Ron Carter: 2.221 dischi e non sentirli

Uno dei maestri del jazz moderno festeggia i suoi primi ottant'anni e continua a battere il record di contrabbassista più registrato di sempre

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Ron Carter (danielacrevena
Ron Carter - foto Daniela Crevena

È un uomo tranquillo, pacato, consapevole del suo status di musicista affermato, il Ron Carter che ci ospita a casa sua. Un appartamento elegante sulla West End Avenue, giusto a tre isolati di distanza dall’ultima, famosa abitazione di Miles Davis. Già, Miles, l’amico, quello cui il Ron di oggi, ottant’anni da compiere il 4 maggio, deve larga parte della sua brillante carriera. È probabile che Carter e il suo inseparabile contrabbasso avrebbero percorso una strada non dissimile, se oltre cinquant’anni fa non avessero incrociato il cammino già intrapreso da Davis. Ma è quasi certo che la figura del contrabbassista non avrebbe ottenuto l’immensa fama che da lungo tempo ha meritatamente acquisito. Senza la presenza di Carter, il suo stile impeccabile, la cavata profonda e sicura, la storia del contrabbasso nel jazz avrebbe oggi un pilastro in meno, ed è probabile che il violoncello e il piccolo non avrebbero avuto quella fortuna che con lui hanno invece trovato. Tra i progenitori del Nostro si scorgono Jimmy Blanton, Oscar Pettiford, Sam Jones; tra i discendenti, John Clayton e Christian McBride: in mezzo, la bella compagnia di Ray Brown, Charlie Haden e del suo successore nell’accolita davisiana, Dave Holland. Ed è solo per citarne alcuni, ma quasi tutti coloro che oggi imbracciano il contrabbasso devono qualcosa a questo alto e dinoccolato gentleman, sempre ben vestito e di gusti raffinati, che non appare certo come un sopravvissuto ai ruggenti anni Sessanta, quelli in cui il suo protagonismo si confrontava con altri colleghi dalla vita ben più disordinata e conflittuale. Se ha saputo convivere con certe «cattive compagnie» e sfuggire alle bad habits che imperavano ai tempi della gioventù, Carter lo deve al proprio carattere, apparentemente duro e poco comunicativo ma che in realtà emerge tranquillamente avvolto da una dolce e cordiale loquacità. Tra le sue parole troveremo il segreto speciale della leadership di Miles Davis: il rispetto e la fiducia reciproca. Ma questo lo capiremo tra poco: nel frattempo lui ci regala un badge che recita «The World’s Record Holder Of Most Recorded Bassist: 2.221» e poi aggiunge: «In realtà oggi ho già altri otto dischi da aggiungere a quei 2.221. E poi chissà ancora quanti altri, spero…».

Ottant’anni sono un bel traguardo. Vogliamo festeggiarli innanzitutto con la storia della sua vita? Come è nata la carriera di Ron Carter?
Vengo da una famiglia numerosa: eravamo otto figli. Ho un fratello e sei sorelle, ma sono l’unico ad aver deciso di fare il musicista. E la ragione è semplice: a dodici anni non vedevo cos’altro si potesse fare a Ferndale, due passi da Detroit, Michigan. Parliamo del 1949: all’epoca non conoscevo musicisti di colore cui potessi ispirarmi, specialmente nella musica classica. Il vero grande modello fu mio padre, che mi spinse subito a prendere lezioni di musica aiutandomi enormemente. Ho iniziato subito col violoncello, con l’incoraggiamento paterno, anche se mia madre non è certo stata da meno. Quindi nel 1955 mi iscrissi all’Eastman College, nello Stato di New York, per proseguire gli studi e la pratica dello strumento, che nel frattempo era diventato il contrabbasso. Sempre musica classica, s’intende. L’incontro col jazz avvenne grazie a un amico vicino di casa, che era un sassofonista. Fu lui a convincermi a suonare quella musica nel suo gruppo, che si esibiva d’estate ai party di Detroit. A quell’epoca, nelle feste dei diciottenni, si usava il jazz per ballare. In realtà io di jazz non sapevo proprio niente, ma il contrabbasso lo avevo imparato a suonare: mi procurai degli spartiti di canzoni famose e cominciai ad esibirmi con quella band. A Rochester poi, dove aveva e ha sede l’Eastman College, d’inverno venivano anche musicisti famosi come Sonny Stitt, e noi studenti avevamo l’occasione di suonare con loro. Era un modo di confrontarci e imparare dal vivo la musica di quei grandi. Con Stitt ebbi l’occasione di sviluppare un buon rapporto musicale, ma anche con altri come J.J. Johnson, Horace Silver, Carmen McRae.

