Teri Weikel: la musica dal vivo unita alla danza

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Dagli Stati Uniti all’Italia il passo non è proprio breve: perché, Teri, ha scelto l’Italia?

Quando arrivai qui, nel lontano 1983, ero molto giovane e non avevo intenzione di rimanerci. Non sapevo dove volessi fermarmi; desideravo conoscere situazioni che mi potessero far crescere e danzare. Il mio ragazzo era un italo-americano che avevo conosciuto a Los Angeles. Lui rientrava in Italia e, siccome nella California di quegli anni era difficile trovar lavoro con il concert dancing, partii. Quando vivevo a Milano, dopo alcuni tentativi con diverse scuole iniziai a coreografare i miei primi lavori per il Centro spettacolo culturale e per caso mi trovai a lavorare con la musica dal vivo; lì conobbi Paolino Dalla Porta che suonò per la mia coreografia La giacca. Grazie a quell’esperienza arrivarono altre proposte interessanti nell’ambito della ricerca teatrale e mi spostai a Modena, dove rimasi per sviluppare un progetto interdisciplinare.

Quindi il jazz la coinvolse in Italia?

Sì, mi trovai a confrontarmi con musicisti eccezionali, persone di spessore non solo artistico ma anche umano. In quegli anni si aprirono possibilità che favorirono la crescita di diversi artisti e soprattutto chi dirigeva festival e rassegne poté concretizzare un rapporto interdisciplinare tra le arti sceniche. Parlo di manifestazioni come quelle dirette a Reggio Emilia e Ravenna da Filippo Bianchi, e Jazz In’It a Vignola con Pino De Biasi: tutte produzioni basate su un concetto interdisciplinare. Il rapporto con gli artisti con cui ho lavorato andava al di là della musica, coinvolgendo la persona: un contributo originale e spontaneo dei sensi e dell’esperienza. Secondo me ci dev’essere curiosità per avvicinarsi ad altri linguaggi, o una necessità che stimoli artisti di differenti discipline a lavorare insieme.

Come convivono le coreografie con lo spirito dell’improvvisazione jazz?

Ricordo due esperienze importanti del mio percorso: la prima con John Surman e la seconda con Antonello Salis. Per quelle due produzioni avevo approntato coreografie senza usare la musica durante la fase di creazione. Fu molto interessante ma anche arduo, perché la musica porta sempre energia e sfumature importanti sul movimento. Poi, con l’energia che sprigionava, ebbi la sensazione che la musica dal vivo unita alla danza completasse la visione ma anche magnificasse la poetica coreografica: era come se parlassimo la stessa lingua. Quando incomincio una nuova pièce con i danzatori, spesso per un periodo lavoriamo soltanto sull’improvvisazione: ci porta a fare qualcosa che non possiamo prevedere e crea una condizione dove il sentire, l’immaginazione e il movimento possano intervenire nel momento creativo. In tal modo i danzatori si appropriano del lavoro da più punti di vista e contribuiscono all’esito artistico. È chiaro che a un certo momento del processo c’è la necessità di limare e scegliere il materiale più utile per ciò che si vuole dire.

Cosa alimenta la coreografia? La sola musica o anche la storia del musicista?

Ritengo che per ogni artista l’ispirazione sia personale, quasi misteriosa. Per me può essere un suono o un modo di porsi che qualcuno ha mentre suona, oppure qualcosa che appartiene alla vita di tutti i giorni, o uno specchiarsi dinamicamente. Nel lavoro con Salis mi trovavo in quello specchio: la mia energia sembrava riflettersi nel suo dinamismo; anche il fatto che parlassimo poco di quello che facevamo si rivelò un’arma vincente. Di Surman mi affascinarono la qualità e la poesia che emana, unite alla sua particolare sensibilità.

Chi sono a suo avviso i migliori improvvisatori nella danza?

Molti praticano l’improvvisazione. In Italia ci sono artisti molto bravi come Charlotte Zerby e Alessandro Certini, con cui ho avuto occasione di danzare.

Uno dei suoi impegni più importanti è il Progetto Monk.

Sin dagli anni Settanta diverse persone mi avevano parlato di Thelonious Monk, insistendo sul fatto che vi fosse sintonia tra la mia danza e la sua musica. Ma ci vollero anni prima che mi accostassi alle sue opere. Quando successe, rimasi stupita dalla capacità che aveva Monk di trasformare il suo suono in sentimento ed emozione. Probabilmente tale naturale abilità era dovuta al suo coraggio di rompere le regole del jazz classico. La musica di Monk mi ha accompagnata per molti anni sia in sala di danza sia nella vita. C’è stato un periodo in cui cercavo ogni suo brano e leggevo tutto di lui: possiedo anche un nastro, nel vecchio videoregistratore, di Thelonious ospite in una trasmissione Rai dove danza e suona con un suo trio.

Lei ha lavorato al fianco di Steve Lacy e Mal Waldron.

Sì, per Jazz In’It a Vignola. Fu un incontro sorprendente non solo sul palco, ma nei momenti prima dello spettacolo. Mi ricordo che andai nel castello di Vignola, dove c’era a disposizione una sala, per riscaldarmi e prepararmi per lo spettacolo. Stavo facendo movimenti con le gambe alla sbarra classica, un rito fisico prima di danzare, e a un certo punto, senza che mi accorgessi di nulla, sentii le note di un pianoforte che seguivano il mio ritmo. Guardai e vidi Mal che mi sorrideva, mi fissava e rideva. Rimasi stupita dalla sua bravura e capacità di unirsi alla mia andatura ritmica, cosa non da tutti: fu un’esperienza quasi metafisica. Normalmente è il danzatore che si sintonizza con il ritmo della musica e non il contrario.

Ci dica, è un’esperta del metodo Feldenkrais. Trova che si addica meglio al jazz?

Il metodo Feldenkrais è un’attività che aumenta la consapevolezza ed espande il repertorio di una persona: quindi si addice al jazz. Direi che si addice a molti processi creativi, perché prende in considerazione l’essere umano nell’atto esplorativo prima ancora di decidere cosa fare o – meglio – come farlo. I concetti che vengono elaborati nel mondo del jazz sono molto in sintonia con quel metodo. Scoprire altri modi di suonare o fare musica, l’esplorazione, la spontaneità, la possibilità di cambiare e muoversi oltre i limiti sono tutte esperienze legate all’espressione umana, al movimento.

A Milano ci fu un suo inedito duo con Tristan Honsinger.

Prima di tutto vorrei ringraziare le persone che curavano il Festival Pulsi per la loro visione e sensibilità rispetto alla musica e alla danza. Era raro trovare un festival che mettesse a fuoco l’improvvisazione dal vivo, facesse incontrare artisti e, con grande fatica, facesse conoscere al pubblico un fenomeno artistico così importante e necessario. L’incontro con Tristan al Teatro dell’arte fu tutto da scoprire: ho grande rispetto per il suo lavoro e apprezzo molto la sua continuità e tenacia.

Con quale altro jazzista le piacerebbe collaborare?

C’è una persona con cui ho avuto occasione di lavorare, sempre per poco tempo, ma sempre con una gran voglia di rincontrarsi: Michele Rabbia.

Alceste Ayroldi