Concepito dal pianista Robert Glasper, il collettivo R+R=Now ha debuttato in Italia nel luglio 2018 al Locus Festival di Locorotondo
Nina Simone non ha mai esitato a utilizzare nella sua musica forme tipicamente europee come il contrappunto e la fuga, anche se l’Africa, il blues, il soul sono stati il terreno di coltura su cui si è sviluppata la sua poetica. Nel recente documentario What Happened, Miss Simone? si può vedere e ascoltare la pianista e cantante – la cui vita ha avuto come sfondo l’impegno per la conquista dei diritti civili dei neri americani – dichiarare nel corso di un’intervista: «It’s an artist’s duty to reflect the times in which we live» («È il dovere di un artista riflettere il tempo in cui viviamo»). Nel curare la colonna sonora di quel documentario, il pianista Robert Glasper è stato profondamente colpito da tale affermazione e, per fare qualcosa che giustappunto potesse riflettere il tempo in cui viviamo, ha voluto riunire alcuni dei personaggi che stanno dando lustro alla musica nera di questo inizio di millennio. («Reflect and Respond, Now»: Rifletti e reagisci, adesso) è il progetto musicale venuto fuori da un incontro al vertice di sei musicisti in stato di grazia che, questa estate, hanno riscosso consensi nei festival più importanti del mondo. Glasper è ormai un veterano nell’intercettare operazioni in equilibrio tra qualità musicale e appeal mediatico: le sue commistioni tra jazz e hip-hop sono diventate un marchio di fabbrica. Terrace Martin è uno dei più influenti polistrumentisti di oggi, con esperienze al fianco di Herbie Hancock e Quincy Jones ma anche di rapper leggendari come Kendrick Lamar. Il trombettista Christian Scott, nipote del sassofonista Donald Harrison, viene da New Orleans e ha il jazz nella testa e le sonorità del funk nel cuore. Il bassista Derrick Hodge lavora da molto tempo con Glasper ma anche con rapper come Common (ricordiamo il suo assolo iniziale su «Be», un album del 2005), il celeberrimo NAS – figlio del trombettista Olu Dara – e molti altri. Il batterista Justin Tyson viene dal vivaio della Revive, piccola ma vivace etichetta di New York, molto attiva nel promuovere l’estetica afro-americana di inizio millennio. Infine, last but not least, Taylor McFerrin, il figlio del celebre Bobby, abile e divertente beatboxer capace, con le sue acrobazie vocali, di colorare la già suggestiva miscela di jazz, soul e hip-hop della band. Sei icone della musica nera moderna che sono davanti a me nel backstage del Mavù di Locorotondo per una chiacchierata in esclusiva per Musica Jazz.
Robert, ci racconti qualcosa sulla genesi di questo progetto?
ROBERT GLASPER: Tutto nasce dall’idea di mettere insieme delle voci, delle personalità che oggi si esprimono a un certo livello. Fondamentalmente siamo un gruppo di persone che hanno delle radici in comune ma che, al tempo stesso, vengono da percorsi diversi. Quel che ci accomuna è l’amore per la nostra cultura e per tutto ciò che, in termini di consapevolezza, il nostro mondo ha espresso finora. Ma ognuno di noi apporta al progetto qualcosa di unico. Ognuno ha la sua voce e racconta la sua storia, ed è per questo che rappresenta una parte insostituibile, fondamentale. Non potremmo fare a meno di nessuna di queste personalità. Devono esserci tutti, perché ciascuno mette in campo qualcosa di assolutamente unico.
Terrace, tu hai lavorato e suonato con alcuni dei più importanti rapper della scena moderna. Penso, per esempio, ad artisti come Kendrick Lamar o Common. C’è stato un momento in cui sembrava che l’hip-hop si stesse avvitando sempre più verso posizioni smaccatamente commerciali e prive di contenuti. Oggi, però, con Lamar e Common ma anche con altri come Anderson.Paak, BJ The Chicago Kid e Flying Lotus, sembra che l’hip-hop viva un nuovo momento di rinascita in termini di energia e di creatività. Chi sono quelli, secondo te, che stanno influenzando maggiormente la scena in questo momento?
