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Is That Jazz? Celebrating the influences of Gil Scott-Heron. Intervista a Silvia Bolognesi

Buongiorno Silvia. Parliamo subito del tuo nuovo progetto con Eric Mingus. Come vi siete conosciuti e come è nata l’idea di questo progetto?
Il progetto sulla musica di Gil Scott-Heron nasce circa un anno fa a Siena Jazz. Iacopo Guidi, il direttore artistico dell’accademia, vide in me la persona giusta per realizzare questo progetto, conoscendo già il mio interesse nei confronti del fenomeno Gil Scott-Heron. Mi propose quindi di guidare il mio gruppo di musica d’insieme del tempo verso la musica di Gil Scott-Heron, in vista della collaborazione estiva tra Siena Jazz e Accademia Chigiana. Considerato che il tema della parola era protagonista dell’evento, Gil Scott si presta molto, data la sua natura di cantante, poeta e scrittore. Partecipammo quindi al festival in una formazione che comprendeva non solo il gruppo da me curricularmente coadiuvato, ma inserimmo anche alcuni alunni ed ex alunni del SJU, tre alunni dalla Chigiana ed il cantante Michael Mayo (approfittando della presenza di quest’ultimo ai seminari estivi). Questa esperienza meravigliosa è stata il trampolino di lancio per selezionare il repertorio e, portando avanti e sviluppando il progetto, ho individuato la voce ideale per questo progetto: la voce di Eric Mingus.

Celebrating
the influences of Gill Scott-Heron”. Quali sono le influenze del musicista di Chicago e qual è la sua eredità e chi l’ha raccolta, a tuo avviso?
Gil Scott Heron viene riconosciuto come il padre del rap, con il brano Revolution will not be Televised. Tenuto molto in considerazione dalla comunità afroamericana in quanto attivista dei movimenti sociali degli anni Settanta, ha larga considerazione anche nell’ambito jazzistico (a esempio il recente omaggio del batterista Makaya McCraven). A mio avviso, il fenomeno musicale e sociale non può e non ha potuto ignorare l’apporto che Gil Scott ha dato alla musica, facendo raccogliere la sua eredità a tutti senza differenze di stili e generi.

Qual è il tuo personale legame con Gil Scott-Heron?
Il mio personale legame con questo artista riguarda la vicinanza alla tradizione musicale afroamericana (blues, funk, gospel) di cui gli stilemi sono palpabili all’ascolto della sua musica. La sua provenienza geografica e culturale si riflette inesorabilmente all’interno delle sue opere, facendomi instaurare un senso di appartenenza e affinità.

Oltre a te ed Eric Mingus, chi altri c’è sul palco?
Giovani musicisti che hanno frequentato o frequentano tuttora i corsi di Siena Jazz: Noemi Fiorucci: (voce), Lusine Sargsyan (voce), Emanuele Marsico (voce e tromba), Isabel Simon Quintanar (sax tenore), Andrea Glockner (trombone), Gianni Franchi (chitarra), Santiago Fernandez (piano) e Matteo Stefani (batteria). Inoltre, musicisti già avviati: Simone Padovani (percussioni, voce) e Peewee Durante (tastiere, voce, trombone).
Come avete concepito il repertorio del concerto?
Il repertorio è stato selezionato da me, scegliendo come lait motif il brano Revolution will not be Televised e utilizzando connessioni testuali per sfociare in altri brani. Attraverso la narrazione musicale alcuni brani verranno eseguiti nella loro totalità, altri parzialmente, con inserti di improvvisazione e conduction.

Ci sarà anche un seguito discografico?
Sì, a breve ci sarà la registrazione del disco che ci impegnerà nella residenza al PARC di Firenze.

Silvia, diversi anni fa ti chiesi se l’essere donna e strumentista in Italia fosse ancora, diciamo, un problema. A distanza di anni, cosa rispondi a questa domanda?
È una domanda sempre molto particolare: com’è essere una donna musicista in Italia. A distanza di anni direi che la situazione è molto migliorata: si sono inserite molte più presenze femminili nel settore, evento che porta ad una crescente normalizzazione, anche se non in assenza di difficoltà. La premura di alcune musiciste e musicisti che guida verso la sensibilizzazione di questo fenomeno è e sarà la chiave di svolta del tema in questione.

