«THIS COULD BE THE START». INTERVISTA A DANIELE CORDISCO

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«This Could Be The Start» ( Nuccia Records) è l’album d’esordio di Daniele Cordisco, giovane chitarrista di origini molisane. Ne parliamo con lui.

Daniele, «questo potrebbe essere l’inizio» di cosa? 

In realtà «This Could Be The Start» sta per l’inizio, o almeno spero, di una carriera discografica. Il nome, ovviamente, è stato rubato al vecchio standard presente anche sul disco, This Could Be The Start Of Something Big, di Steve Allen.

Per lei è importante la tradizione. Ritiene che il jazz abbia solo questa chiave di lettura?

Per me la conoscenza della tradizione del jazz è fondamentale come lo è lo studio della storia nelle scuole. Ritengo che l’approfondimento del linguaggio dei grandi classici aggiunga una consapevolezza maggiore, basti pensare ai grandi musicisti americani che oggi calcano i palchi dei più importanti festival jazz del mondo. Ovviamente mi guardo bene dal definirmi un fondamentalista e sono sempre molto aperto alle nuove frontiere del jazz purché non ci sia lo zampino della moda del momento, come purtroppo riscontro troppo spesso, o della ricerca fine a se stessa. L’innovazione, come quella che ha portato alla nascita e lo sviluppo del jazz, non è mai stata né provocata da tendenze né può dirsi priva di forti radici, ma nasce spontanea solo con anni di duro lavoro.

Forse il fatto che i brani di questo disco siano tutti ballabili non sia un caso.

Questo mi lusinga molto, non me lo aveva fatto notare nessuno fino ad ora e penso che questa componente sia una caratteristica necessaria per una facile fruizione da parte dei non addetti ai lavori, cosa alla quale abbiamo mirato, sin dall’inizio del progetto, io e il produttore Giuseppe Vadalà. Di fondo c’era l’idea di fare un disco solare e rilassato, senza dimostrare abilità tecniche o ricerche fine a se stesse, ma optando per un linguaggio universale, come quello del jazz mainstream, che si rivolgesse con facilità a differenti categorie sociali e culturali.

Nonostante il riferimento alla storia del jazz, però il suo lavoro contiene quattro standard e il resto è tutto a sua firma. Musicalmente a cosa si è ispirato in maggior misura?

E’ una bella domanda, in realtà non ho seguito un filo logico e dal punto di vista compositivo e per quanto riguarda la direzione stilistica del disco. Le influenze potremmo dire che sono molteplici, ho cercato di ricreare alcune sonorità o colori presenti nei dischi di: Oscar Peterson, Ben Webster, Gerry Mulligan, Ray Brown; ma anche un sound più chitarristico, come quello di Wes Montgomery, il George Benson dei primi anni, sino ad arrivare alle composizioni lounge di Quincy Jones e Jimmy Smith, facilmente riscontrabili in Woo Chen.

E per quanto riguarda gli standard, perché ha scelto proprio questi?

Credo che, come me, tutti i musicisti preferiscano alcuni standard ad altri a seconda del periodo della loro carriera. Ho scelto questi perché ognuno di essi potesse ricondurre l’ascoltatore ad un determinato stato d’animo. I’ve Got The World On A String, che adoro particolarmente nella versione cantata da Frank Sinatra, è un brano solare con una melodia semplice ed efficace; Jitterbug Waltz è uno dei primi valzer della storia del jazz, un brano raffinatissimo con una melodia bizzarra;  Lush Life, per me uno dei brani più belli di sempre, è davvero un esempio di composizione complessa ma ciò nonostante capace di arrivare >dritta al cuore dell’ascoltatore; e poi c’è This Could Be The Start Of

Something Big, un tema scanzonato dal ritmo deciso.

Anche la bossa nova fa parte del suo patrimonio genetico musicale. Cosa l’affascina di più di questa musica?

La bossa nova, o forse dovrei dire la musica brasiliana più in generale, rappresenta per me un amore segreto, scoperto grazie a mio padre e la sua collezione di dischi di Irio De Paula. Non so perché ma una buona parte di chitarristi, prima o poi, si imbatte in questo mondo restandone affascinata. La chiave è sempre quella: composizioni complesse dal punto di vista sia armonico sia melodico ma che abbiano la capacità di smuovere l’animo dell’ascoltatore. Inoltre jazz e bossa nova hanno armonie assai simili ma con progressioni che si sviluppano in direzioni diverse, molto spesso, in quest’ultimo, ci sono modulazioni che rendono l’improvvisazione più complessa e di conseguenza più intrigante. Poi c’è da dire che la chitarra ha una figura da protagonista in questo genere, un po’ come accade con il sassofono nel jazz, e ciò contribuisce ad avvicinare gli strumentisti a sei corde a questo stile.

