Torino Jazz Festival 2023: prima parte

di Lorenza Cattadori

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Del perché scrivere di jazz dopo un concerto. Molti concerti. Un Festival. Per i musicisti e il loro impegno, per il pubblico che era presente fornendo rimandi, per le persone che non c’erano stimolando curiosità, per scoprire nuovi musicisti o progetti artistici peculiari: attività necessaria e forse aleatoria in un mondo in cui tutti ormai ‘recensiscono’ qualcosa. A volte in effetti il timore è quello di inscatolare le emozioni di quell’evento e renderle asfittiche, ma più spesso si tenta di condividerle, infondere nuovo vigore, farle volare. Parte così con questo testo il racconto – sezionato in più parti – del Torino Jazz Festival nella sua undicesima edizione, che vede il ritorno alla direzione artistica di Stefano Zenni il quale, nel proprio discorso inaugurale durante la conferenza stampa, ringrazia in primis i musicisti Diego Borotti e Giorgio Li Calzi per l’ottimo lavoro portato a termine negli ultimi anni in quel ruolo. Qui saluta il pubblico e sul programma davvero colmo di iniziative sostiene: «Con un po’ di buona volontà potete riuscire a seguirlo tutto». Magari: e aggiungerei anche un bel po’ di ubiquità, tale e tanta è l’offerta di bellissime occasioni di musica.
Ogni racconto che si rispetti ha bisogno di una prefazione, che qui è perfettamente compiuta nell’incontro «Aleph Zero / Prova Prima» organizzato da StudiUm – Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino venerdì 21 aprile alle 14:30. Qualcosa di inaudito nel senso letterale, perché si tratta di far entrare il pubblico nel momento magico della prima prova di un concerto. In questo specifico caso è stato scelto l’appuntamento del 29 aprile con il trombettista Johnny Lapio e il suo gruppo Arcote, e le persone presenti a questo appuntamento si sono trovate perfettamente calate in una situazione davvero inusuale, con Lapio che conduce e si ferma e consiglia e illustra i passaggi e le frasi «al netto di insulti e parole forti», come spiega a una persona del pubblico che gli chiede se quello a cui stiamo partecipando sia performance o una vera prova. All’inizio il musicologo e docente Jacopo Tomatis – che coordina il lavoro insieme ai colleghi Ilario Meandri e Carlo Serra – presenta il progetto e i musicisti, io mi calo nella parte annotando sul taccuino ogni sensazione, ma sto assistendo a qualcosa di talmente profondo e interessante che presto smetto di scrivere e mi lascio andare alla musica e alla costruzione progressiva di una suite che dura circa cinquanta minuti ed è intitolata Aurora  e che Lapio ha scritto pensando proprio al quartiere dove abita, chiamato così: un luogo difficile e speciale reso perfettamente nelle note e in quell’alfabeto Morse di «tema-schiaffone-tema-schiaffone e ancora tema», come sintetizza perfettamente l’artista per spiegare al pubblico il progredire di una partitura davvero colma di asperità meravigliose. Si parlerà di questo momento e del concerto in modo più approfondito nella terza parte di queste note, ma è interessante la scelta del sassofonista Pasquale Innarella come ospite del gruppo. «Siamo molto diversi come suono e intenzione, e dunque non so ancora se suonerò con lui o contro di lui», e con una battuta sorridente Johnny Lapio ha risolto molti dubbi degli ascoltatori su come si possa giungere a un vero interplay…