C’era qualcosa nel jazz che l’attraeva di più che suonare musica classica?
Mettiamola in un’altra maniera: con il jazz era più facile guadagnare e mantenersi. Non si trattava di scelte in contrasto, o jazz o classica. No. Suonavo anche con la filarmonica dell’Eastman, in cui ero il primo contrabbasso: l’orchestra era formata dagli studenti più dotati. Quindi, durante la settimana studiavo al college, ma nei weekend facevo concerti di jazz, per i quali ero regolarmente pagato e che mi servivano a comprarmi i vestiti, le corde per lo strumento e tante altre cose, le scarpe, lo smoking. Lavoravo per mantenermi meglio agli studi. In definitiva stavo acquisendo un bagaglio tecnico che mi avrebbe permesso di eccellere nei due linguaggi, il jazz e la classica. Una volta diplomato all’Eastman mi trasferii a New York, dove ero sicuro che ci fosse del lavoro per i contrabbassisti. L’occasione me la diede Chico Hamilton, che avevo incontrato proprio nel mio ultimo anno di studi al college. Considera che all’auditorium dell’Eastman, quando c’ero io, vennero a suonare personaggi del calibro di Miles Davis, Maynard Ferguson, Lambert Hendricks & Ross, Dave Brubeck e, appunto, Chico Hamilton con Eric Dolphy. Già solo ascoltarli dal vivo era una grande lezione di musica per me. Quindi fu Chico a chiedermi cosa facevo e mi disse: «Il mio violoncellista lascia la band. Vuoi venire a New York? Abbiamo una settimana al Birdland ad agosto e cerco un violoncellista. Vediamo se posso ingaggiarti». Mi diede le partiture dei brani in repertorio e me le studiai a fondo. Così, quando finii il college, andai subito a New York a cercare Chico, ma scoprii subito che il suo violoncellista aveva deciso di rimanere nella band! In compenso era il contrabbassista, Wyatt Ruther, che se ne stava andando. «Be’, se vuoi, posso fare l’audizione per il contrabbasso», gli risposi. Chico mi ascoltò nel pomeriggio e quella stessa sera feci il mio esordio al Birdland! Rimasi nella band di Hamilton per sei mesi, ovvero fino a quando il gruppo si sciolse. Chico si trasferì a Los Angeles ma io rimasi a New York. Dapprima trovai lavoro con Teddy Charles e poi conobbi Sam Jones. Sam era il contrabbassista della band di Cannonball Adderley ma era anche un bravissimo violoncellista. Siccome dovevano partire per un tour in Europa, Sam mi chiese se ero disponibile a suonare il contrabbasso con loro nei brani in cui lui era impegnato al violoncello. Ovviamente dissi subito di sì. Quindi andai in tour per due settimane con Cannonball, Sam, Louis Hayes, Nat Adderley e gli altri. Era il 1960. Dopo quella bella esperienza entrai nella band di Randy Weston, dove rimasi per circa un anno.

