Umbria Jazz Winter, ventinovesima edizione: prima parte

Con Dianne Reeves, ONJGT, Vinicio Capossela, Larry Grenadier & Rebecca Martin, Allan Harris, Jon Cleary, Ethan Iverson, Kris Davis e molti altri, Orvieto diventa capitale della musica jazz. Cinque giorni di spettacoli in una cittadina sempre accogliente ed eccellentemente organizzata. Questa è la prima parte del report del festival.

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Umbria Jazz Winter 29
Orvieto, 28 dicembre 2022 – 1 gennaio 2023
Prima Parte

Una dedica corale accompagna questa ventinovesima edizione di Umbria Jazz Winter: quella a Franco Fayenz, giornalista, scrittore, critico musicale da poco scomparso, che ha seguito Umbria Jazz – condividendo un sano rapporto di amicizia con Carlo Pagnotta, patron di Umbria Jazz – fin dagli albori del festival. Enzo Capua, eccellente maestro di cerimonie, non ha mai omesso di ricordare l’illustre collega, il cui spirito – rappresentato da un suo aforisma – fa bella mostra anche nella brochure del festival.
Ciò detto, UJ questo inverno ha avuto qualche freccia in meno al suo arco. Chi era abituato a una sbornia di concerti in diverse sedi (alcuni anche gratuiti) ha dovuto rivedere i suoi piani, perché quest’anno le sedi sono state solo due (palazzo del Popolo, sala 400 e il teatro Mancinelli) e la gratuità è stata messa al bando; il che non può che far bene alla cultura musicale italica (soprattutto jazzistica) fin troppo abituata all’ingresso libero.
Le uniche performance gratuite sono state quelle delle gustose e roboanti armonie dei Funk Off, capitanati magistralmente da Dario Cecchini, che hanno invaso le romaniche strade del centro storico di Orvieto.

Funk Off Copyright Umbria Jazz

Cinque intense giornate, ma senza troppo stress e imbarazzanti coincidenze, che hanno avuto il via il 28 dicembre con il concerto dei Five Angry Men, vincitori del Conad Jazz Contest 2022. A sera è il teatro Mancinelli a ospitare il doppio concerto.

Allan Harris Kate’s Soulfood Copyright Umbria Jazz
Allan Harris Kate’s Soulfood
Copyright Umbria Jazz

Apre la kermesse l’ Allan Harris Kate’s Soulfood. Il funamabolico ensemble ha come gradito ospite l’armonicista francese Gregoire Maret che, ove ve ne fosse stato bisogno, dimostra tutta la sua abilità nel domare il piccolo, e insidioso, strumento. L’organico è completato da Francesco Fratini (tromba), Irwing Hall (sax tenore), Arcoiris Sandoval (pianoforte), Marty Kenney (basso), Norma Edwards (batteria), Massimo Orselli (percussioni). Il rodaggio del primo brano (New Day) con il freno a mano tirato, viene subito superato da Open Up, con un assolo della Arcoiris che palesa una competenza filologica della tradizione jazzistica. Gradualmente lo small ensemble acquista sicurezza e guadagna in orchestralità, senza trascurare gli assolo che giungono come piccoli gioielli compositivi. Fa spellare le mani Irwing Hall, che agisce in respirazione circolare, sciorinando note a grappoli; ottimi e ponderati gli assolo di Fratini; di pregio quelli della Sandoval, che dona nuova linfa vitale a una fortunata riedizione di Nature Boy, in up-tempo. Scatenato, una vera drum machine è Edwards, che tiene banco sempre e con gioia e suggella il suo infaticabile lavoro con il cajon palesando una irrefrenabile creatività. Gregoire Maret fa saltare giù dalla sedia: un fiume straripante, bop, soul, funk; sa accompagnare, ma sa mettersi in fuga e trascinare l’ascoltatore costruendo degli edifici ritmici senza pari con una destrezza tecnica asservita a un mobilissimo e rapido pensiero.
La voce di Allan Harris è soulful, ricca di grazia, ben modulata (non potente), s’apparenta a quella di Al Jarreau, che sembra essere la sua fonte di ispirazione canora.

Dianne Reeves, Ethan Iverson, Umbria Jazz Orchestra
Copyright Umbria Jazz

Il secondo set è l’appuntamento clou della rassegna umbra: il tributo a Burt Bacharach di Dianne Reeves con l’Umbria Jazz Orchestra diretta da Ethan Iverson, che ha anche arrangiato i brani in scaletta. Ospite dell’ensemble il chitarrista di fiducia della Reeves, Romero Lubambo.
Chi scrive ha assistito a tutte le repliche di questo sodalizio, soprattutto perché non convinto di quanto successo nella sera d’apertura. La scaletta è rimasta immutata, ma rispetto all’overture, la «musica è cambiata». Se la prima sera Dianne Reeves, sempre magica e dalla presenza scenica coinvolgente e impetuosa, appare in lieve difficoltà espressiva, nascosta da degli arrangiamenti non del tutto felici e da un trio, quello del pianista Ethan Iverson (Peter Washington al contrabbasso e Dan Weiss alla batteria) non in linea con la vocalità torrenziale della Reeves, dalla seconda prova tutto cambia. I brani di Bacharach illuminano la sobria ed elegante struttura del teatro Mancinelli e What The World Needs Now Is Love, Do You Know The Way To San Jose, I’ll Never Fall In Love Again, Don’t Make Me Over, The Look Of Love, Say A Little Prayer, (There’s) Always Something There to Remind Me, Walk On By, Alfie, Raindrops Keep Fallin’On My Head, si susseguono con grande piacere del pubblico. Lasciamo che la premiere di questo concerto venga archiviata e partiamo dalla seconda prova. Dianne Reeves prende le misure su di una sezione fiati particolarmente invasiva, con la quale ha ingaggiato una singolar tenzone durato quattro giorni. E ciò non per demerito degli orchestrali – tutti bravissimi, attenti e altamente professionali -, ma per degli arrangiamenti vivaci, per così dire, e non del tutto calzanti alla realtà dell’ensemble. D’altro canto, Iverson non ha messo mano in modo corposo, ma ha lasciato armonie e melodie intatte (o quasi). La scrittura, le partiture però sono state fatte in maniera tale da accontentare un profilo ritmico-armonico senza che fosse annoverata una voce. Infatti, già dalla prima sera, i momenti migliori della Reeves sono stati quelli in duo con il suo alter ego Romero Lubambo, e anche quando ha duettato con Iverson in Alfie: praticamente cantata a cappella. Si diceva che, dalla seconda sera in poi (dovremmo dire la terza, visto che il 29 Reeves e sodali sono stati ospiti a L’Aquila) tutto è cambiato: o parecchio. La cantante di Detroit, vincitrice di cinque Grammy Awards, ha preso distanze e misure imponendo i suoi schemi, soprattutto tenendo a bada la ritmica, giocando con il pubblico, intonando scherzosi canti e, il 31 dicembre, ha sublimato tutti questi aspetti con una performance da incorniciare. Insomma, per Dianne Reeves missione compiuta. La scaletta bacharachiana è stata sempre preceduta da una suite in miniatura di Iverson, particolarmente gradevole e orecchiabile: in stile Bacharach con degli accenti, nel secondo movimento, a un’orchestrazione di matrice classica.
Alceste Ayroldi

Le foto sono state gentilmente fornite dall’ufficio stampa di Umbria Jazz.