Peppe Servillo
Foto di Carlo Mogavero
Emanuele Cisi
Foto di Carlo Mogavero

Sabato 22 aprile il TJF costruisce intorno alla voce di Peppe Servillo un’antologia di grandi musicisti italiani per narrare un testo sacro della letteratura jazz, ossia Natura Morta con Custodia di Sax di Geoff Dyer. Spente le luci delle OGR, le note di una Sophisticated Lady (in tutti i sensi, vedrete) arriva da dietro il palco e qualcuno tra il pubblico pensa si tratti di un campionamento. Ma il sax che la esegue è un baritono e l’esecutrice è una tra le più raffinate strumentiste in circolazione. Helga Plankensteiner sfuma il suono nel finale, e se non ci fosse la voce di Servillo a risvegliarci dall’incanto saremmo rimasti tutti lì, a vergognarci di aver pensato a un intervento registrato e completamente affascinati dall’incursione inaspettata: ce ne saranno altre tre, Helga tra il pubblico a punteggiare un concerto così naturale di musicisti misurati ma generosi come Flavio Boltro alla tromba, Dado Moroni al pianoforte, Emanuele Cisi al sax, Ares Tavolazzi al contrabbasso ed Enzo Zirilli alla batteria, leggerissimi nell’accezione calviniana e senza alcuna asperità – che pure amiamo tanto – se si escludono alcuni sapienti e innovativi arrangiamenti di Cisi (uno su tutti, il tema rallentato di Goodbye Pork Pie Hat, che amplifica il senso di tensione del pezzo). Nelle corde (vocali) di Servillo e nella sua modalità di racconto, le mie corde riescono persino ad apprezzare un volume che negli anni mi era sempre apparso un po’ indigesto, profondo ma chiassoso. Nel bis Dado accompagna Peppe per la gioia di chi era arrivato al concerto pensando a una performance canora di Servillo, e la scelta cade su Presentimento, una canzone struggente composta nel 1918 e spesso interpretata da Fausto Cigliano.

Kenny Barron
Foto di Carlo Mogavero

La mattina di domenica 23 aprile Stefano Zenni incontra Kenny Barron nella sala dello Urban Lab di Torino. Tocca le sensibilità giuste e Barron risponde a ogni domanda con la tranquillità e lo spessore che da sempre lo contraddistingue: la sua formazione parte da un’insegnante che scopre essere la sorella del pianista Ray Bryant (e che diventerà in seguito la madre di un altro grande come Kevin Eubanks); parla del suo rapporto con Dizzy Gillespie o con Stan Getz, dell’insegnamento così importante per lui, del quartetto Sphere attraverso il quale lo scopo non era «divenire un rigurgito» di Thelonious  Monk bensì evocare il suo stile, forte anche della presenza nel gruppo del sassofonista Charlie Rouse, storico collaboratore del pianista. Definisce il proprio stile una sintesi tra Monk e Tommy Flanagan (che definisce come il proprio mentore) e narra della collaborazione con Yusef Lateef che ha avuto grande influenza su di lui anche per il senso di disciplina che infondeva in chiunque suonasse con lui. Si complimenta con Dado Moroni, al quale lo lega una profonda amicizia, dice che la formazione in trio lo rilassa e lo diverte, quella in quintetto è tutta una questione di scrittura mentre in solo è maggiormente spaventato, seppure l’esperienza valga la tensione e infine dal pubblico scaturisce una domanda che forse è più un ricordo: «Stan Getz la definiva il proprio ‘pacemaker naturale’. Lei chi potrebbe definire così oggi?» La risposta è volutamente vaga, molto nel suo stile e conclude la bella intervista: «Ci sono solo dodici note. Solo dodici note».
Che dire del concerto serale? Meraviglioso e luminosissimo. Poche pause, che il pianista riempie di suoni perfetti; il pubblico riesce persino a non applaudire appena il finale si compie, ma attende finché sfuma l’ultima nota. Tutti i pezzi, tra cui quello tratto dal musical Oklahoma, sono parentesi meravigliose in un tempo sospeso e il pubblico risponde con la stessa delicatezza senza smettere di applaudire; arriva anche una pioggia fittissima e il tetto delle OGR sembra aggiungere una nuova ritmica alle molte magnifiche soluzioni di Johnathan Blake, che si conferma uno dei migliori batteristi al mondo (un altro è Hamid Drake, curiosa l’assonanza…) e una persona davvero amabile e gentilissima con ognuno dei fan accorsi per un selfie. Kiyoshi Kitagawa, contrabbassista sempre di grande potenza, mi è sembrato sulla scena molto più contenuto di un tempo.
Nel pomeriggio del 23 aprile il palco delle OGR era veramente affollato di splendidi musicisti, tra l’Orchestra del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino e una band guidata dal sassofonista e compositore Cristiano Arcelli a punteggiare qualcosa di veramente straordinario. «Potentissima Signora» (da una pièce del 1963) è il titolo dello spettacolo creato dal musicista e da Cristina Zavalloni per omaggiare e diffondere la vita e l’arte della straordinaria Laura Betti. Attraverso le canzoni composte per lei da Piero Umiliani o Fiorenzo Carpi, con testi scritti dai più grandi scrittori del tempo (Arbasino, Moravia, Franco Fortini, naturalmente Pier Paolo Pasolini e molti altri), l’evocazione del suo spettacolo sulle musiche di Kurt Weill (con gli arrangiamenti di Bruno Maderna, nientemeno) e un racconto davvero bello, coltissimo ma divertente, scritto e letto da Jacopo Tomatis, la Zavalloni esplora tutta l’intensità di questa donna speciale attraverso la propria interpretazione e un timbro a tratti commovente. Uno spettacolo magnifico che invita ad approfondire la vita e il percorso artistico di Laura Betti, questa «Gianburrasca rivisitata da Freud», come l’aveva definita il critico Tullio Kezich. Sul palco anche Manuel Magrini al piano, Stefano Senni al contrabbasso, Alessandro Paternesi alla batteria, Giancarlo Bianchetti alla chitarra, Cesare Carretta al violino e Giovanni Tamburini alla tromba.
Altra mattina di notevole intensità intellettuale, e siamo al 24 aprile con la conferenza, al Circolo dei Lettori di Torino, dello studioso e docente Francesco Martinelli su Chet Baker in occasione dell’uscita del volume di Jeroen De Walk Chet Baker. Vita e musica che lui ha tradotto ma che diventa, nel corso dell’incontro, solo uno spunto per un bellissimo e necessario excursus sulla vita di Chesney Baker detto Chet, al netto delle sue intemperanze e senza incedere morbosamente sull’aspetto maudit dell’artista. Si ascolta molto, musica e parole, il pubblico è attentissimo ed entusiasta fino al punto di qualche intemperanza canora su My Funny Valentine (e comprendo a pieno la pulsione…), ma di fatto la sensazione che danno gli approfondimenti condotti da Martinelli è di imparare veramente qualcosa di nuovo sia che il pubblico sia composto da appassionati oppure da addetti ai lavori: si sente una ricerca vera e capillare dietro questi incontri e infatti in quel brevissimo tempo conosciamo dell’influenza che Jack Teagarden ed Henry James ebbero su Chet, osserviamo stupefatti un corto davvero surreale – e dall’intento surrealista –  realizzato dal regista Enzo Nasso negli anni Sessanta con protagonista proprio Chet, scopriamo le collaborazioni di Chet con Terry Riley e l’intento di improvvisazione totale insieme al compositore Wolfgang Lackerschmid. Si esce dalla sala pieni di spunti e con la voglia di spendere tutti i propri soldi in libri.