Eric Mingus

Come va l’esperienza di Fonterossa?
L’esperienza Fonterossa procede bene. L’essere molto attiva musicalmente porta a non poca fatica a livello gestionale, però il lavoro singolo di ogni musicista si riversa nel collettivo, rendendo possibili ancora uscite di dischi e concerti. Questo fine settimana (20 e 21 aprile) si terrà il Fonterossa Day #8 grazie al supporto di Pisa Jazz e di Toscana Produzione Musica. Di questo evento ne vado molto fiera perché, oltre al crescente seguito, è uno strumento per rappresentare e far incontrare una fetta di musicisti italiani che opera nella musica originale, improvvisata e non convenzionale.

Quanto  è  importante per  te  il  tuo strumento nella  fase compositiva?
Per me il contrabbasso è molto importante nella fase compositiva, anche se non scrivo prettamente col mio strumento. Tendenzialmente mi piace comporre col pianoforte, perché mi aiuta ad avere una visione più ampia. Essendo molto affezionata     al        groove,             il       contrabbasso è             sicuramente      il veicolo migliore.

Per te l’improvvisazione è…
Questa domanda prevedrebbe un discorso molto ampio, ma cercherò di sviluppare una risposta esaustiva del mio pensiero. L’improvvisazione per me è “stare al mondo”, essere reattivi, preparati, in modo da poter reagire ad un impulso, saper accogliere, essere empatici. Capire, riconoscere ed elaborare: questo è un approccio ascrivibile sia alla musica formale che non, dalla quale può nascere la forma. In ogni caso, è una conscia risposta ad un impulso atta a creare musica. Per questi motivi penso che l’improvvisazione vada al di là degli stili.

Quali sono   state  le       esperienze        artistiche      che     reputi maggiormente formative?
Tutte. Ogni momento in cui ho potuto suonare il mio strumento, anche in contesti non tipicamente musicali, come quando ho lavorato con altre forme artistiche (arti visive, danza). Quando ho collaborato coi grandi maestri: ho avuto la fortuna di far parte dell’Art Ensemble of Chicago per gli ultimi due dischi. Sicuramente un’esperienza incredibile sia musicalmente che umanamente; tutte le esperienze fatte con Roscoe Mitchell, che ritengo il mio mentore. L’incontro nel 2005 con William Parker, che è stato per me un maestro della musica jazz e della musica improvvisata. L’incontro con Lawrence Butch Morris che mi cambiò la vita, scoprendo il sistema della conduction. Trovo estremamente formativo suonare coi miei studenti, perché mi ricordano che sono sempre uno studente: la musica è infinita e si impara sempre qualcosa di nuovo. Quindi ritengo importante rimanere nelle scarpe di un allievo ed essere sempre pronti ad evolvere, a mettersi in discussione.

Ci siamo conosciuti tanti anni fa a Siena, grazie a Franco Caroni. Qual è il ricordo che hai di lui?
Il dolore è ancora fresco, dovuto anche alla sorpresa della sua dipartita. Ho molti ricordi di Franco: sicuramente è il motivo per cui sono qui a parlare di me e  di musica. Io suono jazz perché Franco mi ha supportato. Il primo ricordo che ho di lui risale a quando iniziai a suonare. Studiavo     solo  basso       elettrico,   e      le     domeniche       pomeriggio       mia  madre      mi accompagnava a casa di Franco che mi offriva lezioni gratuite di strumento. Questo per dire quanto lui teneva a dare la possibilità ai ragazzi di imparare.

Quali sono i tuoi prossimi impegni?
Mi piace fare piccoli passi, quindi al momento sto pensando al Fonterossa Day di questo fine settimana, alla residenza a Firenze e al concerto a Torino del progetto su Gil Scott con Eric: non vedo l’ora!