TERRACE MARTIN: Certo, Kendrick Lamar, Anderson.Paak, ma ce ne sono tanti. Più in generale, essendo io inserito appieno in quel mondo – sto parlando dell’hip-hop – posso dire che ci sono parecchi artisti emergenti, ma credo che a fare tutto siano i musicisti e i produttori che lavorano dietro gli artisti. Chiaro, dipende sempre dalla situazione, anche quando si tratta di un artista molto valido. L’artista, ovviamente, è il protagonista assoluto ma alla fine è il produttore ad avere il ruolo più importante. Ed è la combinazione di questi diversi aspetti a segnare la differenza. Artista, produttore e musicisti devono fare la loro parte e dare il loro contributo, tutti in egual misura. E questo non vale solo per l’hip-hop, perché oggi è la musica in generale che sta cambiando.
Christian, recentemente Wynton Marsalis, un tuo collega e anche un tuo concittadino, ha dichiarato che «l’hip-hop è più dannoso di una statua di Robert Lee». Cosa pensi di questa affermazione?
CHRISTIAN SCOTT: Credo che Wynton sia un personaggio con un grande carisma, personale e musicale ma che oggi sia disconnesso dalla realtà delle nostre vite. Prendere artisti come Ice-T o Ice Cube e giudicarli per ciò che hanno detto quando avevano diciannove o vent’anni sarebbe un grave errore, perché in quella fase hanno fatto cose bellissime al di là delle loro dichiarazioni. E lo dico anche perché all’epoca io c’ero. Bisogna dare ai giovani la possibilità di crescere. Wynton Marsalis era una personalità creativa, certo, ma credo che qui il vero problema sia la tendenza ad allontanarsi da ciò che davvero ci spinge a fare ciò che facciamo. A mio modo di vedere, oggi i più giovanistanno solo cercando di trovare una loro voce per raccontare la loro realtà, quello che vivono, quello che vedono. Danno diritto di parola a contesti che forse Wynton considera in modo negativo. Ma io stesso provengo da quegli ambienti e certe cose le ho viste. Pensare di giudicare un mondo composito, soprattutto oggi, come quello dell’hip-hop solo perché si è raggiunto uno status di un certo tipo; sentirsi in diritto di affermare che un gruppo è valido e un altro no, facendo forse sfoggio di cultura in termini musicali ma senza rendersi conto che la vita della gente, la vita della strada non è chiusa all’interno di una scuola o di una istituzione, ma è qualcosa che pulsa con la vita, significa essere distanti da quello che accade davvero. Davanti a un atteggiamento del genere per me è stato impossibile tenere la bocca chiusa, così ho reagito con dichiarazioni polemiche che hanno avuto una certa risonanza sui social.
Derrick, cosa pensi dell’idea di Nick Payton di chiamare la musica afroamericana non più jazz ma BAM?
DERRICK HODGE: Io vado fiero delle mie origini. Le mie più grandi influenze, le mie ispirazioni, i miei artisti preferiti hanno a che fare con le mie radici. In realtà la mia più grande influenza è stata mia madre, che comprò una radio prima che potessimo permetterci degli strumenti e me la faceva ascoltare ogni sera. È stata lei la mia più grande maestra, determinando le scelte che poi ho fatto nella vita. È per questo che sono orgoglioso del mio passato: quel mondo ce l’ho nel DNA. Mi ha insegnato a prendere ciò che ascolto per quello che è. Non sono mai stato un amante delle etichette: jazz, Black American Music… Quello che so è che la mia storia è fatta di musicisti afro-americani. Credo di aver avuto la fortuna di incontrare, nel corso della mia carriera, artisti e colleghi che non hanno avuto paura di essere sé stessi. Quel mondo mi ha trasmesso una grande energia. Non mi è mai interessato fare il critico o affibbiare definizioni alla musica. Quello che so è che la cosa migliore che possiamo fare è essere fedeli alla nostra storia, a tutte le generazioni di persone che ci hanno preceduto, e non solo nella musica. Dobbiamo essere uniti, essere coinvolti, essere di supporto l’uno all’altro. Mi rifiuto di parlare di cosa sia la musica, di come dovrebbe o non dovrebbe essere.
