TRENT’ANNI DI ALEXANDERPLATZ: INTERVISTA A EUGENIO E GIAMPIERO RUBEI (SECONDA PARTE)

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Avete notato che il pubblico ha modificato i suoi gusti nel corso del tempo?

E.R. Moltissimo. Io sto vivendo un cambio generazionale. Sia chiaro, il pubblico cambia sempre. Tuttavia, c’è una parte che sa quello che il jazz deve dare, l’altra parte del pubblico nuovo è legato ai nuovi musicisti.

Il nuovo pubblico è anche in parte pericoloso, perché troppo legato al musicista e non alla musica in generale.

G.R. Sì, in parte. Ora il pubblico è più orientato verso un jazz elettrico. C’è una grande massa che, però, è rimasta fedele alla musica swing.

Ogni mese ospitate tre big band: perché questa scelta?

E.R. Perché a Roma ho deciso di combattere una bruttissima abitudine: le jam session. La mia proposta è  di far suonare molti musicisti ma con una logica, mettere insieme persone che possono costruire qualcosa e che vanno in una direzione. Nelle jam di oggi ci sono troppi individualismi, non sono nate per aiutare i musicisti ma servono solo per non pagarli. Servono per mantenere vivo un locale che non ha niente da proporre. Le jam sono implose. È un voto di scambio. I giovani di oggi non hanno una mentalità di rottura; combattono il vecchio sistema per entrarci dentro ma non per distruggerlo e cambiarlo.

Come operate le scelte relative alla vostra programmazione?

E.R. Non ci sono criteri, non è una scienza esatta. È un intuito, una conoscenza totale del mondo del jazz e, soprattutto, delle persone e della vita dei musicisti. C’è da dire una cosa importante: tra tutte le città d’Italia, Roma è un caso a sé. Qui la proposta è molto più grande che altrove, la maggior parte dei musicisti vive qui. C’è un “mercato” che offre più possibilità. È più facile per loro trovare maggiori spazi per suonare, fuori Roma chiaramente fanno numeri maggiori, qui è tutta un’altra cosa. Roma è anche una grande palestra per poi andare a suonare altrove. Sulla scelta di questo o quel musicista, qualcuno potrebbe dire «dipende da quanti biglietti riesce a fare». Chi dice così, di solito, conosce molto poco i musicisti. Noi cerchiamo di proporre anche dei progetti, a volte li produciamo. Molto spesso riusciamo a far incontrare i musicisti tra loro e creare delle collaborazioni.

G.R. In primo luogo se i musicisti riescono ad esprimere qualcosa di nuovo.

Quanto influisce sulle scelte del pubblico, secondo la vostra esperienza, una buona offerta enogastronomica?

E.R. Il club è fatto dal 40% del valore della musica e dei musicisti, il resto lo fa il club che è fatto anche e soprattutto di ambiente, cucina e servizio.

G.R. Almeno nella misura del 30%. Abbiamo sempre cercato dei cuochi particolarmente in gamba e all’altezza. Il nostro pubblico è abituato a mangiare benissimo.

Potreste fare l’identikit del vostro pubblico attuale?

E.R. Non c’è un target, a me interessa solo che il pubblico abbia rispetto del locale. Qui non ci sono salotti, salottini e vip club. I tavoli sono vicini e voglio che rimangano così. Il jazz è un linguaggio che unisce, è riconosciuto anche dall’Unesco! Noi non vogliamo cravatte e divise ma il locale va rispettato. Il pubblico viene anche per curiosità, per vedere il locale e respirare l’aria. Qui si respira la storia, sul quel palco hanno suonato tutti, da Petrucciani e Corea.

E quello degli inizi? E’ cambiato il profilo del pubblico del jazz?

La fortuna di questo locale è stata quella di far avvicinare il pubblico non appassionato a vivere una serata di jazz, all’altezza dei migliori locali internazionali.

Riuscite a creare partnership di tipo culturale con altre forme d’arte?

