Sullivan Fortner: «Se non c’è blues, se non c’è swing, se non c’è groove allora non possiamo parlare di jazz»

di Nicola Gaeta (foto di Gulnara Khamatova)

604
Sullivan Fortner (foto di Gulnara Khamatova)
Sullivan Fortner (foto di Gulnara Khamatova)

Il pianista di New Orleans è uno dei talenti più luminosi emersi negli ultimi anni, e i mondi del jazz e della canzone d’autore si stanno rapidamente accorgendo di lui.

Sullivan Fortner è un giovane pianista di New Orleans che da qualche tempo si è messo in mostra in un ambito particolarmente affollato, quello che cerca di mettere assieme tradizione e modernità al servizio del jazz, musica che oggi, secondo un luogo comune sempre più diffuso, rischia di ripetere schemi consueti e privi di mordente. La generazione di Fortner ha assorbito tutto ciò che la musica afro-americana ha espresso nel Novecento, dal bop al free e dal soul al funk, sviluppando un linguaggio di sintesi grazie a individualità che sanno dare lustro alla musica che amiamo. Ambrose Akinmusire, Julian Lage e Ben Williams sono i nomi di alcuni coetanei che un giovane come Fortner dovrebbe vedere come punti di riferimento. Ma sono già delle stelle. Pensiamo invece al trombonista Michael Dease o alla sassofonista Sharel Cassity, ancora misconosciuti ai più ma dei quali sentiremo parlare presto, e con cui Sullivan ha condiviso una gavetta e un sottobosco di piccoli club e ingaggi saltuari che, alla fin fine, rappresentano l’unica vera palestra per un musicista di jazz. Il trentunenne Sullivan ha finora inciso solo due album a suo nome, entrambi per la Impulse!, «Aria» (2014) e il nuovo «Moments Preserved» entrambi recensiti tempestivamente su questa rivista. È il suo talento strumentale ad averlo imposto all’attenzione dei media specializzati, ma ancor più l’apertura mentale, l’umiltà e una spiccata intelligenza che lo stimola ad apprendere come una spugna restando però molto ben ancorato alla realtà che lo circonda. Insomma, siamo di fronte a un musicista che lascerà il segno. Se ne sono accorti Roy Hargrove, che ha voluto Fortner come membro stabile del suo quintetto (anche se ogni tanto viene sostituito da Tadataka Unno), Paul Simon, che lo ha preso con sé nel suo recentissimo «In The Blue Light», dove Fortner suona il piano e la celesta su Some Folks’ Lives Roll Easy, e Cécile McLorin Salvant, il cui «The Window», fresco di stampa, è praticamente un album in duo nel quale il giovane pianista svolge un lavoro straordinario.

Benvenuto su queste pagine. Ci racconti qualcosa di te?
Mi chiamo Sullivan Fortner, ho 31 anni, sono nato a New Orleans, suono il pianoforte dall’età di sette anni e il jazz da quando ne avevo quattordici. Ho frequentato le scuole superiori a New York, poi sono andato al college e ho conseguito il master alla Manhattan School Of Music suonando in giro con diversi musicisti, prevalentemente jazzisti, alcuni famosi sul territorio nazionale ed internazionale, altri un po’ meno, ma tutti erano amici e musicisti eccellenti. Ho avuto la fortuna di poter imparare da persone straordinarie.

Finora hai registrato solo due dischi. «Aria», alcuni anni fa, con Tivon Pennicott al sax tenore e l’appena pubblicato «Moments Preserved» con Ameen Saleem, Jeremy «Bean» Clemons e l’ospite speciale Roy Hargrove su tre pezzi. Il tuo concetto di jazz mi è molto chiaro: ti piace mischiare la tradizione con la modernità. È quindi d’obbligo chiederti quali sono gli artisti che ti hanno maggiormente influenzato, sia come pianista sia come compositore…
Il primo pianista jazz che ha veramente catturato la mia attenzione e della cui musica mi sono immediatamente innamorato è stato Erroll Garner: ricordo con piacere un disco che ho divorato, il suo più famoso: «Concert By The Sea». Poi ho scoperto Herbie Hancock, Chick Corea, Keith Jarrett, Oscar Peterson, Art Taylor, Wynton Kelly, Red Garland, Bobby Timmons e cosi via. Quando ho iniziato il college ho studiato molto seriamente l’American songbook prendendo confidenza con i cantanti. Faccio alcuni nomi: Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Carmen McRae, Nat King Cole, Frank Sinatra, Chet Baker eccetera. Essendo cresciuto a New Orleans, poi, sono stato molto influenzato dai cantanti gospel e r&b. Conoscevo molti di quegli artisti anche perché mio padre era un loro fan. Un po’ più tardi ho cominciato ad appassionarmi al bebop e a maestri come Bud Powell e Thelonious Monk. Tutti costoro hanno influenzato il mio modo di suonare e la mia scrittura. Dal punto di vista compositivo c’è stata tanta gente che mi ha influenzato, ma per restare alle cose che ho composto – e che sono poi state registrate – devo dirti che per il disco «Aria» mi sono lasciato ispirare dalla musica classica indiana, in particolare da quella proveniente dal sud dell’India, e dalla musica barocca europea, mentre per i brani di «Moments Preserved» mi sono semplicemente seduto al pianoforte e ho composto senza lasciarmi influenzare da nessuno se non da me stesso. Ho imparato questa procedura da Fred Hersch: è stato uno dei suggerimenti che mi ha dato mentre studiavo con lui. Musicisti come Hersch, ma anche come Wayne Shorter, Ambrose Akimusire, e tanti altri con i quali ho suonato e registrato hanno ovviamente influenzato la mia maniera di scrivere.