E Miles Davis?
L’avevo già conosciuto all’Eastman, quando era venuto a suonare. Anzi, avrebbe dovuto addirittura darmi un passaggio in macchina perché anch’io dovevo andare a New York. Ma non si fece trovare all’appuntamento. Così ci andai in pullman, assieme a Paul Chambers e Philly Joe Jones. A New York fui ingaggiato da Art Farmer, che a quel tempo suonava con Jim Hall. Una sera arrivò Miles, e nell’intervallo tra i due set si avvicinò a me dicendomi che la sua band si era sciolta e aveva bisogno di un contrabbassista. «Ma io sono impegnato con Art Farmer per le prossime due settimane», gli dissi. «Comunque, se chiedi a Art di lasciarmi libero e lui accetta, vengo volentieri a suonare con te». Miles lo fece, e mi ritrovai con lui appena il giorno dopo. Devo molto ad Art Farmer, sia come musicista sia come essere umano: fu comprensivo e gentile. Ha sempre avuto tutto il mio rispetto. E anche Miles si rese conto di quanto rispetto Art avesse per lui, col cedergli il musicista col quale aveva già iniziato un ingaggio importante per due settimane! E considera che io mi trovavo benissimo in quella band, soprattutto con Jim Hall, col quale avevo iniziato a fare dei duetti molto belli. Ma se Art avesse detto di no io sarei rimasto in quel gruppo, e chissà quando avrei rivisto Miles o suonato insieme a lui! Per agire così, ci vuole molta sensibilità e comprensione per il tuo prossimo: ecco perché la mia stima per Art Farmer è enorme. Non credo sia facile oggigiorno assistere a una cosa del genere.

Ron Carter
Ron Carter con Herbie Hancock, Wayne Shorter e Tony Williams in uno dei gruppi più importanti nella storia del jazz, il quintetto di Miles Davis – foto David Redfern/Getty Images

Come si sviluppò il tuo rapporto con Miles?
Non c’era solo la musica. Si parlava molto assieme: di politica, di economia, di tante cose. Andavamo anche a giocare a golf assieme… giravamo dappertutto, con la sua Maserati! Poi ero io a tenere i passaporti quando andavamo in tour all’estero, pagavo la band, tenevo i conti. C’era una grande fiducia reciproca.

E la musica? Iniziaste con i tour oppure in studio?
Sei settimane consecutive di concerti. Detroit, St. Louis, il Playboy Club di Seattle, il Blackhawk di San Francisco, il Renaissance di Los Angeles, Vancouver…Poi tornammo a Los Angeles per finire la prima parte delle registrazioni di «Seven Steps To Heaven», che fu un disco inciso con due formazioni diverse. In una c’erano Victor Feldman al piano e Frank Butler alla batteria; nell’altra Herbie Hancock e Tony Williams. In entrambe, io, Miles, e George Coleman. Quella fu l’incisione che segnò il passaggio alla nuova band di Miles, con Herbie, Tony, George e me.

In che modo questo rapporto umano e musicale con Miles e gli altri ha cambiato il Ron Carter musicista?
Per cinque anni, venti dischi e innumerevoli serate in teatri e night club ho vissuto e suonato con quei grandi musicisti. Quindi ogni volta c’era la possibilità di creare della musica straordinaria. Potrei prendere uno qualsiasi di quei giorni, di quelle notti, e scoprire che la musica che facevamo era incredibile. In ogni momento c’era da trovare qualcosa di nuovo, e posso dirti che ancora oggi non riesco a ricordare un periodo più creativo, più colmo di scoperte, di invenzioni. Quella è stata l’unica mia vera occasione di trovare una nuova organizzazione della musica, l’unica grande chance che ho avuto per capire meglio me stesso in qualità di artista. D’altro canto ho imparato a dare fiducia agli altri musicisti della band, e loro di conseguenza hanno imparato a fidarsi dei miei giudizi: per esempio, dove mettere il bridge o un assolo. Anche sbagliando. Tutti possono sbagliare, ma la fiducia nell’onestà del giudizio è molto importante. La scelta giusta da fare al momento giusto, dire: «Non accelerare quella ballad» o «Non mettere quell’assolo subito dopo la melodia», ma non per le prove del giorno dopo. Per quello stesso momento, durante il concerto! Se non ci fosse stata una fiducia reciproca così forte io sarei stato cacciato dalla band, e comunque la musica avrebbe avuto un altro corso. Nel risentire quello che abbiamo suonato, a volte viene da dire: «Forse non avremmo dovuto fare così», ma quel che conta – e contava allora – era la decisione presa sul momento. Se Tony Williams mi diceva: «Io non rifarei quel pezzo in quella maniera», io gli rispondevo: «Per me andava bene, ma se vuoi facciamolo in un altro modo». Si faceva di tutto per far suonare meglio la band: questo è il senso della fiducia che avevamo l’uno per l’altro. Fino al punto di dover cambiare le proprie opinioni nel confronto reciproco.

