Wadada Leo Smith: Pure Love

di Enzo Boddi

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Wadada Leo Smith ( foto di Maarit Kytöharju)
Wadada Leo Smith (foto di Maarit Kytöharju)

Il compositore e trombettista del Mississippi Wadada Leo Smith vive un periodo di intensa creatività. Negli ultimi mesi è apparso su «Lebroba» di Andrew Cyrille e adesso pubblica un complesso lavoro dedicato a Rosa Parks

Creazione», «creatività», «musica creativa» sono termini e definizioni che ricorrono spesso nel linguaggio del trombettista e compositore Leo Smith, da lungo tempo una delle figure più emblematiche nell’ambito della musica contemporanea di matrice afro-americana. La ricerca instancabile di Smith (nato a Leland, Mississippi, nel 1941) evidenzia nobili radici e multiformi ramificazioni. In primo luogo, si riallaccia al substrato del Delta Blues della terra natale, (appreso dal patrigno, il chitarrista Alex «Little Bill» Wallace) e vanta il sostanzioso contributo apportato negli anni Settanta alla AACM di Chicago per la definizione di nuovi approcci alla composizione e all’improvvisazione. Quindi, anche in anni più recenti, è improntata a una visione critica e lungimirante del rapporto con la tradizione jazzistica. Inoltre, su un versante che si potrebbe definire «contemporaneo» in senso lato, si traduce in una copiosa produzione di composizioni per quartetti d’archi. Infine, in questo cinquantennale percorso l’attività di Smith non risulta mai scissa da tematiche socio-politiche legate al Civil Rights Movement e all’emancipazione della comunità afroamericana. Non a caso, il suo ultimo lavoro – «Rosa Parks: Pure Love», appena pubblicato dalla finlandese TUM – è espressamente dedicato alla donna che nel 1955, a Montgomery, si rifiutò di cedere il posto a un bianco, dando poi vita a una serie di proteste e boicottaggi contro la politica di uno stato dichiaratamente razzista come l’Alabama. Il lavoro è strutturato in una modernissima forma di oratorio e si avvale di tre voci, quattro trombe (il leader, Ted Daniel, Hugh Ragin e Graham Haynes), il quartetto d’archi RedKoral, batteria (Pheeroan Aklaff) e l’elettronica di Hardedge, più frammenti registrati di Anthony Braxton, Leroy Jenkins e Steve McCall, tratti rispettivamente da «For Alto» del primo, «Solo Concert» del secondo e «Air Time» del trio Air. Un legame significativo con il passato, in quanto Braxton, Jenkins e McCall avevano fatto parte con Smith, Muhal Richard Abrams e Richard Davis della Creative Construction Company, documentata da due dischi Muse incisi nel 1970 e pubblicati alcuni anni più tardi. Documenti illuminanti dei fermenti che proliferavano in seno all’AACM, dai quali Smith trasse spunto per fissare i punti cardine della sua concezione del rapporto tra composizione e improvvisazione, fissata in alcuni lavori pubblicati per la propria etichetta Kabell e poi finalizzata nella prima incisione per ECM, «Divine Love» (1979, appena ristampata sia su cd a sé stante sia nel box dedicato al cinquantennale dell’Art Ensemble of Chicago). All’epoca Smith teorizzò i suoi principi nella formula ribattezzata Ahkreanvention e così testualmente riassunta: «…creare e inventare simultaneamente idee musicali utilizzando le leggi fondamentali dell’improvvisazione e della composizione. All’interno di questo sistema tutti gli elementi della notazione musicale vengono controllati attraverso simboli che indicano durata, improvvisazione suoni in movimento a differente velocità». Tali principi e i presupposti del suo ultimo lavoro sono tra i temi affrontati in questa conversazione.

Wadada Leo Smith assieme alle Diamond Voices: da sinistra, Min Xiao-Fen, Karen Parks e Carmina Escobar.
Wadada Leo Smith assieme alle Diamond Voices: da sinistra, Min Xiao-Fen, Karen Parks e Carmina Escobar.

«Rosa Parks: Pure Love» è un lavoro concepito in forma di oratorio. Qual è il motivo di questa scelta?
Ho concepito «Rosa Parks: Pure Love» come oratorio per l’importanza stessa degli oratori, che normalmente trattano temi profondi relativi alla spiritualità e alla religione. È un modo per consentire alla gente di concentrare i propri pensieri legati alla poesia.

Le sette songs risuonano come preghiere, il che istituisce uno stretto legame con la radice latina del termine oratorio (orare=pregare).
Si tratta di concetti riguardanti eventi importanti, che analizzano il modo in cui si definisce pienamente un momento che si vorrebbe trasformare in qualcosa di speciale. Ho scelto deliberatamente di non strutturare il lavoro come un’opera, dal momento che sentivo la necessità di realizzarlo in una forma in cui la gente si abituasse a un ascolto attento, invece di avere a che fare con un’azione drammatica.

Ha scelto tre voci provenienti da retroterra culturali differenti con uno scopo specifico?
Sì, in quanto il racconto che si snoda attraverso le sette songs narra dei bambini di tutto il mondo che sognano Rosa Parks in varie lingue e culture. E ai bambini di tutto il mondo, in quei sette sogni, Rosa Parks insegna quelle canzoni.

Per la partitura ha utilizzato la notazione grafica?
Prima di tutto, non uso la notazione grafica. Utilizzo invece l’Ankhrasmation, un linguaggio che richiede ai musicisti di seguire istruzioni specifiche basate sull’approccio visuale alla partitura. Attraverso questo impegno c’è spazio tanto per successi quanto per insuccessi. Potrei anche aggiungere che le partiture grafiche non possiedono un linguaggio. In secondo luogo, chiunque può suonare qualsiasi cosa guardando quella che dovrebbe essere una partitura: senza leggere, ma solo lasciandosi ispirare da ciò che sembra.