Hai suonato nell’ultimo disco di Paul Simon. Come ti è capitato di incontrarlo? Raccontami qualcosa del tuo incontro con lui: Paul è una grande pop star…
Si è una grande pop star. L’ho conosciuto circa tre anni fa. Sono andato nel suo ufficio su segnalazione di Jamey Haddad, che è stato uno dei miei insegnanti al conservatorio ma da molto tempo è anche il percussionista di Simon. Paul fu molto gentile ma nello stesso tempo anche molto diretto. Mi diede l’elenco delle canzoni che sarebbero entrate nell’album (erano quattordici) e mi disse di sceglierne una e arrangiarla, ma non arrangiarla nel senso tradizionale che si può dare a questo termine, visto che erano già tutte quante ottime canzoni. Voleva invece che la smontassi e la rimontassi in un altro modo, in altre parole voleva che io reimmaginassi la sua musica. Così scelsi Some Folks’ Lives Roll Easy. E apprezzò il modo in cui l’avevo trattata, tanto che mi chiese quali altri musicisti desiderassi per inciderla e io risposi che non lo sapevo, perché non avevo idea con chi suonasse di solito lui. Il semplice fatto di avermelo domandato è stato un grande onore, oltre che una grossa attestazione di stima. Alla fine della giornata scegliemmo Jack DeJohnette alla batteria, Joe Lovano al sax tenore e John Patitucci al basso. Soltanto guardare Paul mentre incideva, osservare il suo modo di farlo, captare il suo orecchio per la musica, vivere tutto il procedimento di registrazione per un personaggio del suo livello, tutto questo è stato per me davvero emozionante. Paul è una persona straordinaria.

Sullivan Fortner - Moments Preserved
Sullivan Fortner «Moments Preserved»

Il tuo legame con la tradizione…
Sono nato e cresciuto a New Orleans e questo ovviamente ha influenzato il mio rapporto con la musica e con il jazz, anche se quest’ultimo non è stato il primo genere musicale che ho ascoltato. Fin dalla nascita ho sempre avuto nelle orecchie il suono delle brass bands, e mentre crescevo assorbivo il funk di New Orleans, il blues della Louisiana e cose del genere. Ho cercato di incorporare il più possibile tutta quella musica nel mio modo di suonare. Per cui la musica tradizionale di New Orleans ha rappresentato molto per me, è stata davvero importante: artisti come James Booker, Allen Toussaint, Fats Domino. Quando sono arrivato a New York per studiare alla Manhattan School of Music, dopo aver frequentato l’Oberlin Conservatory nell’Ohio, e soprattutto quando ho cominciato a suonare con Roy Hargrove, ho capito che dovevo approfondire il linguaggio della musica della mia città, dovevo ripercorrere a ritroso il viaggio musicale di quelli che mi hanno preceduto, dovevo studiare la tradizione perché queste sono le basi della nostra musica. Quel periodo ha rappresentato per me uno schiaffo in pieno viso che mi ha scosso e, in un certo senso, risvegliato. Ricordo che un giorno, era il luglio del 2012, ho fatto un gioco con me stesso: stavo confrontando la mia registrazione di un brano di Charlie Parker con l’originale. Era un pezzo che avevo ascoltato così tante volte da aver memorizzato perfettamente l’assolo di Bird. Quando, ascoltando la mia registrazione, mi sono reso conto di aver suonato quell’assolo senza il minimo errore sono scoppiato a piangere. Era la prima volta in cui «sentivo» veramente la musica di Bird. E quella sensazione mi commuoveva. Studiare Charlie Parker mi ha reso umile, facendomi comprendere che ancora non sapevo ciò che avevo bisogno di sapere per suonare questa musica. Da quel momento in poi, scoprire e riscoprire la tradizione del jazz è diventato il mio obiettivo.

Che ruolo ha avuto Roy Hargrove nello sviluppo della tua carriera?
Roy, per me, è uno dei più grandi bandleaders di oggi. Per un motivo molto semplice: non dà mai ordini. In realtà non dice molto, semplicemente ti fa sentire quello che vuole, si immerge profondamente in quello che lui desidera suonare e fa in modo di ottenere la stessa cosa da te che stai suonando con lui. È un po’ difficile da spiegare ma è qualcosa di molto naturale ed empatico. Puoi capire ciò che Roy vuole da te senza bisogno di spiegazioni: ti basta suonare, suonando. Roy è un altruista, è molto aperto, ha una grande capacità di comunicazione ed è molto reattivo. La maniera in cui suona ti fa capire se quello che stai suonando gli piace o no. Un’altra cosa che mi ha insegnato è quanto sia importante memorizzare i brani. Roy non utilizza spartiti nella sua band. Mai. Tutto ciò che abbiamo suonato con il suo gruppo l’abbiamo imparato a memoria. Soltanto allora ci siamo decisi a suonarlo. Roy ci insegnava i brani, e prima di suonarli sul palco passava almeno un mese. E questo insegnamento è stato per me essenziale, una cosa che mi ha aiutato molto.