E perché poi è finito il rapporto con Miles? Dal punto di vista artistico, beninteso.
Perché lui aveva deciso di andare verso sonorità elettriche. Io avevo impiegato un sacco di tempo e di lavoro per ottenere un certo tipo di suono col mio contrabbasso. Un lavoro costante, senza sosta, per ottenere il meglio da me stesso e dallo strumento: per esempio, come eseguire All Blues ogni volta in maniera diversa ma sempre mantenendo il senso e la struttura del brano. Per cui, in primo luogo, seguire Miles nella sua nuova dimensione elettrica avrebbe significato per me distruggere ciò che avevo fatto fino ad allora; in secondo luogo, la mia natura competitiva mi avrebbe portato a ricominciare da capo con il basso elettrico per raggiungere un alto livello, almeno paragonabile a quello che avevo raggiunto con il contrabbasso. Ovvio, negli anni il lavoro mi ha costretto a suonare anche il basso elettrico e mi sono adattato, ma conoscendomi avrei dovuto studiare lo strumento da cima a fondo, iniziando dalla storia dello strumento e dalla sua evoluzione stilistica per poi esercitarmi praticamente soltanto su quello e mettere da parte il contrabbasso. Invece io volevo migliorare il mio suono sul contrabbasso, quel suono che avevo trovato con tanta fatica, e poi volevo lasciare un segno nella musica seguendo le mie inclinazioni stilistiche.

In definitiva era giunto il tempo di lasciare quella band per continuare su una strada personale.
La mia scelta non era legata ad una questione di leadership: volevo davvero sviluppare fino in fondo il mio suono sul contrabbasso, non sul basso elettrico. In effetti ho avuto una mia band regolare solo dal 1975: fino a quel momento ho deciso ogni volta con chi e cosa suonare, come e quando essere pagato, e soprattutto ho cercato di costruirmi un repertorio. In pratica ho messo le basi per ridefinire con solidità la mia carriera.  

Fu in quel periodo che lei cominciò a usare il contrabbasso piccolo, fino a dedicargli un bellissimo album intitolato proprio «Piccolo». Usa ancora quello strumento oppure è tornato al violoncello, come ai tempi di «Where?» o di altri dischi con Eric Dolphy?
Lo uso soltanto con il mio nonetto. Il piccolo è un contrabbasso ridotto fino a 1/4, quindi ha un suono molto diverso dallo strumento d’origine ed è simile ad un violoncello tenore. Il sound è molto bello e lo vedo adattarsi meglio al nonetto che ad altre formazioni. Non riprendo in mano il violoncello solo perché mi servirebbero almeno altri tre anni di pratica e di esercizi per arrivare al livello cui sono oggi col contrabbasso o col piccolo.

Ron Carter a Umbria Jazz nel 1983 - foto Paola Bensi
Ron Carter a Umbria Jazz nel 1983 – foto Paola Bensi