A quali altri progetti stai lavorando?
Attualmente sono a Berlino, dove sto per fare un concerto dedicato ad Ellington con Tomeka Reid, con cui recentemente ho registrato un disco negli Stati Uniti collaborando con lo Stringtet, due quintetti d’archi (uno di Chicago e uno di New York) e due batterie. Data la vincita di due anni fa del premio MacArthur ‘Genius’, Tomeka è riuscita a portare in studio questa formazione, facendo anche una serie di concerti e una residenza. Ad ora è il progetto da side man di cui sono più entusiasta. Parlando di Ellington, non posso non citare un disco di cui sono molto felice, registrato a fine marzo con giovani musicisti (Sergio Bolognesi, Emanuele Marsico, Guglielmo Santimone), vecchi amici (Emanuele Parrini, Tony Cattano), e un ospite da Chicago (Nick Mazzarella). Abbiamo eseguito un repertorio legato al periodo Jungle di Ellington. Appena usciranno sia il disco di Gil Scott che quello di Ellington, sarà la prima volta che faccio pubblicare due dischi di musica non originale, ma dediche a musiche di terzi. Non vedo l’ora di poter portare tutti questi progetti in giro!
Alceste Ayroldi

VITTORIO SOLIMENE «Alexithymia»

Vittorio Solimene 4tet

AUTORE

Vittorio Solimene

TITOLO DEL DISCO

«Alexithymia»

ETICHETTA

Wow


In greco, alexithymia significa «mancanza di parole per esprimere emozioni», una difficoltà con cui ci confrontiamo spesso e che può avere anche degli aspetti patologici, configurando una sorta di analfabetismo emotivo. Da sempre una delle missioni più preziose della musica è proprio quella di provare a evocare le sensazioni che sono inesprimibili verbalmente, e il musicista svolge in questo senso quasi una funzione maieutica. Vittorio Solimene, pianista e compositore napoletano d’origi[1]ne ma romano d’azione, mette questo concetto al centro del suo secondo disco, non tanto come principio astratto ma piuttosto come «motore» che ha generato le nove tracce che ascoltiamo, registrate a febbraio di quest’anno. Questa origine strettamente emotiva, più volte rivendicata dall’autore, condiziona lo spettro sonoro e la resa musicale di «Alexithymia», che oscilla tra spunti cameristici e una più decisa presa di coscienza jazzistica, afflato lirico e tensione dinamica, scrittura e improvvisa[1]zione. Si fa fatica a cogliere una radice fondante, un’ispirazione univoca, un punto di equilibrio, anche se questo non è certo un difetto. Le nove composizioni ribadiscono con costanza le piccole cellule melodiche da cui scaturiscono, che spesso ritornano a inframmezzare gli assoli o a far da contrappunto al solista stesso, quasi a voler ricordare o focalizzare al meglio lo spunto emotivo di partenza a cui si accennava sopra. Alcuni pezzi più brevi sono quasi completamente scritti, altri (Invisible Walls, Roots And Wings, First Time, Last Time) lasciano spazio agli assolo e al gioco prolungato dell’interplay, come se fossero in fuga da una gabbia troppo stretta. Riusciamo così ad apprezzare la fecondità degli scambi tra Solimene e il sax alto di Simoni: quest’ultimo, in parti[1]colare, offre un prova di grandqualità. Le sequenze dei loro interventi procedono arricchendosi via via di varietà timbrica e dinamica, potendo contare anche su un’efficace alternanza dei ruoli. È però soprattutto Simoni a «stropicciare» la regolarità dei pezzi con il suo piglio inquieto, instabile e sulfureo. Dal canto loro Bintzios e Santoleri aggiungono, oltre al sostegno ritmico, una nota più cupa e misteriosa, come negli attacchi di The Old Man in Estella e Stronger Than Reality. L’impressione finale è quella di un quartetto di grande interesse, con ampi spazi di approfondimento e di crescita.
Cozzi

recensione pubblicata sul numero di dicembre 2023 della rivista Musica Jazz

DISTRIBUTORE

wowrecordslabel. wixsite.com/website

FORMAZIONE

Lorenzo Simoni (alto), Vittorio Solimene (p.), Alessandro Bintzios (cb.), Michele Santoleri (batt.).

DATA REGISTRAZIONE

Civitavecchia, 16 e 17-2-23.