Il numero quattro ricorre piuttosto spesso nella sua produzione. Lei ha scritto molti quartetti d’archi; in questo lavoro spiccano quattro trombe e inoltre il progetto Najwa comprende quattro chitarristi. È solo una coincidenza?
No.

Si può considerare «Rosa Parks: Pure Love» strettamente legato a «Ten Freedom Summers», anche sotto forma di dichiarazione politica?
«Rosa Parks: Pure Love» è una dichiarazione politica e spirituale sulla storia degli afroamericani in questo paese, nonché una profezia e una visione di quello che sarà il futuro per questo segmento della società. Ciò che la rende politica è il fatto che Change It!, la canzone cantata da Karen Parks, riguarda l’attuale stallo della politica americana.

Come cittadino, e come afro-americano nativo del Mississippi, ha avuto qualche ruolo nel Movimento per i Diritti Civili?
Sì, io c’ero. Come artista sono sempre stato in armonia con le questioni di diritto e giustizia.

Wadada Leo Smith «Rosa Parks: Pure Love»
Wadada Leo Smith «Rosa Parks: Pure Love»

Cosa può dire, oggi, della sua esperienza come membro dell’associazione chicagoana AACM?
Entrai a far parte dell’AACM portando nuovi semi da piantare. Avevo terminato di scrivere un quartetto per archi e avevo a disposizione altre composizioni, tutte orientate a una concezione non-metrica della melodia e del ritmo. Ero uno venuto da fuori, il che mi diede un vantaggio dal momento che non avevo studiato con Muhal Richard Abrams come, invece, avevano fatto quasi tutti gli altri membri dell’AACM. Infatti i «forestieri» erano pochissimi: Lester Bowie, John Stubblefield e io.

Lei ha spesso esplorato le radici della tradizione afro-americana. Che influenza ha avuto il blues sul suo retroterra e sulla sua crescita di musicista?
La tradizione del blues implica riflessione filosofica. Comprende eventi storici come la grande alluvione del 1927 di Tupelo, Mississippi, di cui canta John Lee Hooker. Dal punto di vista filosofico, quando Robert Johnson canta i suoi travelling blues, parla del suo corpo sepolto sul ciglio dell’autostrada. Quando arriva il vecchio autobus della Greyhound, si alza e sale a bordo [riferimento esplicito a Me And The Devil Blues, ndr]. Per chi non lo sapesse, questo si riferisce all’idea della vita che sopravvive alla morte. In tal modo, nei blues ci sono contenuti spirituali e filosofici, così come un’immagine simbolica delle donne. Questo è un esempio di potenza, di potere nero e di mistero. Si tratta dell’elemento di gran lunga più potente. Il blues è una musica molto mistica e simbolica, e naturalmente ne sono influenzato.

Lei ha dedicato uno dei suoi recenti lavori a Thelonious Monk («Solo: Reflections And Meditations On Monk», TUM). Come mai ha scelto di affrontarne il repertorio per sola tromba?
Perché ho suonato la sua musica in casa mia per trentacinque anni! Così ho deciso di fare in modo che questo progetto fosse una riflessione su Monk. Ma oltre a questo, come affermo nella poesia che ho composto proprio per Monk, lui ed io siamo esempi vicinissimi. Rispetto a ogni altro musicista che io conosco, la sua vita ha le maggiori affinità con la mia. Questa è la poesia:

Monk
The Thelonious.
A pure creative visionary
Composer-performer.
An inspiration that arcs straight across the structured invisible world.
From the Kilimanjaro plains to the dancing banks of the Mississippi river basin.
His talented descendants set along the sloping light-fields as he instructed with the piano,
And what he played, with his hands no more than 3 millimeters just beneath the surface,
Etched in sonic waves, the concepts we comprehended.

Logic and bold strategies illuminated his message; and with each tone that he cast forth
Changed the way the water appeared, its color, depth, activity and the velocity density;
Our knowledge rising from each equation that he chose to unveil.
Monk.
The Thelonious.
Every day, I sit on your doorstep
Hearing the mystery of creative music unfold.
Now, I rise higher.
In this life
I am closer to you than to any other artist.
Not in the way you inform your music practice and ensemble intelligence.
Maybe that too.
But how we calculate inspiration.

(New Haven, Connecticut, 10 luglio 2017)

Lei ha spesso posto l’accento sulla creazione contrapposta alla improvvisazione. Il concetto di improvvisazione dovrebbe essere ridefinito?
No, non dovrebbe essere ridefinito perché non si possono rimettere al loro posto tutte quelle parole che hanno assunto così tante false concezioni. Il termine creare assomiglia molto di più a quello che hanno fatto Bessie Smith, Louis Armstrong, Billie Holiday, Jelly Roll Morton e tanti altri, fino ad Anthony Braxton. Creare si adatta a quello che loro hanno fatto e anche a ciò che noi facciamo come artisti: realizzare in miniatura delle creazioni, proprio come il Big Bang. Possono essere più piccole come dimensioni, ma sono ugualmente potenti.

Secondo lei qual è (o dovrebbe essere) il ruolo dei musicisti afro-americani oggi, sia sulla scena jazzistica attuale sia nella società americana del XXI secolo?
Be’, dovrebbe essere quello di esseri umani, come chiunque altro. Tutti quei termini – afro-americano, euro-americano o sino-americano – non dovrebbero mai più esistere. Ma esistono, eccome, solo perché questo è il modo in cui è suddivisa la società americana.

Enzo Boddi

[da Musica Jazz, marzo 2019]