Vicenza Jazz-New Conversations, XXIII edizione

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Randy Weston e Billy Harper, foto Francesco Dalla Pozza

18 maggio, Teatro Comunale: Manhattan Transfer

19 maggio, Teatro Olimpico: Tigran Hamasyan; Randy Weston & Billy Harper

I Manhattan Transfer, foto Francesco Dalla Pozza

Dal 10 al 20 maggio la XXIII edizione di Vicenza JazzNew Conversations, sotto la direzione artistica di Riccardo Brazzale, ha costellato la città del Palladio di eventi disseminati in vari spazi, comprendenti – oltre alla magia del palladiano Teatro Olimpico – il Teatro Comunale, il Bar Borsa (situato sotto alla Basilica di Piazza dei Signori) e il Cimitero Maggiore. The Birth of Youth era il titolo scelto, nel segno del cinquantesimo anniversario della rivoluzione culturale scaturita dal 1968, per documentare le disparate tendenze del jazz contemporaneo senza peraltro perdere di vista il legame inscindibile con la tradizione.

Manhattan Transfer, foto Francesco Dalla Pozza

Sarà pur vero, come sostengono alcuni, che i Manhattan Transfer ripropongono una formula consolidata e risaputa. Tuttavia, quel che Janis Siegel, Cheryl Bentyne e Alan Paul sanno ancora produrre dal vivo – dopo quarantacinque anni di attività e nonostante la dolorosa perdita di Tim Hauser, scomparso nel 2014 e rimpiazzato da Trist Curless – è una brillante miscela in cui il jazz gioca un ruolo predominante, inglobando jive, doo wop, r&b, gospel e crooning. Un esempio di popular music americana, sostenuto da capienti armonizzazioni, incisivi fraseggi e assolo in stile vocalese e scat, padronanza assoluta delle dinamiche e ampia gamma di sfumature timbriche. Tutto ciò senza trascurare gli aspetti genuini dell’intrattenimento e del piacere di fare musica. Paradossalmente i brani tratti dal recente «The Junction» risultano i meno efficaci e i più annacquati da aromi pop, eccezion fatta per Cantaloop (Flip Out), in cui tratti hip hop e rap si intersecano intelligentemente con armonie e tema di Cantaloupe Island di Herbie Hancock. Le qualità vocali dei singoli e del collettivo risaltano sul versante vocalese: negli intrecci riservati a Topsy e Corner Pocket, cavalli di battaglia dell’orchestra di Count Basie; nell’esplosione cromatica di Birdland di Zawinul, favorita dal geniale testo di Jon Hendricks e corroborata dall’apporto della ritmica: Yaron Gershovsky (p.), Boris Kozlov (cb., b. el.) e Ross Pederson (batt.). Il legame con le orchestre tradizionali è rafforzato dalle versioni di Tuxedo Junction (Glenn Miller) e A-Tisket A-Tasket, portata al successo dalla giovane Ella Fitzgerald con l’orchestra di Chick Webb e qui brillantemente resa da Janis Siegel, come sempre prorompente nel gospel di Operator. Degno di nota anche l’omaggio a Hauser, con le armonie vocali ad accompagnare la voce registrata dell’amico scomparso in Soul Food To Go.

Tigran Hamasyan, foto Francesco Dalla Pozza

L’architettura mozzafiato dell’Olimpico ben si prestava al solo di Tigran Hamasyan. Il pianista armeno ama infatti giocare su dinamiche soffuse, a tratti centellinate con meticolosità certosina, e timbriche eteree, intrise di misticismo. Una ricerca esteticamente raffinata e tecnicamente ineccepibile, ma spesso imprigionata nella propria introversione e non sempre provvista dei necessari sbocchi e sviluppi, efficace solo nei frangenti in cui Hamasyan opera sulle tracce del proprio retroterra culturale evocando antiche melodie su impianti modali. Quando invece l’atteggiamento introspettivo genera ripetizione e tendenze solipsistiche, oppure si trasforma in un virtuosismo sterile sciorinato a piene mani, allora si ha quasi la sensazione di trovarsi al cospetto di un epigono del Jarrett classicheggiante. Musica di grande presa sul pubblico, dove però certi tratti distintivi del jazz (swing, senso del blues, articolazione del fraseggio, improvvisazione) risultano pressoché assenti.

Tigran Hamasyan, foto Francesco Dalla Pozza

Tutt’altra musica, in tutti i sensi, quella proposta immediatamente dopo dal duo Randy Weston-Billy Harper sulla scorta di «The Roots Of The Blues» (2013). Weston, 92 anni magnificamente portati, e Harper, 75, sono protagonisti e testimoni autorevoli della grande tradizione afroamericana. Apparso sul palco indossando un dashiki, abito tradizionale dell’Africa occidentale, Weston sembrava incarnare la figura del griot, il poeta-cantore-musicista dell’Africa subsahariana incaricato di trasmettere la tradizione. In tal senso, si riallacciava idealmente sia ai presupposti – basati sulla trasmissione orale – della musica afroamericana che alle sue passate frequentazioni africane, che lo avevano portato a contatto con i poliritmi e ne avevano ispirato la conseguente ricerca. Il costante e inscindibile legame tra strutture modali e poliritmiche della musica africana, il blues, le architetture orchestrali di Ellington e le innovazioni armoniche di Monk confluiscono in una sintesi che si esprime con grande potenza nella sua musica. La Hi-Fly (incisa per la prima volta nel 1958) metodicamente parcellizzata in apertura di concerto rappresenta una dimostrazione lampante di lungimiranza compositiva, né è da meno il respiro orchestrale di Mystery Of Love. Se Berkshire Blues è profondamente radicata nell’humus del blues, Blue Moses, African Sunrise e soprattutto Blues To Africa ne esplorano le intime connessioni con le ataviche origini situate nell’Africa occidentale, mediante strutture iterative, frasi scarne, nuclei essenziali ma pregnanti. Un lavoro di sottrazione che niente toglie all’espressività e al peso specifico del suono, anzi, e che stimola il pluridecorato Harper (Art Blakey & The Jazz Messengers, Thad Jones-Mel Lewis Orchestra, Max Roach, Gil Evans Orchestra, solo per citare le tappe principali del suo percorso) a incidere e scolpire frasi spartane ma ponderose col suono rugoso, ricco di armonici e impregnato di blues del suo tenore. Un’autentica lezione “sul campo” di storia del jazz.

Enzo Boddi

Billy Harper e Randy Weston, foto Francesco Dalla Pozza