JULIEN STELLA & BASTIEN WEEGER «No Sax No Clar No Dåhïss»

AUTORE

Julien Stella & Bastien Weeger

TITOLO DEL DISCO

«No Sax No Clar No Dåhïss»

ETICHETTA

Yolk Music


Magnifico duo tutto ad ancia (con intromissioni flautistiche in No Dåhïss e Söüfi, di tratto elegantemente etnico, elemento del resto non isolato lungo l’album, e tromba aggiunta in Kahmsïn) molto francese (quindi discendente diretto della nobile stirpe dei Portal, Sclavis, Kassap e compagnia suonante) questo tra Julien Stella e Bastien Weeger, che danno vita a un al[1]bum tanto gradevole all’ascolto, molto educato e magistralmente suonato, quanto ricco di idee e sana joie de jouer. I climi sono infatti, per un fatto squisitamente timbrico (ma non solo), largamente cameristici, ma c’è questa gioiosità, questa ludicità, tipica appunto di tanta nouvelle vague francese di più o meno cospicua matrice (e coniugazione) jazzistica a rendere tutto più lieve, fluido, appetibile, mai pomposo o altezzoso. Tredici i brani, svarianti dai tre ai cinque minuti e mezzo, quindi anche in tal senso in possesso di una fruibilità assoluta, su tempi per lo più mossi (non mancano peraltro gli episodi più meditativi), un incedere discorsivo e sempre nitidissimo, anche quando a dialogare sono due clarinetti bassi, spesso evocativo, avvincente, accattivante nell’accezione migliore del termine. Un lavoro, insomma, assolutamente esemplare.
Bazzurro

recensione pubblicata sul numero di dicembre 2023 della rivista Musica Jazz

DISTRIBUTORE

yolkrecords.com

FORMAZIONE

Julien Stella, Bastien Weeger (clarinetti, sassofoni, flauti); Paul Weeger (tr.) agg. in un brano.

DATA REGISTRAZIONE

Sarzeau, febbraio 2023.

Joe Barbieri Live

Foto di Angelo Orefice

Il Van Westerhout è un piccolo teatro con poco meno di duecento posti distribuiti tra platea, palchi e loggione dedicato alla memoria di un poco noto compositore dell’Ottocento, Niccolò Van Westerhout (1857-1898, autore di musica cameristica e sinfonica ma anche di cinque opere liriche) e situato in un piccolo paese della provincia di Bari, quel Mola di Bari che ha per l’appunto dato i natali al succitato autore.

Foto di Angelo Orefice

Joe Barbieri ha deciso di iniziare il tour italiano di presentazione del suo ultimo disco, «Vulìo», proprio da lì. E non è una scelta casuale, per due motivi: la Puglia è da tempo una terra accogliente per il cantautore napoletano sin dai suoi esordi e dai primi concerti, e poi quel piccolo teatro si presta, proprio per la sua ridotta capienza, a rappresentare il carattere intimo della sua musica che – domenica 7 aprile– è stata sublimata da una esecuzione che ha tenuto sulla corda della commozione quei pochi fortunati accorsi a regalare il primo tutto esaurito a uno dei songwriters più sensibili e raffinati dell’attuale panorama peninsulare. «Vulìo» (in lingua napoletana – è il caso di definirla così – «desiderio») è un disco dedicato alla canzone napoletana una materia con la quale Joe ha sempre flirtato e da cui – per sua stessa ammissione – si è tenuto finora a debita distanza per un malcelato pudore e, soprattutto, per il timore di non essere all’altezza della sua poesia e della sua emotività. Sbagliando.

Lo ha dimostrato domenica scorsa, inanellando una serie di perle che ci hanno tenuto col fiato sospeso per circa un’ora e mezzo. Di «Vulìo», della parlesia (il gergo dei musicisti napoletani cui la giornalista Valeria Saggese ha dedicato un saggio pubblicato da Minimum Fax), della canzone napoletana, abbiamo parlato con Barbieri in una intervista che pubblicheremo a breve sulla nostra rivista. Con «Vulìo» Joe si accredita definitivamente come uno dei musicisti di cui il nostro territorio è giusto che vada orgoglioso soprattutto per la sua capacità di tenere in equilibrio, in un filo sottile ma robusto, tradizione e modernità. E questo, a dispetto di tutta la trap più becera (lo scrivo con il rispetto con il quale di solito ascolto musica) e in un momento in cui imperversa il trash più trasandato, non è poco.