Dove vivi?
A New York. A Inwood, il quartiere più nord di Manhattan, subito dopo Washington Heights.

Quindi sei coinvolto nella scena musicale della città, in particolare quella del jazz. Quali sono, secondo te, i giovani musicisti da seguire a NYC?
Ce ne sono tantissimi. In questo momento a New York ci sono molte scene diverse, tanti musicisti che sono venuti qui a studiare e che frequentano le scuole di musica, la Juilliard, la Manhattan School Of Music. Sono tutti veramente molto bravi. Molti sono più giovani di me e non mi piace fare nomi perché potrebbe sembrare ingeneroso. Poi ci sono quelli un po’ più vecchi come Ambrose Akimusire, Logan Richardson, Gerald Clayton. Alcuni di loro non vivono in pianta stabile a New York. E poi ci sono quelli della mia età come Cécile McLorin Salvant…

Hai appena inciso un disco con lei…
È una cantante straordinaria.

E cosa pensi dell’idea del tuo concittadino Nicholas Payton di chiamare la musica afroamericana non più jazz ma BAM?
Credo sia una cosa legittima. Non la ritengo un’idea sbagliata. Penso anche che ognuno possa chiamare la musica come gli pare. Se vuoi. La chiami BAM, oppure Afro-American Music. Il termine jazz, in sé, è un termine dispregiativo: non si tratta di una definizione che i musicisti hanno dato alla loro musica. È una parola scelta dai critici, quindi si tratta dell’ennesima maniera usata da qualcun altro per etichettare ciò che fai. L’obiettivo di Nicholas era dimostrare che la nostra musica è radicata nell’africanismo, vale a dire la stessa cosa di cui parlavano Randy Weston e Duke Ellington. Questa musica proviene dall’Africa, proviene dalla sofferenza degli afro-americani, dalla schiavitù, dal blues, e tutta questa miscellanea di influenze ha generato un mondo che qualcuno – i bianchi – ha voluto chiamare jazz ma che sarebbe più corretto chiamare in altro modo: BAM o Black American Music o musica Afro-Americana. Mi rendo conto che da qualcuno questa può essere considerata una questione poco importante, quasi irrilevante, ma non è così. Certo, sono entrate cosi tante influenze all’interno della nostra musica e ci sono cosi tante persone che danno la loro interpretazione sul suo significato; ci sono tanti musicisti europei che conosco di persona e che sono bravissimi, ci sono influenze armene, francesi, spagnole, italiane, e tutte queste influenze hanno a tal punto permeato il jazz da farlo diventare, molto più di prima, una musica globale vera e propria. Mi rendo conto di tutto questo e credo che tutte queste influenze abbiano e abbiano avuto un ruolo fondamentale nella crescita, nello sviluppo e nell’arricchimento di questa musica, ma non possiamo e non dobbiamo, dimenticare che la sua radice è nel blues. Questa musica, la nostra musica, è radicata nel blues e se non c’è blues, se non c’è swing, se non c’è groove allora non possiamo parlare di jazz o di BAM. Dobbiamo parlare di un’altra cosa. Molto bella magari. Ma un’altra cosa.

Tre nomi: Barry Harris, Fats Waller, Thelonious Monk. Quale dei tre ti ha influenzato di più?
Ho trascoso diverso tempo con Barry Harris imparando moltissimo da lui. Sicuramente Barry è uno dei grandi maestri e insegnanti del jazz, conosce tutti i suoi segreti, il modo in cui articolarlo e non ha alcun problema a trasferire il suo sapere ai più giovani esattamente nello stesso modo in cui grandi maestri come Coleman Hawkins o Dizzy Gillespie hanno fatto con lui. È stata una vera fortuna conoscerlo. Ovviamente anche Thelonious Monk mi influenzato e molto. Quando ascolti Monk è come quando cucini qualcosa e poi aggiungi il sale. Cambia tutto! Quando hai conosciuto la sua musica è difficile tornare indietro. Monk è stato veramente un genio, il grande sacerdote del jazz, comunque uno dei grandi sacerdoti.

Ancora tre nomi: Malcolm X, Barack Obama, Ta-Nehisi Coates. Quale dei tre è stato, o è più importante per te?
Non conosco l’ultimo nome che mi hai fatto.

È un grande scrittore. Viene da Baltimora ed è una delle figure importanti della cultura afroamericana moderna…
È difficile rispondere a questa domanda. Probabilmente per me il più importante è stato Obama perché ho avuto la possibilità di essere testimone di quello che ha fatto e del suo operato come Presidente degli Stati Uniti. Del resto, ai tempi di Malcolm X io non c’ero.

Nicola Gaeta

[da Musica Jazz, novembre 2018]