
La sera del 29 dicembre, il teatro Mancinelli ospita la première italiana del progetto del pianista statunitense Jason Moran, In My Mind: Monk At Town Hall 1959. Una super band si diceva, infatti con Moran ci sono: Logan Richardson al contralto, Walter Smith III al sassofono tenore, Ralph Alessi alla tromba, Andre Hayward al trombone, Bob Stewart alla tuba, Tarus Mateen al basso, Nasheet Waits alla batteria.
È un lavoro filologico, non una riproduzione sic et simpliciter. Moran ha studiato Thelonious Monk alla perfezione, è la sua Musa ispiratrice, il suo mentore spirituale. E si vede e si sente: un progetto perfetto in ogni sua fase, dalla multimedialità che lo accompagna dall’inizio alla fine – sullo sfondo le immagini che scorrono con un Monk criptato e defilato – e con la sua voce che s’accende. Emoziona ed è parte integrante di una struttura perfettamente architettata con degli arrangiamenti sorprendenti e delle trovate, sicuramente non nuove ma geniali, come la sovrapposizione della registrazione del piano di Monk con quello live di Moran (Thelonious). I musicisti interpretano perfettamente le loro parti, con un organico coeso e robusto dal quale fioriscono assolo di particolare pregio, come quello di Richardson in Friday The 13th, il suono pulito e avvolgente di Hayward e la boccaccesca versione di Crepuscule With Nellie, con i suoni che si distorcono e si annullano a vicenda; fino alla trionfale uscita di scena in perfetto stile marchin’band.


A seguire, cambio di rotta con Marc Ribot and The Young Philadelphians. Una sberla in pieno volto, ben assestata e di quelle salutari. The Young Philadelphians annoverano due elementi che promettono fuoco e fiamme: Jamaaladeen Tacuma e Mary Halvorson. Il primo è ben noto per aver forgiato il sound avanguardistico di «Of Human Feelings», album di Ornette Coleman del 1982 e preso parte alla genesi del Philly Sound, alias il Philadelphia Soul degli anni Settanta. La seconda, invece, non necessita di molte spiegazioni, visto che è – da più parti – acclamata come una tra le migliori chitarriste di jazz d’avanguardia. Il gruppo è completato dal corpulento e roccioso Calvin Weston alla batteria e da un giovane trio d’archi.
Mission dell’ensemble è quello di fondere le sonorità punk-jazz (condite da Ornette Coleman) con il Philly Sound. Il risultato non poteva essere che entusiasmante, travolgente. Con Ribot a fare anche da maestro concertatore e lanciarsi in una specie di speech song per intonare ritornelli e ostinati. E così, al via il flusso di musica che inonda l’ottocentesco teatro orvietano e fa battere il piedino e ondeggiare spalle e fianchi comodamente accomodati. The Hustle di Van McCoy diventa dura e penetrante sotto i magli di groove di Tacuma e le fibrillazioni chitarristiche di Ribot. Viene passata al letto di Procuste anche Do It Anyway You Wanna, successo dei People’s Choice. E va da se che anche gli altri brani proposti subiscono lo stesso trattamento, di volta in volta esaltando Ribot o Tacuma, con l’apporto ritmico e descrittivo della Halvorson e il senso orchestrale impresso dal trio d’archi, come Fly Robin Fly (già dei Silver Convention) o la «mitica» Tsop dei MFSB, araldo del sound di Philadelphia, che si sintonizza anche su canali psichedelici.


Il 30 dicembre, repliche a parte, è l’inedito trio Giovanni Guidi – Francesco Bearzatti – Michele Rabbia a conquistarsi la scena tardo-pomeridiana, con un progetto del tutto inedito che, inizialmente, vedeva la presenza di Luca Aquino, purtroppo indisposto, al posto di Bearzatti. I tre musicisti costruiscono tutto al momento, in un’improvvisazione accolita e sentita, con Guidi in testa a manovrare i suoni e Rabbia a dipingere il ritmo, mentre a Bearzatti veniva lasciata la sciabola della torrenziale improvvisazione.

Giovanni Guidi, Francesco Bearzatti e Michele Rabbia
In serata il Mancinelli ospita il nuovo progetto di Maria Pia De Vito: Core/coraçao, con Huw Warren al pianoforte, Roberto Taufic alla chitarra, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Roberto Rossi alle percussioni e batteria. Il napoletano incontra il portoghese brasiliano, la poetica di Chico Buarque de Holanda, di Egberto Gismonti, di Tom Zè, di Guinga; il tutto traslato in lingua napoletana con filosofica attenzione da parte di Maria Pia De Vito, che ne interpreta i brani con solenne leggerezza, con una voce camaleontica, capace di intonare tanto la dialettica brasiliana che – ovviamente – la prosodia partenopea. Brani che trovano nell’arrangiamento jazzistico il loro alveo naturale, come ‘A costruzione; Agua e vinho di Gismonti che s’accomoda nella indistruttibile e bellissima Voce ‘e notte; le drammatiche note rivestite di sapiente ironia di O’ piccirillo. I colori sono ravvivati dalla morbida chitarra di Taufic, che accompagna con maestria anche gli assolo intensi, degli arabeschi luminosi disegnati da Mirabassi.

La mattina del 31 dicembre è contrassegnata dall’appuntamento con il «Monkfold test» organizzato da Umbria Jazz con Dan Ouellette della rivista Down Beat. Un blindfold test in versione esclusivamente monkiana, al quale è stato sottoposto Jason Moran. L’occasione è stata propizia anche per ricordare i venticinque anni di Umbria Jazz, con lo stesso Ouellette, Carlo Pagnotta ed Enzo Capua.
Il pomeriggio dal sapore festivo viene celebrato con l’ultimo disco nato in casa Fabrizio Bosso: «Merry Christmas Baby». Al fianco del trombettista piemontese ci sono Julian Oliver Mazzariello al pianoforte, Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria; ospite del gruppo il vocalist Walter Ricci. Bosso mette in campo tutta la sua maestria nel dominare la tromba, nel pescare dal vocabolario del grande jazz e nel caricare di swing e hard bop brani immarcescibili come Jingle Bells, Have Yourself a Merry Little Christmas. Ricci fa della voce uno strumento con uno scat torrido e ben strutturato.
Come da tradizione, poi, un consistente novero di concerti a latere, che hanno visto impegnati nomi eccellenti della scena internazionale, come The Connection Trio con Piero Odorici, Daryl Hall e Roberto Gatto; il grande bluesman Little Freddie King, che ha fatto sentire il blues che non s’ascoltava da tempo, con il suo abito azzurro intenso e tanto di cappellaccio a falde larghe; poi Luca Velotti, il trio resident formato da Riccardo Biseo, Massimo Moriconi e Gegè Munari; lo swing di Sugarpie & The Candymen; lo spettacolo musical-culinario-swing di Spaghetti Swing; il quartetto di Filippo Bianchini.
Il quadro pittorico è completato dalla meravigliosa cornice della street band dei Funk Off che, magistralmente guidati da Dario Cecchini, hanno invaso le romaniche vie di Orvieto con eccellente bravura e con un senso dello spettacolo non comune.
Alceste Ayroldi
Fotografie di Cristiano Romano
