The Bad Plus: le grandi prospettive di un trio

Ethan Iverson, pianista dei Bad Plus vincitori del Top Jazz 2016 della sezione Gruppo Internazionale dell'Anno, racconta il come ed il perché delle scelte di repertorio del gruppo

1099
The Bad Plus - foto Josh Goleman
The Bad Plus - foto Josh Goleman

In questo periodo, quali convenzioni state cercando di polverizzare voi Bad Plus?
L’idea di fondo è sempre la stessa: siamo una band, un gruppo di uguali in cui non ci sono un leader e due gregari. E questo non è ancora convenzionale nel jazz.

Energia, invenzioni, una certa ironia: sono questi i segreti del vostro modo assolutamente originale di interpretare il trio pianistico?
Diciamo che noi tre condividiamo un linguaggio «tribale». Crescendo, abbiamo bevuto lo stesso Mountain Dew economico comprato da SuperAmerica; abbiamo visto gli stessi brutti film su Channel Nine, ascoltato lo stesso grande rock su radio Kqrs e imparato il jazz andando al Dakota Jazz Club di Saint Paul. Questa eredità del Midwest non è ovviamente così profonda come quella – diciamo – di New Orleans o del Senegal ma ha il suo fascino perverso… La prima volta che abbiamo suonato insieme non ci chiamavamo The Bad Plus. Eravamo solo tre adolescenti che provavano a suonare qualche standard del jazz nel soggiorno di casa Anderson a Golden Valley, in Minnesota. Reid Anderson e David King sono amici per la pelle da quando avevano tredici anni. Io ne ho due meno di loro. Conobbi Reid quando si iscrisse al college nel Wisconsin. E quando ci riunì a casa di sua madre, quel giorno del 1990, be’, devo dire che i risultati furono molto meno che magici. Saremmo rimasti stupefatti se ci avessero detto che quindici anni dopo saremmo diventati una band a tempo pieno! Dopo un decennio trascorso a crescere musicalmente, riformammo il trio e suonammo a Minneapolis. Fu subito speciale e così Dave se ne uscì con il nome The Bad Plus (che non significa niente) e demmo parecchi altri concerti. Subito dopo il Natale del 2000 andammo in uno studio di Minneapolis per la nostra prima seduta di registrazione. Montammo tutto, mettemmo a punto i suoni e registrammo: il tutto in circa sei ore, mentre fuori infuriava una tempesta di neve. In vero stile Midwest, la prima cosa che facemmo dopo aver registrato il nostro primo cd (per una piccola etichetta spagnola, la Fresh Sound / New Talent) fu dunque tirare fuori le auto sepolte sotto mezzo metro di neve… Poi pubblicammo in un migliaio di copie la registrazione di un nostro concerto a New York e la intitolammo «Authorized Bootleg». Quei due piccoli dischi ebbero un certo impatto e indirettamente ci fruttarono il contratto con la Sony.

Con tutta onestà, che ruolo pensi abbia avuto nel vostro successo l’inserimento in repertorio di rivisitazioni di celebri brani rock?
Nel jazz la tradizione delle covers parte da Louis Armstrong. Naturalmente nel jazz non si chiamano covers ma standards; il principio è tuttavia esattamente lo stesso: prendi qualche pezzo popolare del momento e improvvisi su quello. E prima del jazz i musicisti classici avevano scritto o eseguito variazioni su famose arie d’opera. Peccato non avere una registrazione di Mozart, Beethoven o Liszt che improvvisano sui successi dell’epoca a una festa… I Bad Plus hanno scelto di non improvvisare sulla musica scritta tra il 1920 e il 1965, salvo rare eccezioni. Invece abbiamo trovato davvero interessante cercare modi per usare il rock, il pop e la musica elettronica come veicoli per l’improvvisazione contemporanea. Una delle ragioni per cui questo materiale non è standard è che non puoi proporre Iron Man di Eric Dolphy in una jam session e darne un’interpretazione mediocre, come potresti fare con All The Things You Are. Semplicemente non c’è un linguaggio comune per poterlo fare… Comunque c’è innegabilmente un pubblico ampio per Miles che suona My Funny Valentine, Coltrane che interpreta My Favorite Things o i Bad Plus che rivisitano Smells Like Teen Spirit.

C’è un tema di fondo che lega le covers del vostro nuovo album?
No. C’è solo la ricerca di un valido motivo per eseguire di nuovo un brano. Come dicevo prima, la prassi del tema con variazioni è un caposaldo della musica classica di tradizione europea, quindi magari anche le nostre procedure possono essere viste in quel contesto. Diciamo che è necessario scoprire qualcosa, all’interno di quei brani, che ci stimoli ad arrangiarli, a dar loro una giustificazione per essere riproposti. Le nostre, ovviamente, non sono interpretazioni tradizionali: alla base del nostro lavoro di rielaborazione c’è sempre – almeno credo – un motivo scenico, teatrale per così dire, o quantomeno emotivo.
Le proposte di cover vengono di solito da Reid e David, perché sono più esperti di me nel campo del pop e del rock. Furono loro, per esempio, a suggerire il brano dei Nirvana in occasione di una vecchia serata in un club – eravamo ancora ai primordi del gruppo – in cui non avevamo brani originali a sufficienza per riempire un set e ci eravamo stufati di suonare sempre i soliti standards. Proviamoci, dissero loro, non è un brano difficile. È andata così, insomma. In altre circostanze, come per Heart Of Glass dei Blondie, siamo rimasti colpiti dalla particolarità della linea melodica e dalla famigerata presenza di una battuta in 7/4 che ci ha aperto interessanti prospettive di arrangiamento.

Dal vostro punto d’osservazione, quali sono le prospettive attuali del trio jazzistico piano-basso-batteria?
Be’, la Santissima Trinità della musica è composta da melodia, armonia e ritmo. I tre strumenti di questo format adempiono bene a tali necessità. La batteria può essere allo stesso tempo uno strumento melodico e armonico, ma anche ritmico. Il pianoforte, ovvio, è uno strumento a percussione, e il contrabbasso riesce a svolgere tutti e tre i ruoli. Quindi direi che la convergenza di queste caratteristiche è ciò che ha consentito la nascita e lo sviluppo di questo organico strumentale, col quale nel corso degli anni è stato fatto molto grande jazz.

Avete collaborato, durante la storia dei Bad Plus, con svariati ospiti. Chi è stato il più impegnativo?
Non parlerei di persone ma di progetti. Il più impegnativo è stato quello su The Rite Of Spring, nel 2014. Soprattutto perché dal vivo era legato a una parte video, e la musica è già parecchio impegnativa di suo. Si trattava di un lavoro su commissione con una parte video di una certa rilevanza, quindi nessuno di noi poteva permettersi di sbagliare affrontando un pezzo completamente scritto, lungo oltre quaranta minuti.
Per il resto, ci siamo divertiti moltissimo con Joshua Redman, soprattutto durante il tour, quando lo sentivamo suonare ogni sera. Ho imparato molto da lui.

bad plus
La copertina dell’album It’s Hard

Il pianoforte che utilizzi su «It’s Hard» ha una splendida sonorità.
Si tratta di uno Steinway di altissimo livello, che ovviamente ho apprezzato molto. Per trovare lo strumento giusto sono andato alla fabbrica della Steinway, nel Queens, e dopo che l’ho scelto mi è stato detto che è anche il preferito di Evgeny Kissin, ovvero uno dei cinque o sei maggiori pianisti classici della nostra epoca. Be’, devo dire che è stata una gran bella soddisfazione!

Raffaele Roselli, Manuela Piazza, Franco Vailati