Saalfelden, varie sedi, 23-26 agosto
Non è difficile tirare le somme della trentanovesima edizione del festival austriaco, che rimane una vetrina imperdibile, anche se possibilista e un po’ ambigua, dell’attualità jazzistica intesa in senso lato. Trascurando le produzioni originali, la direzione artistica, oggi nelle mani di Mario Steidl, ha privilegiato i giovani gruppi europei, di recente formazione ma già documentati su disco. Molte proposte fresche, innovative, ben articolate sono venute appunto da queste formazioni europee, delle quali abbiamo selezionato le più meritorie d’attenzione.
Ormai da anni sono ventuno i concerti distribuiti in quattro giorni nei due palcoscenici principali: il main stage e il Nexus per la sezione Short Cuts. Di essi solo sei presentavano gruppi americani, nessuno dei quali come vedremo privo d’interesse.
Nell’improvvisazione collettiva del quartetto Chamber 4 si trovano riuniti due francesi (gli ormai noti fratelli Ceccaldi, Théo al violino e Valentin al violoncello) e due portoghesi (il trombettista Luis Vicente e il chitarrista Marcelo dos Reis). Un’energia latente e misteriosa, un’intensità macerata sono state amministrate con equilibrio notevole, con una sensibilità timbrica frastagliata, non solo d’impronta cameristica, raggiungendo un risultato avvincente.
I fratelli Ceccaldi erano assieme anche nel sestetto Freaks, pilotato dal violinista. In un incrocio di vari generi musicali, ironia, verve e sorprese a non finire sono state coniugate secondo strutture rigorosissime e spesso con una poderosa massa sonora. Riff, anomale frasi melodiche all’unisono, improvvisi cambi di direzione, stop perentori hanno costruito un discorso di grande impatto, con il violino del leader in grande evidenza e la funzione portante del drumming onnipresente di Etienne Zemniak.
La rappresentanza del giovane jazz francese schierava anche Leïla Martial in trio col suo progetto Baa Box. La sua sperimentazione vocale ha condotto un percorso trasversale di ridotta valenza jazzistica, ma coraggioso, preordinato nei minimi particolari e sfaccettato su varie modulazioni della voce con l’ausilio dell’elettronica: un concerto interessante, ma un po’ troppo preconfezionato.
Nel set del quartetto finlandese eCsTaSi, diretto dal chitarrista Raoul Bjōörkenheim, sono emersi la decisa consistenza dei temi, l’interplay sinergico, l’incalzante pulsazione ritmica, gli spunti solistici, che hanno fatto risaltare la voce volitiva e ben caratterizzata del chitarrista e il sax robusto di Pauli Lyytinen. Il tutto è ascrivibile alla più genuina tradizione free; ma se un approccio già da decenni canonizzato viene rivitalizzato con una motivazione e un’autenticità attuali non si potrebbe parlare di mainstream? Ecco un tema che andrebbe approfondito in altra sede.
Il trio Punkt.vrt.Plastik, fondato nel 2016 dalla pianista slovena Kaja Draksler, di formazione classica, residente ad Amsterdam e qui perfettamente assecondata dal contrabbassista svedese Petter Eldh e dal batterista tedesco Christian Lillinger, ha costituito una delle convincenti sorprese dell’improvvisazione europea, fornendo un esempio lampante di come si possa evolvere oggi la classica formazione jazz piano-basso-batteria. I brani della leader si sono configurati come composizioni continue, circolari, dall’arco narrativo e dinamico cangiante: reiterazioni, spunti affermativi, anomalie armoniche e timbriche non hanno escluso astrazioni, delicatezze e sospensioni incantatorie.
Un fuori programma assai riuscito, in sostituzione di un trio francese cassato dal cartellone, si è rivelato il duo fra Elliott Sharp e il batterista austriaco Lukas Koenig. Il chitarrista americano si è confermato un maestro nell’impiegare in senso rumoristico la sua chitarra nera e i connessi ammennicoli elettronici. Si sono verificate una dimensione spaziale, una concatenata logica costruttiva nel sondare effetti e soluzioni timbriche sempre diverse. Lodevole il lavoro del batterista che ha interagito con immancabile pertinenza.
Sharp, che assieme alla cantante francese Hélène Breschand era anche co-leader dell’intrigante progetto Chansons du Crépuscule, dalle cupezze gotiche, ci introduce alla componente americana del festival, che ha presentato nomi per lo più famosi, alternando prove deludenti, appuntamenti interessanti e concerti esaltanti.
C’era molta attesa per la trombettista emergente Jaimie Branch, nata a Chicago nel 1983 e messasi in luce con il cd d’esordio “Fly or Die”. La sua lunga improvvisazione ha attraversato varie fasi, dalla ricerca decantata a più toniche evoluzioni, avvalendosi della simbiosi fra due archi (il violoncello di Lester St Louis e il contrabbasso di Jason Ajemian) e del contributo di Chad Taylor alla batteria, ineludibile come sempre. Tuttavia il set ha stentato a prendere quota; soprattutto, la personalità strumentale della leader è parsa un po’ debole, sia nel sound che nel fraseggio, e non particolarmente trainante la sua leadership. Insomma per il momento evitiamo di gridare al miracolo e diamole il tempo di crescere.
