Shabaka Hutchings & Sons of Kemet

Il gruppo del sassofonista britannico, ascoltato di recente anche in Italia, ha come obiettivo quello di ripensare e ricontestualizzare idee musicali di origine afro-caraibica

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Sons Of Kemet

Come sono nati i Sons Of Kemet? 
Per un piccolo concerto a Londra ho riunito personalità artistiche che ritenevo potessero lavorare bene insieme. Il risultato è stato eccellente, così abbiamo tenuto molti altri concerti e il resto è storia.

Da dove nasce il nome Sons Of Kemet?
Nei giorni in cui stavo formando la band, mi ero messo a studiare alcuni aspetti dell’antica cultura egizia e iniziavo a capirne la rilevanza nella mia vita, così come fosse vicina al mio modo di intendere e fare musica. Il nome della band è pertanto una sorta di omaggio a questa cultura. Ho deciso di chiamarmi King Shabaka, come l’ultimo re nubiano che ha governato il Basso e l’Alto Egitto; il sovrano che ha accreditato la maggior parte delle informazioni documentate sul termine Kemet (ovvero l’antico nome dell’Egitto). Il mio nome deriva da questo interesse e dalle ricerche che ho effettuato sull’argomento.

Invece, dal punto di vista musicale, qual è il tuo punto di partenza?
Generalmente non comincio da un presupposto teorico. Certo, possono esserci alcune teorie che confluiscono nella mia tecnica e che danno forma alle mie direzioni musicali. Sono di mentalità aperta e apprezzo una vasta area di combinazioni di suoni da cui attingere. Cerco sempre di scrivere melodie e armonie accattivanti.

Qual è l’idea di musica dei Sons Of Kemet?
Un obiettivo molto pratico: ripensare e ricontestualizzare idee musicali di origine afro-caraibica.

E perché hai voluto due batterie?
All’inizio ho scelto la formula della doppia batteria perché ero curioso di vedere come interagissero i miei due percussionisti preferiti. Via via che la band cresceva, suonare con un tale organico è diventato sempre più inconsueto, perché le due batterie portavano la musica verso il drumming tipico dell’Africa occidentale, ovvero una sonorità che mi ha sempre appassionato.

Sons Of Kemet

Un ensemble particolare, anche perché non ci sono strumenti a corde…
All’inizio dell’attività del gruppo ho deliberatamente escluso la presenza di strumenti a corda. La musica che avevo scritto non ne sentiva la necessità, e di conseguenza sarebbe stato inutile, per non dire superfluo, riempire ulteriormente lo spazio sonoro.

C’è chi ritiene il tuo gruppo vicino alla vision della musica di Sun Ra. Cosa ne pensi?
Possiamo solo cercare di mantenere la stessa accuratezza che aveva Sun Ra nel concepire la musica, così come dobbiamo essere consapevoli della sua importanza storica nel guidare le nostre scelte musicali e di vita. Che i nostri concerti e la nostra musica possano ricordare l’opera di Sun Ra è una cosa che mi riempie di orgoglio, ma non mi sento certo in grado di mettere in relazione la mia musica con quella che faceva lui.

In Italia c’è chi sostiene che i Sons Of Kemet siano la risposta europea agli Snarky Puppy.
Non direi proprio. Tutti i musicisti cercano di manifestare la realtà che vedono e ciò è dettato dalle circostanze della vita. Così, ritengo che la nostra musica abbia un sound nettamente diverso da quello degli Snarky Puppy, sia per l’integrità sia per la gioia che ci mettiamo dentro. Ho sentito l’esigenza di darle un carattere preciso e autonomo, basato su un particolare livello qualitativo. Non vedo niente di reazionario nella coesistenza di questi differenti punti di vista, condividendo il mio universo musicale, perché non sempre vi è qualcosa da imparare dalle esperienze di altre persone.

La definizione di jazz sta un po’ stretta alla vostra musica, perché c’è molto altro.
Jazz è un termine problematico fin dalla notte dei tempi e di recente alcuni musicisti si sono ribellati al suo utilizzo, visto che indica una visione piuttosto limitata di ciò che può consentire la musica afro-americana. Lo stesso vale anche per il termine world music, perché è un ombrello che raggruppa la tradizione della musica occidentale e una serie di pratiche musicali del resto del mondo: la vedo come una descrizione colonialistica e offensiva. Stiamo arrivando al punto in cui la gente inizia a rendersi conto della futilità del significato dei generi musicali. E questo servirà quantomeno a non attribuire con leggerezza una definizione a questo o a quel tipo di musica. So bene che non si tratta di un metodo ortodosso, ma d’altro canto questi sono tempi non ortodossi.

Hai avuto tu l’idea di Play Mass e in particolare del video, in cui si ritrovano una serie di interessanti riferimenti storici?
Lo storyboard è frutto della collaborazione tra me e il regista, Jordan Copland. Ho suggerito io di riprendermi mentre suono il sassofono correndo, anche per far capire che la mia musica è il mio mezzo per uscire dai confini della città.

Burn ha invece una serie di riferimenti letterari. La letteratura influenza le tue composizioni?
Certo, perché mi consente di fare miei sia i paesaggi sia gli umori trasmessi attraverso i testi. Così posso esprimere la mia musica con un po’ dell’energia attinta dagli autori dei testi letterari.

Shabaka Hutchings

Pensi di aumentare in futuro il numero dei componenti del gruppo?
Forse, ma dovrebbe arrivare la persona giusta. Al momento, però, non è previsto alcun rinforzo.

Come ti è venuta l’idea della cover di Rivers Of Babylon dei Boney M?
Non avevo mai ascoltato la versione dei Boney M ma conoscevo il brano tradizionale rastafariano cantato in lingua caraibica.

 

 

 

Sei nato a Londra, per poi trasferirti alle Barbados. Questo ha cambiato anche la tua prospettiva musicale?

Difficile dire se la mia prospettiva musicale sia cambiata più con l’essere diventato adulto o per aver cambiato località. Le Barbados hanno una scena musicale sicuramente interessante ma forse non così favorevole per le sperimentazioni come lo è quella di Londra.

Infatti sei tornato a vivere a Londra. Quindi è proprio vero che le idee musicali più promettenti nascono laggiù.
Ho scelto Londra perché è qui che ho compiuto gli studi universitari. Ci sono un sacco di musicisti e di occasioni di poter fare sperimentazioni musicali e ascoltare un sacco di nuove idee, ma sento tanti musicisti interessanti un po’ in tutto il mondo.

Hai definito l’album «Lest We Forget What We Came Here To Do» come «una riflessione sulla diaspora caraibica in Gran Bretagna». Potresti spiegarci meglio il tuo pensiero?
Si tratta del mio tentativo di valutare cosa significa essere oggi, nel Regno Unito, un cittadino britannico di origine caraibica. Questo non significa presentare nozioni preconcette su cosa comporti avere discendenza caraibica oggi: è solo il desiderio di ampliare il dialogo includendo anche il mio punto di vista.

Stai lavorando ad altri progetti personali?
Sì, ho un altro gruppo chiamato The Comet Is Coming i cui componenti sono londinesi; poi un’altra band di base in Sudafrica, dal nome Shabaka And The Ancestors e che ha recentemente pubblicato un disco per la Brownswood.

E con i Sons Of Kemet?
A dicembre registreremo un nuovo album.

Alceste Ayroldi