Il suo gruppo è ben nutrito: con lei dieci musicisti. Perché ha voluto un ensemble così consistente e come ha scelto i suoi compagni d’arte?

La verità è che la chitarra alle volte mi sta un po’ stretta e, pensando in grande, finisco per comporre dei brani che nascono per organici molto variegati. Inoltre ho voluto riportare, all’interno dell’album, i diversi ensemble con cui amo esibirmi, dal guitar trio, con basso e batteria, a formazioni più allargate che mi consentono di avere un’ampia gamma di colori nello stesso lavoro discografico. Molti dei musicisti presenti sul disco collaborano con me da diversi anni in progetti che si sviluppano parallelamente, altri ho scelto di includerli nell’album per necessità musicali. Ad esempio, nei brani Woo Chen e Winston Samba, dallo stile tipico degli anni Sessanta, volevo utilizzare alcuni strumenti molto diffusi all’epoca come organo e flauto; per altri brani, invece, ho preferito organici più convenzionali. Ovviamente devo sottolineare che mi sono avvalso di due front-men, entrambi di livello internazionale e assai diversi tra loro. Sto parlando di Fabrizio Bosso e Sandro Deidda, musicisti con caratteristiche differenti, che ho scelto di accoppiare per necessità di avere interlocutori con espressività assai differenti ma accomunati dalla stessa matrice che è la tradizione del jazz.

Questo disco è il risultato, per così dire, dell’aver vinto a pieno titolo il Premio Massimo Urbani 2013. Cosa ha significato per lei questa vittoria e quanto ha inciso sulla sua carriera?

Per me è stata una soddisfazione enorme ed inaspettata al tempo stesso. Conseguire un premio importante come quello del Massimo Urbani, rappresenta una grande soddisfazione per un giovane musicista come me. È una conferma che il percorso intrapreso è quello giusto ed il premio, non  quello materiale ma simbolico, mi ha spinto ad andare avanti e affrontare nuove difficoltà in campo lavorativo con un po’ di serenità in più. Per quanto riguarda la carriera non so se ha contributo ad aprirmi nuove strade, ma mi auguro che il frutto di questa vincita, che è il disco in questione, faccia il resto.

Daniele, con suo padre alle spalle era inevitabile che approdasse al jazz e alla chitarra. Le è mai venuto in mente di suonare un altro strumento?

Devo dire che da piccolo, come la gran parte dei bambini, ero affascinato dalla batteria. Infatti tutt’ora, quando ne ho la possibilità, mi cimento, ovviamente riscontrando un livello assai amatoriale, con le spazzole ed il rullante. Penso che la scelta del mio strumento sia stata dettata dal fatto che in casa ci fossero tante chitarre e un pianoforte ma, ahimè, quest’ultimo era poco praticabile poiché mi era stato vietato di suonarlo considerato il mio curriculum, nonostante la tenera età, pieno di atti vandalici avvenuti fra le mura domestiche! A parte gli scherzi, devo ammettere di essere un malato delle sei corde, da Andres Segovia a Wes Montgomery. C’è poco da fare: ho fatto dei tentativi riscontrando poco successo anche con il contrabbasso, ma sono cresciuto con il suono della chitarra in testa e, purtroppo o per fortuna, mi ritrovo a conviverci.

E, a parte il jazz, Daniele Cordisco cos’altro ascolta?

In verità il tempo a disposizione da dedicare all’ascolto è veramente troppo poco, ma a volte, quando sono alla guida, spazio da Elis Regina agli Earth, Wind & Fire, da Michael Jackson a Stevie Wonder, a seconda dello stato d’animo. Altre volte preferisco rilassarmi con il blues del Texas e ascolto, con particolare interesse rivolto alle sonorità e al gusto, grandi nomi come Stevie Ray Vaughan. Diciamo che di base cerco di ascoltare sempre musica radicata nella tradizione afroamericana con una forte componente di groove o swing, a seconda di come lo si voglia definire, però ribadisco che non mi precludo nulla.

C’è un musicista con cui vorrebbe (o avrebbe voluto) suonare?