E.R. Le attività parallele nel jazz non sono molte ma qui da noi ne abbiamo provate molte, dalle librerie alle mostre di pittura. La pittura è forse l’aspetto culturale con cui abbiamo più interagito, spesso esponiamo opere d’arte. Quest’anno, per esempio, abbiamo esposto per un mese le opere di Marco Filippetti su Bill Evans.

Avete creato sinergie con enti pubblici o privati?

E.R. Negli anni è capitato di tutto, ma devo dire che è più quello che abbiamo dato che ricevuto. Al contrario di quello che dice Jeff Gordon: «Io ho ricevuto molto più dal jazz di quanto io abbia dato».

Io potrei dire l’esatto contrario.

G.R. Sì, spesso con le varie ambasciate sedenti a Roma, invitando musicisti provenienti dai diversi paesi rappresentati.

La vostra programmazione, in misura percentuale, quanto spazio riserva ai musicisti italiani?

E.R. Un vero club come l’Alexanderplatz assolve a uno dei suoi compiti principali, ovvero, quello di creare musicisti nazionali e farli ascoltare alle star straniere. La classica formula del trio italiano è stata coniata all’Alexander. È una formula passata ormai, non si può quasi più fare. Venticinque anni fa, quando mio padre organizzava concerti jazz con i grandi musicisti americani, doveva dare loro innumerevoli rassicurazioni per farli sonare con gli italiani. Nessuno straniero voleva suonare con loro. Anni dopo questa formula è stata sfruttata e si è addirittura capovolta. Era il musicista americano che quando veniva pretendeva di suonare con quel musicista italiano. Riuscivamo a garantire l’affidabilità, quello è stato un grande passo in avanti e motivo di orgoglio.

Quali sono stati i concerti che, in ogni senso, vi hanno dato maggiori soddisfazioni?

E.R. Sono moltissimi! Quello di Ray Brown , Wynton Marsalis, Tony Scott (lui era di casa) Benny Golson, Billy Higgins, Chet Baker, Michel Petrucciani, Michael Brecker, Joe Lovano appena lanciato.

G.R. Ma anche Stefano Bollani, Danilo Rea, Roberto Gatto.

Nella comunicazione degli eventi, quanto affidate al tam-tam e quanto al battage pubblicitario e/o alla comunicazione?

E.R. Impossibile fare una stima del genere, è un binario che cammina da solo e non ci incrocia mai. Essendo un locale storico, il tam-tam esce dai confini nazionali per fortuna, la comunicazione ci serve a per mantenere uno status e poter rimanere collegati anche con le nuove generazioni.

Avete mai avuto, durante i trent’anni, momenti di scoramento tale da farvi pensare di abbandonare tutto?

E.R. Sì, certamente. Una crisi come quella di questi ultimi anni non l’avevamo mai vista. Le difficoltà e le lotte quotidiane ci hanno messo a dura prova ma alla fine è la passione a vincere, questo lavoro è un motivo di vita. Il jazz e il locale sono la mia vita.

G.R. Tante volte. Spesso ti senti solo, senza nessun aiuto delle autorità pubbliche. I jazz club andrebbero presi in considerazione anche dal punto di vista sociale, sono un volano per l’economia.

C’è qualche rimpianto?

E.R. Nessun rimpianto.

G. R. Avrei voluto fare un grandissimo festival del Mediterraneo.

Come pensate di festeggiare questo trentennale e quali sono i vostri obiettivi futuri?

Il più grande regalo è quello di portare a termine questa stagione e tutte le nostre attività in maniera professionale, ci stiamo rilanciando.

L’esempio del Music Inn non deve essere dimenticato da nessuno. Bisogna stare attenti a non fare il passo più lungo della gamba.

G.R. Stiamo cercando di organizzare, entro la fine di quest’anno, una settimana dedicata al cool jazz, chiamando tutti i musicisti ancora in vita. I festeggiamenti del trentennale, comunque, stanno per iniziare.

A Ayroldi