Con Oscar Montalbano e Nico Di Battista. Foto di Angelo Orefice

Il concerto è iniziato con Era de Maggio di Salvatore Di Giacomo, scelta studiata perché il brano è uno degli esempi in cui è disegnato lo schema formale della canzone napoletana, a cui ha fatto seguito una versione sofferta e ispirata di Lazzarella di Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno, omaggio probabilmente quest’ultima ad una terra, la Puglia (Modugno come si sa aveva origini pugliesi), che ha sempre voluto bene a Joe Barbieri. Subito dopo Accarezzame di Pino Calvi e Dicitencello vuje hanno rimarcato quel senso di appartenenza e di familiarità tipica delle grandi melodie, quelle che attraversano immacolate il tempo: in particolare in Dicitencello vuje, una composizione del 1930 in cui si rivengono brevi frammenti di un indiscusso evergreen dei primi dell’Ottocento, Te voglio bene assaje, quel senso di appartenenza è ben rappresentato e Joe Barbieri, con i due raffinatissimi musicisti che lo accompagnavano (Nico Di Battista alla chitarra preparata e Oscar Montalbano alla chitarra manouche) lo hanno saputo rendere alla perfezione.

A quel punto il concerto è decollato con Cammina cammina di Pino Daniele (contenuta nel suo album d’esordio del 1977, in cui si parla di vecchiaia e di attesa della morte), con Quantu tiempo ce vò (un brano di Claudio Mattone portato al successo da Edoardo De Crescenzo), con un’altra melodia senza tempo come Passione, con il duetto strumentale di Nico Di Battista e Oscar Montalbano (una sorta di intervallo vissuto come spartiacque tra la prima e la seconda parte dell’esibizione) in cui i due chitarristi (due autentici fuoriclasse) introducendo il riff di Hit the Road Jack hanno fatto il verso a Tu vuò fa l’americano di Renato Carosone a ribadire che l’ibridazione sonora e verbale ha avuto un ruolo a Napoli ben prima di Pino Daniele.

Con Oscar Montalbano e Nico Di Battista. Foto di Angelo Orefice

Nella seconda parte in sequenza Santa Lucia Luntana, inno dolente all’allontanamento forzato dalla propria terra, Nun te scurdà una preghiera laica degli Almamegretta, Don Salvatò di Enzo Avitabile hanno introdotto il momento più emozionante, a mio avviso, di tutto il concerto, il duetto tra Joe Barbieri e Mario Rosini, una delle voci più belle, se non la più bella, di tutta la musica italiana (solo che non riusciamo ancora a capire per quale motivo si ostini a frequentare, senza far nomi, spettacoli e platee improbabili e assolutamente non all’altezza del suo talento) con delle versioni straordinarie di Munasterio ‘e Santa Chiara e Voglia ‘e turnà di Teresa De Sio. Vulesse ‘o cielo (l’unica composizione originale dell’album), Cu’ mme di Enzo Gragnaniello (una composizione in cui il mare è la metafora di una intensa spiritualità, già immortalata da Mia Martini e Roberto Murolo), Lacreme napulitane (un brano del 1925 cantato da tutti, ma non contenuta in «Vulìo»), la celeberrima ‘O Surdato ‘nnamurato hanno chiuso in bellezza uno dei live più emozionanti  cui ci è capitato di assistere nell’ultimo periodo.

I bis (richiesti a gran voce) – ‘Na bruna di Sergio Bruni, Putesse essere allero di Pino Daniele, Reginella (l’unico dei tre a far parte della scaletta dell’album) – hanno rafforzato in noi la convinzione che esistono soltanto due tipi di musica, quella bella e quella brutta, e che quella di Joe Barbieri appartiene alla prima categoria.
Nicola Gaeta