Nei cinque giorni di Umbria Jazz Winter, che da qualche tempo ha adottato la sana pratica di far suonare più volte i gruppi convocati, così come di inserire un determinato solista in contesti diversi, si è potuto assistere a esibizioni di grande rilievo, tali da portare avanti nel miglior modo possibile la grande tradizione del festival umbro, giunto ormai alla ventiquattresima edizione.
Tra le cose migliori, va innanzitutto segnalato il duo Steve Wilson-Lewis Nash, che i frequentatori abituali di Orvieto ricordavano benissimo fin dalla sua prima performance in terra umbra nel dicembre 2013, per l’edizione numero 21, poi immortalata su un magnifico cd allegato a Musica Jazz. L’intesa tra il sassofonista (contralto e soprano), storico collaboratore di grandi maestri quali Chick Corea e Maria Schneider, e il batterista – uno dei pilastri contemporanei del suo strumento – ha raggiunto ormai livelli di comunicazione quasi telepatica senza però mai cadere nella routine o nell’esibizionismo fine a se stesso; anzi, ogni volta si resta incantati dalla sapienza dialettica dei due musicisti, la cui deliberata scelta di escludere ogni strumento armonico non lascia una sola volta la sensazione di incompletezza che altre esperienze analoghe hanno spesso procurato.
Paolo Fresu è stato, senza alcun dubbio, l’altro trionfatore del festival, passando senza la minima esitazione dalle rivisitazioni davisiane/evansiane concepite da uno specialista come Ryan Truesdell (già apprezzato anni fa nell’Umbria Jazz estiva al Morlacchi di Perugia) all’omaggio a Fabrizio De Andrè e Lucio Dalla allestito in compagnia di Gaetano Curreri e Fabrizio Foschini degli Stadio e del sassofonista Raffaele Casarano. Il rischio del revival, sempre presente in operazioni di repertorio come quelle di Truesdell, è stato abilmente evitato grazie all’entusiasmo dei partecipanti e alla sapienza improvvisativa del trombettista sardo, che ha vestito gli scomodi panni di Miles mettendoci sempre qualcosa di personale (anzi, parecchio), tanto che nessuno – tra il pubblico – ha sentito la necessità del minimo confronto con gli originali.
Christian McBride, fresco direttore artistico del festival di Newport, ha ammaliato e stupefatto gli ascoltatori con il suo virtuosismo a prova di bomba ma anche con una straordinaria musicalità, il che dimostra quanto – nelle mani giuste – questi due aspetti possano tranquillamente andare d’accordo al completo servizio della musica. E anche il duetto di McBride con un altro stratosferico virtuoso del contrabbasso come John Patitucci, che sulla carta poteva far temere il peggio, si è risolto nel migliore dei modi senza sfoggio di competizione né di vanità, davanti a un pubblico in giusto delirio. Patitucci si è esibito anche con il suo quartetto, in cui figura un autentico mostro della chitarra come Adam Rogers, mentre McBride ha portato in Umbria il suo trio che vede un ottimo strumentista come il pianista Christian Sands, altra vecchia conoscenza dei palcoscenici orvietani.
Ricordiamo anche le brillanti prove del trio Giovanni Tommaso-Rita Marcotulli-Alessandro Paternesi, impegnato in un’ingegnosa rivisitazione delle immortali composizioni di Gershwin, e del duo pianoforte-chitarra tra Dado Moroni e Luigi Tessarollo, che non ha minimamente sfigurato davanti agli ingombranti modelli del passato che un siffatto organico poteva suscitare. Assai piacevole, anche se non particolarmente innovativo (ma non era certo questo l’obiettivo), il tro della pianista giapponese Chihiro Yamanaha, un’abile strumentista nella miglior tradizione della Berklee. Le mancano ovviamente un po’ d’esperienza e di sensibilità, ma il tempo gioca tutto a suo favore.
Monica Carretta