SCLAVIS SALE LA SCALA: INTERVISTA A ROBERTO NEGRO – 1° PARTE

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Nasce a teatro, e dal teatro più famoso del mondo (trovarlo, un milanese dissenziente!) ha preso in prestito il nome. La Scala è il quartetto con cui Roberto Negro inaugurerà giovedì 16 gennaio la propria carte blanche al Triton di Les Lilas, un appuntamento anticipato dal numero di Musica Jazz in edicola. Con il pianista, nato nel 1981, avremo tre membri del Tricollectif: Théo Ceccaldi al violino e alla viola, il fratello Valentin al violoncello e Adrien Chennebault a batteria e percussioni. A questi esuberanti improvvisatori, riuniti anni fa per uno spettacolo teatrale, si uniranno i clarinetti di Louis Sclavis, reduce da un weekend di jazz e cinema alla Cité de la Musique.

Roberto, come ti immagini l’incontro con Sclavis? Quale sarà il suo ruolo?

Mettiamola così: sarà un incontro tra improvvisatori, questo è certo. Noi quattro alla ricerca di Sclavis. Il tempo per provare è limitato. Abbiamo una sola mattinata, che sarà dedicata a definire la scaletta. Il resto verrà quindi sul palco e presumo che sarà molto divertente.

Divertente, ma dagli esiti incerti.

È il bello degli incontri: a volte funzionano a meraviglia, altre no. A priori è difficile a dirsi.

Perché proprio Sclavis?

Per due motivi: gli strumenti che suona e il suo percorso artistico. Sclavis ha un profilo davvero atipico. Ha cominciato interessandosi al progressive rock, prima di integrare il Workshop de Lyon e partecipare alle esperienze dell’Arfi [Association à la recherche d’un folklore imaginaire]. In oltre quarant’anni di carriera ha collaborato con decine di musicisti; i suoi gruppi, anche i più recenti, si contraddistinguono per delle strumentazioni ogni volta originali. Cominciare la carte blanche con lui ci sembrava un bel modo per «rivisitare» e aumentare l’organico della Scala.

Ho visto La Scala a settembre del 2012. Di quel concerto, oltre la strumentazione rigorosamente acustica mi colpì la lunghezza dei brani in cui improvvisazioni dilatate lasciavano spazio a duetti e trii cameristici. Da allora la musica è cambiata?

Non molto. Allora come oggi la musica nasce in modo spontaneo, direi quasi naturale. E spontanea, malgrado sia del tutto diversa, è la musica che suono con il mio trio o in duo con Théo.

In occasione di quel concerto avevi introdotto il primo brano dicendo che era una sorta di poema sinfonico fatto a modo vostro.

Sì, e mi vien da ridere a ripensarci su. In realtà quell’uscita metteva in guardia il pubblico sulla lunghezza del brano e sui legami con le musica del Novecento (tutt’altro che unitaria): una delle tante passioni condivise all’interno del Tricollectif. Potrà sembrarti azzardato ma a volte, ascoltando la musica della Scala, mi viene in mente la Verklärte Nacht di Schönberg o le musiche espressioniste.

Ricordo che la batteria aveva un ruolo ambivalente.

Nella Scala Adrien è il musicista che sposta gli equilibri, dando una dimensione più jazzistica ai brani. Il suo è un ruolo difficile: i vari Bartók e Ligeti – miei ascolti ricorrenti – oltre a Théo e Valentin, non rappresentano la cultura dalla quale lui proviene. Però lo attraggono, e per questo ci lavora molto.

L Civelli