Da piccolo sognavo di suonare con Sonny Rollins ma in generale vorrei aver avuto la fortuna delle nuove generazioni di musicisti americani che hanno potuto, chi più chi meno, scambiare due note con i colossi del jazz. Basti pensare a Roy Hargrove con Oscar Peterson oppure a Joshua Redman con Johnny Griffin e tanti altri. Nel mio piccolo, però, posso ritenermi assai fortunato, poiché da diverso tempo collaboro stabilmente con Giorgio Rosciglione e Gegè Munari che, per quanto riguarda il panorama del jazz italiano, possiamo dire che sono stati davvero dei pionieri. Inoltre posso ritenermi molto soddisfatto poiché non molto tempo fa ho avuto modo di esibirmi al fianco di Gregory Hutchinson, di sicuro uno dei batteristi jazz più in vista oggigiorno.

Lei è molto giovane. Però, non crede che i giovani si tengano ben lontani dal jazz e che il pubblico dei concerti sia sempre un po’ troppo attempato?

Proprio qui è il problema: questa falsa credenza va scardinata dall’immaginario collettivo e tocca a noi, musicisti della nuova generazione, cambiare la tendenza che nell’ultimo trentennio circa ha portato ai concerti di jazz sempre meno appassionati e sempre più musicisti, ma alle volte nemmeno quelli. Purtroppo quando si parla di jazz ci si riferisce ad oltre un secolo di musica che ha visto continue rivoluzioni. Dire che non ci piace sarebbe come dire che non amiamo la letteratura. E’ pur vero che alcune influenze sono di nicchia ma c’è una grande parte di jazz, molto spesso appartenente al linguaggio tradizionale e forse proprio per questo bistrattato poiché ritenuto «già ascoltato», che può essere necessario promuovere per riportare pubblico nei festival e nei club.

Da giovane cosa direbbe per convincere un gruppo di suoi coetanei a seguire un concerto jazz ?

Più che altro farei loro ascoltare qualcosa!! Da qualche anno mi sta capitando di conoscere molti ragazzi appassionati di ballo swing e questo penso sia molto positivo. Il ballo lindy hop si sta sviluppando in tutta Europa e sta portando orde di giovani ballerini ai concerti jazz pronti a chiedere di suonare uno swing per fare due passi. Ciò ovviamente ci lusinga, anche se è ben diverso dal concetto di jazz, ma lo ritengo un ottimo input per scoprire un genere che altrimenti non avrebbero mai ascoltato. Anche pop star come Amy Winehouse o Michael Bublè hanno di sicuro contribuito a divulgare il verbo alle masse, ma il grosso del lavoro dovrebbero farlo le istituzioni nei confronti di tutta la cultura che pian piano sta scomparendo dalla nostra penisola.

E da giovane musicista, cosa chiederebbe alle istituzioni?

Credo che il fondo istituito per il jazz sia già una grossa conquista. Il mio timore è che, come al solito, ne possano usufruire i soliti noti. In questo momento la politica si sta occupando del Jobs Act: è un po’ quello che servirebbe a noi artisti che lavoriamo nel settore musicale. Ovvero, prevedere incentivi per organizzatori e gestori di club che scelgono di investire sulle nuove leve del jazz. Dovrebbero usufruire di sgravi fiscali, pagare quote S.i.a.e. ridotte (che invece continuano a crescere) in modo da riuscire ad ammortizzare la spesa. Ma come al solito nella nostra nazione le leggi vengono sempre fatte in modo da spingere tutti a trasgredirle… Inoltre vedrei una sostanziale modifica del sistema contributivo che al momento è molto ingarbugliato e permette davvero a pochi di arrivare a prendere una pensione adeguata. Si parla tanto di “made in italy” ma nei festival jazz si vedono solo nomi stranieri. Per carità, nulla contro di loro, ma sarebbe necessaria una sorta di pari opportunità riferita al numero di giovani musicisti italiani nei festival jazz.

A quali altri progetti sta lavorando e quali sono i suoi prossimi impegni?

Per adesso voglio concentrarmi su questo progetto. Sto lavorando per le serate di presentazione e proprio il 10 aprile saremo allo storico club capitolino Alexanderplatz per presentare ufficialmente il disco. Inoltre, di recente mi sta capitando abbastanza spesso di collaborare con Gregory Hutchinson e l’hammondista Antonio Caps Capasso. Mi piacerebbe molto esibirmi più spesso con questo trio fantastico e, perché no, incidere qualcosa con loro, ma senza fretta. Penso che oggi in Italia ci sia un’eccessiva produzione discografica che pian piano ha portato ad una svalutazione del supporto cd.

Alceste Ayroldi