la sua musica fino al disco su Jack Johnson. Guarda che l’ho conosciuto bene. A lui non interessava minimamente come venisse definita la sua musica, voleva solo venderla. Il problema venne fuori all’uscita del disco su Jack Johnson per la Columbia. Miles voleva che quel disco vendesse come un disco di rock, così quando fu pubblicato chiese ai suoi discografici di non etichettarlo come jazz perché avrebbe venduto di più. Era questo il suo problema. Voleva solo vendere il suo album, ed è stato allora che si è creata la diatriba terminologica sul termine «jazz». Ma a Miles non fregava niente. Se ascolti un’intervista del 1980, ti accorgi che a un certo punto dice che la parola «jazz» non gli dà per niente fastidio.

Hai visto Miles Ahead, il film diretto e interpretato da Don Cheadle?
Certo che sì.

E che cosa ne pensi?
Che cosa ne pensi tu?

È un bel film ma non offre un’idea corretta della personalità di Miles…
Io lo odio, quel film. L’ho odiato fin dal primo momento, dalla scena in cui Miles fa a botte con il giornalista e poi lo prega di farlo rientrare in casa. Inconcepibile. Questa cosa non sarebbe mai potuta accadere… Non parliamo del resto del film, che calca la mano sui suoi problemi con la droga… Le sparatorie… Ma per favore! Il film non parla della genialità di Miles. Non rende merito a uno dei grandi geni del Novecento e non lo mostra nella sua dimensione di grande musicista. Non mi importa che non sia un documentario. Io l’ho trovato terribile.

Hai suonato più volte in Europa. So che in certe occasioni non sei rimasto soddisfatto, che hai avuto delle delusioni. Cos’è successo? La tua musica non è stata apprezzata?
Nessun problema col pubblico. Voglio che tu lo scriva forte e chiaro: l’ultima volta che sono stato in Europa ho suonato in Germania con un tipo che si chiama Hubi Von Fallois. Quattordici concerti in due settimane e mezzo e non siamo mai stati pagati. Lui si è trattenuto i soldi ed è scappato, addebitandomi delle colpe delle quali non sono responsabile. Ho dovuto sciogliere la mia band per questo motivo. In quell’occasione sono rimasto deluso e non mi è parso che in Europa trattino gli artisti afro-americani con il dovuto rispetto.