Un’altra protagonista della scuola di Chicago, Nicole Mitchell, ha riunito un anomalo ottetto a prevalenza femminile per presentare l’ambiziosa suite “Mandorla Awakening II”. Il risultato più apprezzabile è stato l’ampio impianto armonico-timbrico, derivante dall’eccentrica formazione che, oltre allo shakuhachi contrapposto al flauto della leader, schierava arpa, cello o banjo, chitarra o theremin, un selezionato set percussivo… Di conseguenza anche l’articolazione della suite si è presentata imprevedibilmente cangiante, oscillando da delicatezze cameristiche a evidenti inflessioni etniche, da sprazzi sperimentali a veementi declamazioni della voce, emersa solo nel finale.
Il quartetto Song of Resistence di Marc Ribot rappresenta una delle tante declinazioni, dal solo al trio Ceramic Dog, dell’impegno politico del chitarrista americano. Iniziato in modo un po’ frammentario, il concerto ha ben presto decollato, presentando una musica costantemente compatta, diretta, provocatoria, in cui si coagulavano spirito del blues, jazz modale e jazz latino. La scabra dizione verbale del leader e la sua lancinante chitarra bluesy erano perfettamente spalleggiate dai sax e flauto di Jay Rodriguez, di immaginifica efficacia, e dall’esplicita, implacabile conduzione ritmica dell’accoppiata basso-batteria: Nick Dunston e l’incontenibile Nasheet Waits, malauguratamente un po’ troppo impastati dall’amplificazione.
Chi ha decisamente deluso è stato invece il quintetto A Pride of Lions, in cui il tenore di Daunik Lazro, i contrabbassi di Guillaume Séguron e Joshua Abrams e il fondamentale Chad Taylor affiancavano il settantottenne Joe McPhee al contralto e pocket trumpet. Una proposta di matrice free, anche se decantata col senno di poi, si è dipanata lentamente; certo una musica onesta e autentica, infarcita di citazioni, ma, dispiace dirlo, anche invecchiata, proposta in modo stanco e senza mordente… salvo ovviamente quei pochi, brevi momenti in cui le forze si sono coese con maggiore convinzione.
Per fortuna, dopo tante esperienze non sempre esaltanti, nell’ultimo pomeriggio del festival si sono concentrati i due appuntamenti più entusiasmanti, da applaudire senza condizioni.
Nel sestetto Triple Double coordinato da Tomas Fujiwara si integrano due trii in cui si fronteggiano due trombe (Ralph Alessi e Taylor Ho Bynum), due chitarre (Mary Halvorson e Brandon Seabrook) e due batterie (il leader e Gerald Cleaver). L’aperta scrittura tematica e un’interplay sempre attento e coeso hanno avviato crescendo inappuntabili, interventi solistici mirati e pregevolissimi, oltre al denso lavoro della doppia batteria, con una funzione di supporto da parte di Cleaver. Tutto si è concatenato con equilibrio ed espressività, fra integrazione e contrapposizione secondo la più appagante pienezza jazzistica.
La conclusione del festival è stata affidata a un altro gruppo di sicura qualità jazzistica: il quartetto di Erik Friedlander, impegnato a riproporre il repertorio del cd “Artemisia”. Tutto era finalizzato alla piena realizzazione della concezione del leader: l’elegante impianto delle sue composizioni e la sostanza degli sviluppi, a tratti quasi di caratura colta e cameristica, l’equilibrio fra i ruoli e una sinergica interazione, la consumata maestria strumentale dei singoli, funzionali e mai sopra le righe: gli insostituibili Uri Caine, Mark Helias e Ches Smith a supporto del violoncellista. Ogni aspetto, fino all’organica, esuberante vitalità modale del brano conclusivo, era teso a consolidare le coordinate su cui si è strutturato un concerto memorabile.
In definitiva il Saalfelden Jazzfestival, articolato in vari spazi con indubbia varietà di appuntamenti, anche gratuiti, si conferma un raduno seducente per i jazzfan. Eppure si ha la netta impressione che la programmazione potrebbe essere calibrata con maggiore attenzione, selezionando la qualità e il genere dei gruppi, collocandoli appunto negli spazi più opportuni senza dare adito a confusioni spiazzanti.
Inoltre, una moda imperante quest’anno e possibilmente da evitare in futuro è l’utilizzo incondizionato, per qualsiasi gruppo si avvicendi sul palco, di fumi e di luci di scena roteanti e abbaglianti, con effetti da discoteca. Questo espediente spettacolare, riscontrato anche in altri festival, nella maggior parte dei casi non si confà alla musica eseguita, disturbando la percezione degli spettatori e snaturando il rapporto fra musicisti e pubblico.
Libero Farnè