CHRISTIAN SCOTT: Prima di andare avanti, vorrei aggiungere qualcosa e chiarire degli aspetti. Ciò che non abbiamo evidenziato è che la BAM è nata fondamentalmente nell’ambito del jazz. Payton è stato costretto a spiegare i suoi termini e a difendere un punto di vista che non era tenuto a difendere. Questo è il primo punto. La musica prodotta dalla mia comunità ha una lunghissima storia alle spalle. Quello che succede, però, è che si mettono le mani su questa tradizione, si cerca di ripulirla e di imporle dei contenuti non suoi. Bisogna essere chiari e onesti al riguardo: questo è un atteggiamento molto offensivo nei confronti di chi vede la propria cultura musicale violentata in questo modo. Per fare un esempio, io posso anche andare in India, mettermi a suonare con la mia tromba e dire che sto facendo dei raga: ma sono sicuro che la mia sarà comunque un’esecuzione che in qualche modo stravolge la cultura musicale indiana. Potrò anche conquistarmi il loro rispetto, se sono onesto intellettualmente, ma sarò sempre un afro-americano che sta suonando qualcosa che non appartiene fino in fondo alla sua cultura. Ma, per qualche strano motivo, se lo facciamo noi, voglio dire se rimarchiamo la nostra esigenza di affermare che la nostra musica fa parte del nostro background, questo diventa un problema. Ed è esattamente questo che diventa un problema per me! Tu prima hai usato la parola «jazz». Be’, io vengo dalla Louisiana e ti posso garantire che, secondo la mia bisnonna, quel termine ai suoi tempi era un insulto. E anche grave. Veniva usato per diffondere un’idea peggiorativa dei neri e ritrarli come «spaventati». Ritengo quindi che Nicholas abbia semplicemente avuto il grande coraggio di affrontare un argomento che nella mia comunità è molto sentito. E la questione va affrontata da due punti di vista. Uno è quello di chi si accorge che la musica con la quale si è formato sin dalla nascita viene letteralmente stuprata. Ogni giorno. Chiunque non sia in grado di analizzare le cose da questo punto di vista mente, perché la realtà della nostra musica è questa. L’altro punto di vista, invece, riguarda chiunque faccia davvero questa musica, che sia nato in Ohio o a Roma: chi la suona, questa musica, al di là ovviamente dell’etnia dalla quale proviene, entra nel campo di un’espressione culturale. Io capisco che vi siano diverse prospettive, ma tutte derivano da uno stesso aspetto, ed è rimarcare l’idea che questa musica la possono suonare tutti purchè lo sappiano fare: Però tutti hanno l’obbligo di riconoscere che è espressione principale della cultura degli afro-americani. Tutto qui. Non capisco l’acredine che molti hanno nei confronti di Payton, mettendo in discussione ciò che dice. Noi siamo fortunati ad aver fatto carriera in un momento storico in cui non c’è molta confusione sulle radici della nostra musica. Ma se Nick le avesse dette, che so, nel 1953, il suo punto di vista sarebbe risultato una discriminazione. Quindi è assurdo che sia una rivista a darci la possibilità di definire una certa terminologia e spiegare che cos’è oppure che cosa non è questo tipo di musica.
Justin, tu sei considerato uno dei batteristi più talentuosi del momento. Mi parli delle tue influenze musicali?
JUSTIN TYSON: È una domanda che avresti dovuto farmi dieci anni fa perché, arrivato a questo punto della mia vita, non sono più molto influenzato da altri musicisti. La mia esperienza di vita mi sta insegnando come suonare in questo preciso momento. Adesso sono le sensazioni che provo, la sicurezza che avverto quando suono, a contare più delle fonti e delle influenze. Ovviamente ho passato in rassegna tutti i batteristi e i miti della nostra musica: tutti mi hanno ispirato. Ma ora sto cercando di trovare una mia voce. Finora non mi sono mai sentito unico, in grado di offrire qualcosa di unico. La mia più grande influenza, oggi, è la mia esperienza personale.
