TRENT’ANNI DI ALEXANDERPLATZ: INTERVISTA A EUGENIO E GIAMPIERO RUBEI (PRIMA PARTE)

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Importante traguardo per l’Alexanderplatz di Roma che quest’anno gira la boa delle trenta primavere. Ne parliamo con Eugenio e Giampiero Rubei. Questa è la prima parte dell’intervista.

Come è iniziato il tutto?

G.R. E’ stata una sfida, con un po’ di incoscienza giovanile. All’inizio le difficoltà sono state di tipo economico, ovviamente. Sotto casa mia c’era un locale abbandonato e il gestore mi disse: «perché non te lo prendi per fare il jazz?». E così è stato.

Erano finiti da poco gli anni Settanta, un periodo di scontri, di manifestazioni, di piazze ed eventi all’esterno. Finiti questi anni, le persone volevano tornare a una dimensione più umana, di condivisione diversa. C’era il desiderio di ritrovarsi in altri luoghi e la nascita dei club era spontanea.

Quali erano i vostri diretti concorrenti in quel momento?

E.R. C’era il Music Inn, il Saint Louis a via del Cardello, il Grigio Notte a Trastevere, il Blue Lab, il Mississippi jazz club e altri ancora.

Quali erano gli obiettivi che vi eravate posti?

E.R. In quegli anni, il jazz era una musica per ghettizzati ed era molto politicizzato. I locali erano praticamente delle cantine e il servizio non era certo la cosa più importante. Erano ritrovi pochi intimi, fuori dal circuito delle persone normali. Uno dei primi obiettivi era quello di unire queste due tipologie di persone, ovvero, creare un locale internazionale ma aperto anche al pubblico normale. In quegli anni, in Italia, non c’era una cultura da club americano. Mio padre, per esempio, è stato il primo che ha abbinato la cucina al jazz e mi sembra che questo obiettivo l’abbia assolto. È stato un lavoro difficile, non immediato. Lui voleva creare un locale di jazz internazionale che in quegli anni mancava a Roma.

G.R. L’obiettivo principale era quello di durare, di rimanere in vita il più a lungo possibile! È stato un grande sforzo, non solo mio ma anche di mia moglie e dei miei figli Eugenio e Paolo.

Quali, invece, gli obiettivi a distanza di trent’anni?

E.R. All’inizio volevamo portare il jazz italiano al livello di quello americano, che era il riferimento. Questo è stato un obiettivo raggiunto, oggi invece c’è stata un’involuzione per colpa delle grandi strutture statali che sono state aperte e di alcune tipologie di grandi festival estivi che non portano niente di nuovo e che sono coesi solo per prendere i soldi dei finanziamenti pubblici, non nascono per “promuovere” qualcosa. Il festival ormai lo fa solo chi ha più agganci politici e, quindi, vengono automaticamente a mancare le idee. Per esempio, il jazz all’auditorium di Roma potrebbe essere fatto in maniera diversa. Il jazz nasce nei club e deve tornare nei club, ci deve essere una distanza giusta tra il musicista e il pubblico, altrimenti si crea un distacco eccessivo. Cambia tutto anche la performance dei musicisti. Questo non vuol dire che non si possano fare i grandi concerti nelle sale da concerto ma sono coronamenti di grandi progetti. Quei tipi di palcoscenici non sono certo per tutti i musicisti. Il jazz nei club non deve mai mancare, in America puoi ascoltare i grandi nomi suonare nei club, da noi in Italia non succede quasi più. Il nostro obiettivo è stato sempre quello che di far crescere i musicisti, di mantenere e rilanciare il più possibile il livello musicale e di creare nuovo pubblico.

G.R. E’ quello di creare un club che sia una chicca, anche se il momento è difficile sia per via della concorrenza, che per la contingenza economica. C’è un calo di attenzione del pubblico, forse per motivi economici, ma anche per una maggiore offerta di jazz in varie situazioni.

Quali sono le maggiori soddisfazioni artistiche che avete avuto fino ad ora?

E.R. Questa è una domanda che forse andrebbe fatta a mio padre. Mi ricordo che nel 1986 mio padre affittò lo Stadio Flaminio per fare Ray Charles e Pierangelo Bertoli; pioveva a dirotto e fu costretto a  vendere l’appartamento per poter pagare il chachet ai musicisti. Negli anni 1985-1986 costituì l’associazione Roma Jazz e, oltre al locale, prendeva il Teatro Olimpico per fare il primo Jazz Festival (privato) di Roma. Mi ricordo Arnett Cobb, Ornette Coleman, Archie Shepp e Tullio De Piscopo tutti insieme nella stessa sera e poi Chet Baker che, dopo il concerto in teatro, veniva a suonare qui all’Alexanderplatz fino alle cinque di mattina. Il massimo l’abbiamo raggiunto però con Villa Celimontana e l’Estate Romana.

G.R. E’ stata quella di aver esportato il nostro locale in tutto il mondo. Abbiamo organizzato festival a Pechino, in Corea, a Londra, a New York, a Parigi. Quando siamo stati a New York abbiamo organizzato oltre cinquanta concerti: in quelle sere a N.Y.C. si parlava italiano e si ascoltava il jazz italiano. Esperienze che, purtroppo, non si sono più ripetute. Il concerto che più di tutti, in quanto amante del jazz, mi ha dato maggiori soddisfazioni è stato quello del quintetto di Red Rodney, che è stato al fianco di Charlie Parker, che ospitava Massimo Urbani.

Il prodotto culturale necessita di un refreshment dopo un arco di tempo stimato in cinque anni. Avete applicato questa regola di marketing? Se sì, in quale modo e misura?

E.R. La adottiamo sempre ma non ogni cinque anni. La politica della nostra famiglia è stata sempre quella di rinnovarsi rimanendo nella tradizione. Questo è lo slogan del locale. Nessuno vive sugli allori di quelli che sono stati i momenti d’oro. In questi anni di crisi, ho visto molte attività chiudere. Erano anche strutturate bene ma forse hanno sbagliato perché hanno messo in discussione una loro idea, che magari era giusta alla base. Rispetto a molti, l’Alexanderplatz si è salvato perché ha una tradizione ed è inserito in un tessuto sociale, fatto di musicisti e di pubblico, ormai consolidato da anni. Il jazz lo sta tenendo vivo il pubblico, non i musicisti. Oggi non c’è un movimento. Il mondo del jazz è ancorato legato al mondo della vecchia politica.

G.R. L’Alexanderplatz è un classico e le strutture sono sempre rimaste identiche. L’offerta culturale, invece, è cambiata e si è anche adeguata.

A Ayroldi