Carsten Dahl «Bach Goldberg Variations»

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L’attività di Carsten Dahl è in particolare fermento. Da poco sono stati pubblicati «A Good Time» e «Bach Goldberg Variations» e molto altro. Ne parliamo con lui.

Mr Dahl, lei ha iniziato suonando la batteria e, solo più tardi, ha scelto il pianoforte: come mai?

Penso che ci fosse qualcosa dentro di me che voleva venire fuori. Da ragazzino, quando suonavo la batteria canticchiavo: è stato un processo naturale passare al pianoforte ma, realmente, il passaggio è avvenuto quando avevo diciassette anni circa.

Lei pensa che il suo essere batterista abbia influenzato la sua tecnica pianistica?

Sì, certamente. Ho sviluppato uno stile percussivo. Ho sempre considerato il pianoforte come un arpa con la pelle e un tamburo con un centro tonale.

A Tivoli ha dedicato un concerto a Søren Kierkegaard. Cosa rappresenta per lei il filosofo danese?

Kierkegaard è sempre stato un punto di riferimento nella mia vita: sin da adolescente ero molto vicino alla sua linea di pensiero. Lo considero uno tra i più grandi pensatori della storia e penso il suo pensiero sia particolarmente attuale. Mi ha consentito di costruire una vera e propria cattedrale esistenziale, grazie alla quale riesco a respirare in un mondo superficiale. Per essere un artista creativo hai bisogno di riflettere a fondo sulle questioni legate alla vita e alla morte.

Quindi, lei ritiene che vi sia una relazione tra jazz e filosofia?

Sì, in un certo senso. Penso, per esempio, che Thelonious Monk sia stato un pensatore. Ma anche gente come Miles Davis e John Coltrane, per altri versi. Sono stati capaci, in differenti momenti, di esprimere qualcosa di più grande rispetto al tessuto culturale e sociale del periodo: hanno espresso concetti universali.

Lei insegna al conservatorio di Copenaghen. Qual è la prima cosa che insegna ai suoi studenti?

Dico loro due cose: la prima è che devono conoscere e capire la tradizione e sapere da dove provengono per essere liberi e sicuri della loro abilità e poter cercare la loro personale voce; il secondo monito è che, allo stesso tempo, devono cercare la loro personale firma artistica e cercare nuove vie.  E per fare ciò, ci vuole una mente solida.

«A Good Time» è il suo personale tributo ai giganti del jazz?

Senza dubbio. In tutti i miei lavori spero che si possa sentire il mio omaggio a tutti i grandi spiriti dell’arte. In realtà, «A Good Time» è un buon esempio di vivere nella tradizione, perché è quello che io sento: mi rispecchio nella tradizione. Ho omaggiato con tre brani Cole Porter, che adoro, perché è un vero poeta della melodia e spesso scelgo le sue canzoni.

Questo lavoro è parecchio diverso da «Under The Rainbow». Qualcosa è cambiato nella sua musica?

No, è che non ho una sola dimensione come musicista. Non mi piace chiudermi in un solo stile musicale. Ho sempre composto anche per grandi orchestre e faccio diverse altre cose. Il free è sempre stato lì. «Embla» (Olufsen Records) è stato il mio primo vero disco di free jazz.

Sembra che lei stia lavorando per la formazione di un nuovo trio.

Sì, con Reuben Rogers e Greg Hutchinson. Condividiamo l’amore per i beat, il sentimento e lo swing. In realtà, il tempo trascorso nel trio di Ed Thigpen è stato un’ottima scuola per me. Mi ha insegnato così tanto circa le strutture musicali. Con Reuben e Greg vogliamo scavare a fondo ed essere creativi, cercando nuovi campi d’azione. Amo fare tutto ciò!

Il jazz danese e, in generale, quello scandinavo stanno acquisendo sempre maggiore importanza nel mondo. Secondo lei quali sono i motivi? Ritiene che il jazz statunitense abbia perso di creatività?

Non saprei dirlo. Penso che il sound nordico abbia sempre avuto la sua direzione e, poiché ritengo che abbia subito profonde influenze dalla musica statunitense, non me la sento di separarle. Noi qui abbiamo il nostro tempo, le nostre ore di luce e la nostra musica, il nostro suono, come tutte le culture lo hanno. Penso che, in realtà, le espressioni musicali miste siano le realtà più interessanti.  Il jazz danese è sempre stato molto forte, ma non sarebbe diventato ciò che è oggi, se non avessimo avuto contatti con tutti i musicisti statunitensi che, tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno vissuto qui.

In Italia il jazz danese fatica un po’ a farsi strada. Come ha reagito il pubblico italiano alla sua musica?

Amo il pubblico italiano! Sono stato in Italia con Arild Andersen e Patrice Heral nel 2004. Paolo Fresu suonò subito dopo di noi. Adoro il clima, il cibo e il caffè, il vino e le splendide donne italiane. Il pubblico fu meraviglioso: amo gli italiani.

E’ da poco stato pubblicato il suo album in piano solo preparato: «Bach Goldberg Variations» per la Tiger Music. E’ così importante misurarsi con il proprio strumento?

E’ la cosa principale per me. Amo stare solo con il pianoforte in una splendida location e con un grande pubblico. La sfida di lasciar scorrere le note in un soliloquio e sentir scorrere il pulsare dell’universo è molto importante per me. E’ come se fosse la musica a suonare me e ciò mi sbalordisce. Ho preparato il pianoforte in modo tale da poter ricavare il suono di tanti altri strumenti: dal sitar al banjo, dal clavicembalo alla chitarra.

Come è nata l’idea di suonare le Variazioni Goldberg?

Bach è il più grande (con Charlie Chaplin e Charlie Parker) e ho volute scavare all’interno di questo genio. Comunque, l’ho voluto fare a modo mio, che comprende un altro suono. Ci sono troppe «meravigliose» interpretazioni della musica di Bach che, secondo me, fanno dormire. Volevo che l’ascoltatore sentisse ciò che provavo: non c’è vita senza la consapevolezza della morte; non c’è bellezza senza la bruttezza; non ci sono luci senza buio. Odio i deodoranti e i profumi: mi piace l’odore del sudore, dell’umanità.  Le Variazioni Goldberg sono una pietra miliare per un pianista ed è uno delle più importanti composizioni non religiose di Bach e questo è il motivo per cui si adatta meglio alla preparazione e al suono umano. A mio avviso la musica di Bach non è per pochi, ma per le masse.

Chi è il suo mentore?

Innanzitutto il Signore e suo figlio Gesù Cristo. Dopo di loro, molti altri: anche le mie figlie lo sono! Poi, Charlie Parker, Bach, Charlie Chaplin, Ernest Hemingway, Picasso, Søren Kierkegaard, Jean-Paul Sartre, Vivaldi, Hitchcock, Ahmad Jamal, Miles Davis, Leonard Bernstein, T.H. Dreyer, Paramahansa Yogananda, Phillip Glass e tanti altri.

Quali sono i suoi prossimi impegni?

Voglio scrivere qualche brano forte. Un concerto per violino per Parsi St Germain e Didier Lockwood. E un’articolata composizione per la mia amica Michala Petri. Sto registrando «Das Wohltemperierte Klavier 1» che uscirà a novembre di quest’anno. Sono spesso in tour anche per concerti in piano solo. Poi, sono in uscita alcuni miei album, il primo sarà «Grace» con la Tiger Music, che è previsto per marzo 2015. Poi, sono anche un pittore e devo dipingere diversi quadri per alcune mostre in arrivo.

Alceste Ayroldi