
Stresa Festival ha chiuso la sua rassegna jazzistica di luglio con concerti di grande valore. Il direttore artistico Noseda ha scelto di dedicare questa edizione alla formula del trio in sue varie sfaccettature ed espressioni. Dopo il concerto del bassista Avishai Cohen tenutosi a Verbania e già recensito su questa rubrica è stata la volta dell’attuale trio di John Surman, già protagonista del disco “Invisible Threads”, composto dal sassofonista inglese affiancato dal vibrafonista americano Rob Waring e dal pianista brasiliano Nelson Ayres, due musicisti la cui notorietà è molto inferiore ai meriti. Questa formazione che abbiamo avuto la fortuna di vedere già tre volte negli ultimi due anni progredisce continuamente alla ricerca di un interplay totale, come dice Surman alla ricerca di quei fili invisibili che li legano tra di loro e che si estendono al pubblico trascinando gli spettatori dentro alla ricerca di intrecci sonori votati alla bellezza ed all’intimo piacere della melodia. Sono lontani i tempi del free ma la odierna musica di Surman e dei suoi compagni non è meno complessa e tesa ad esprimere sensazioni ed emozioni. Niente routine: l’indolente afflato brasiliano di Ayres intriso di colore e saudace, la gioiosa verve di Waring che pare osservare i compagni con gli occhi stupiti del bambino, le onnipresenti reminiscenze celtiche di Surman fanno di loro ogni esibizione una magia unica ed irripetibile, in una sorta di work in progress dove l’interplay crea di volta in volta atmosfere differenti: alcuni temi erano talmente variati dalla originaria versione del disco da apparire irriconoscibili e nuove composizioni sono state aggiunte al repertorio, a testimonianza della intima voglia di suonare assieme e far progredire la propria musica. Totale il consenso del pubblico che gremiva la sala.

La sera successiva è stata la volta del trio del pianista statunitense Dan Tepfer, nella prima mondiale di un progetto commissionato proprio da Stresa Festival e dedicato alla reinterpretazione dell’opera “Pulcinella” di Stravinski. Tepfer ha ben spiegato la sua modalità di approccio a questa materia musicale: il compositore russo aveva utilizzato musiche scritte da altri (tra i quali il Pergolese) ed applicandovi la sua arte di orchestrazione per ottenere l’effetto desiderato. Tepfer dovendo ricondurre il tutto alla essenzialità di un trio si è riavvicinato al materiale originario dei compositori ma ricercando lo spirito della orchestrazione di Stravinski. Questa operazione ha messo in luce le notevole sensibilità ed attenzione musicale del pianista, che non per nulla è stato scelto da Lee Konitz come accompagnatore preferito degli ultimi anni. Geniale l’intervento del batterista Nate Wood, imprevedibile e sempre trasversale ha tolto alla materia musicale ogni parvenza di vecchiaia e donandole una freschezza inaspettata. Il bis è stato un brano del repertorio jazz di Tepfer e la sua energia ha travolto i presenti quasi in un grido liberatorio una volta giunti sul proprio terreno.

La terza serata ha visto la presenza del pianista Michael Wollny, puledro di razza della scuderia ACT e già bene in vista con progetti al fianco di musicisti prestigiosi come Vincent Peirani, Joachim Kühn e Nils Landgren. Qui la musica ha sfoggiato un dinamismo quasi ossessivo, opposto a quello dei due concerti precedenti, ricco di contrasti e contrappunti dal grande effetto spettacolare ed apprezzati dal pubblico.

Giancarlo Spezia