Taylor, la tua musica è una miscela di un sacco di influenze. Ma tu sei anche il figlio di un grande cantante di jazz. Parlami del tuo legame con il mondo di tuo padre.
TAYLOR McFERRIN: Mi sono sempre posto un po’ al di fuori di quel ruolo e la mia posizione è sempre stata leggermente distaccata rispetto al jazz. Ho sempre preferito avvicinarmi prima ai grandi musicisti e poi ascoltare i dischi di mio padre per trovare le sue ispirazioni. Credo che l’esperienza con i ragazzi di questo gruppo, registrare tutti questi album e scoprire musicisti che personalmente non conoscevo prima, mi abbia permesso di fare molte nuove scoperte. La mia era una sorta di sintesi derivante da un determinato punto di vista: ora che invece ho il quadro completo, la versione completa, mi si apre un universo che mi consente di capire le iniziali intenzioni delle persone coinvolte. Io ho iniziato a fare musica con la tecnologia – sono un beatboxer – ma cerco di preservare la libertà di sperimentare con gli strumenti. Ciò che mi fa sentire vicino al jazz è il ricordo dei concerti di mio padre: l’atmosfera al soundcheck è esattamente la stessa. Si tratta sempre di trovare la giusta combinazione, di esplorare. Ognuno dei componenti di R+R ha una tale storia che quando sono sul palco mi sembra di trovarmi davvero al sicuro. Di certo io non ho una formazione paragonabile alla loro, non suono uno strumento, ma credo di fornire comunque un apporto utile all’economia del gruppo.
TERRACE MARTIN: Però vorrei dire una cosa. Taylor fa una musica in cui le radici giocano un ruolo importantissimo perché affondano nel jazz e nell’hip-hop. Per noi è importantissimo avere a disposizione la sua prospettiva perché ci dà equilibrio. Quando abbiamo dubbi, lui ha le risposte, e può farlo perché proviene dall’hip-hop. Fattelo dire da uno che viene dalla strada, da uno che è cresciuto a Los Angeles nella gang dei Crips: è quella la mia più grande influenza. Se devo pensare a una musica ibrida, Taylor per me ne incarna l’esempio migliore. La musica sarà così, tra vent’anni: musicisti di generi diversi suoneranno tutti assieme, e lui è il primo esponente di questa tendenza. È per questo che l’esperienza di R+R è così importante per me. Perché rispecchia la realtà.
Robert, con la tua musica stai cercando di sintetizzare, mettendole assieme, nuove e vecchie pulsioni della musica nera. Ti ricordo una sera. Era un sabato di giugno nel 2008, alla Carnegie Hall di New York. Dieci anni fa. Con te, sul palco, c’erano Mos Def, Chris Dave e uno dei tuoi eroi: Gil Scott-Heron. Che ricordo hai di lui e di quella serata?
ROBERT GLASPER: Una delle cose che ricordo di quell’occasione è che, forse un paio di giorni prima dello spettacolo, Mos Def se ne uscì con un’idea inaspettata. «Voglio tutti i pezzi arrangiati per archi», disse. Così quella sera ci ritrovammo a casa mia, seduti sul divano davanti alla tv, e lui tirò fuori un foglio e si mise a scrivere gli arrangiamenti, l’uno dopo l’altro, mentre guardava la tv, senza basi, niente. Non me lo dimenticherò mai. A me toccavano quattro parti per archi e passai la notte a scervellarmi. Fu un’esperienza bellissima. Era tutto molto autentico, le prove erano autentiche. Per quel che riguarda Scott-Heron, posso solo dirti che già quando lo vedevi arrivare alle prove rimanevi a bocca aperta. Era un gigante. Lui era la storia in persona, era uno dei miti. Alla stregua di Stevie Wonder. Era un pezzo fondamentale della storia nera, della musica nera, dell’essere neri, delle difficoltà dei neri. Credo sia morto pochi mesi dopo. Quello è stato uno dei migliori momenti musicali della mia vita.
Nicola Gaeta
[da Musica Jazz, settembre 2018]
[leggi anche la recensione del disco «Collagically Speaking» di R+R=Now]