Federica Michisanti – Louis Sclavis

Pomeriggio del 24 aprile, Teatro Vittoria: la vincitrice del Top Jazz come miglior talento italiano Federica Michisanti è sul palco con un suo nuovo lavoro, questa volta non in drumless e con l’intento di esplorare nuovi noccioli tonali e nuove sonorità: la musica è sontuosa, dolente, è di quelle che non applaudi ai passaggi e non c’è spazio per gli assolo se si esclude quello contenutissimo e perfetto di Louis Sclavis, ospite del progetto al clarinetto basso: in una sceneggiatura potremmo chiamarlo «un personaggio molto ben scritto». Completano il quadro Emanuele Maniscalco alla batteria e Salvatore Maiore al violoncello per un concerto intervallato (e gli intervalli in questo caso diventano parola-chiave) dalla voce di Federica ad accompagnarci in un percorso non facile con la dolcezza e la grazia che nella sua musica arriva a tratti, tra la potenza del suo registro e una scrittura complessa.
La sera del 24 aprile le proposte erano molteplici e davvero molto differenziate: dal palco dei main concerts con il sassofonista Shabaka Hutchins insieme a Majid Bekkas alla voce e al batterista Hamid Drake fino alla jam session del club “Comala” guidata dal GTTrio con il sax di Gianni Denitto: per una volta una jam veramente di livello e grande presa su pubblico e appassionati. (Fine Prima Parte)
Lorenza Maria Cattadori