Quale ritiene che sia lei la caratteristica principale di un bravo contrabbassista? In Italia si parla di «cavata», che nel suo caso è certamente bella e definita.
Proprio oggi ho ricevuto uno studente cui impartisco lezioni private. Be’, abbiamo passato tutto il tempo a parlare dell’importanza del sound di un musicista, di come riuscire a crearlo. Di quanto tempo sia necessario per raggiungere infine la propria sonorità. Credo che un bravo contrabbassista debba riuscire ad avere un suono individuale. Deve avere le sue note, devono essere lì, in carne e ossa: così gli ascoltatori possono capire che appartengono soltanto a lui. Quindi non si tratta di imitare o di copiare qualcun altro per arrivare a un risultato soddisfacente. Qualcuno ha detto che il mio sound è come una fiamma che brilla ed emerge dal buio: è una definizione che sento molto vicina a me. Anzi, mi appartiene. Una volta che riesci ad ottenere il tuo sound, quello che hai cercato tanto, ne diventi responsabile. Devi tirarlo fuori ogni volta che apri la custodia e imbracci lo strumento! E’ come la carta d’identità: la devi portare con te ovunque tu vada. In questo modo acquisisci un valore, e il pubblico ti vorrà ascoltare per quel tuo specifico suono.

Parliamo di composizione. Questo è un aspetto che lei ha sviluppato piuttosto avanti nella sua carriera, giusto?
Proprio così. Ho lavorato e suonato così tanto tempo con gente come Randy Weston o Benny Golson, oppure sulle composizioni di Duke Ellington, che oggi mi resta facile capire come funziona un brano, quali sono le sue caratteristiche, come è costruito. Direi quasi fisicamente: un contrabbassista lavora sullo strumento in maniera molto fisica. Ho imparato a capire come il contrabbasso reagisce alle melodie ben strutturate. Pensa ai pezzi di Wayne Shorter! Via via che procedevo nell’analisi di questi brani mi sono accorto che stava arrivando il momento di applicare il sound del contrabbasso alle mie composizioni. Insomma, più imparavo più mi distanziavo dalle caratteristiche di questi grandi autori. Anche in questo caso ho cercato di trovare un modo diverso di comporre, uno stile che fosse tutto mio. Spero di esserci riuscito.

Esiste un progetto che non è riuscito a fare fino ad oggi e che vorrebbe compiere in un prossimo futuro?
Hai presente «Ron Carter Plays Bach», il disco che ho fatto per la Blue Note nel 2003 sulle musiche di Bach? Be’, adesso sto pensando a qualcosa di più complicato: otto cantate di Bach da suonare sostituendo tutte le voci con il mio contrabbasso. In parte ce l’ho già sul tavolo di lavoro, ma capisci bene quanto lavoro e tempo possa richiedere un’impresa del genere. Davvero tanto. E al momento tutto questo tempo non ce l’ho! Ma è un obiettivo che vorrei raggiungere nei prossimi anni.

Ron Carter
Ron Carter nella sua bella casa newyorkese durante l’intervista che ci ha rilasciato – foto Enzo Capua

Dei suoi vecchi dischi da leader, invece, quali ritiene particolarmente significativi?
Per esempio, «Live at Village West» (Concord, 1982) con Jim Hall. Con lui avevo sviluppato un rapporto davvero speciale, quasi telepatico. Ci trovavamo benissimo a suonare assieme, e poi Jim era davvero una persona speciale. Io sapevo come intervenire sui suoi assolo, così come lui sui miei: una grande interazione. Non mi manca solo come musicista, mi manca molto come persona. Poi direi «Brandenburg Concerto» (Toshiba-Emi/Blue Note, 1995), che ritengo importante perché lì ho avuto la mano completamente libera dal produttore e la casa discografica. Era un progetto davvero complicato: ho scritto tutti gli arrangiamenti. C’era il terzo Concerto Brandeburghese di Bach, brani di Haendel, di Ravel, pezzi miei. Ho fatto tutto di testa mia rispettando il budget che mi era stato assegnato. E secondo me è venuto fuori un disco splendido, di cui sono orgoglioso. Quindi citerei «Eight Plus» (Dreyfus, 2003), che è stato il mio primo disco col nonetto. Per me è importante, perché fa vedere come gli strumenti a corda – violoncello, contrabbasso, piccolo – possano davvero swingare. E poi il gruppo era stupendo, formato da grandi musicisti: la musica che ne è venuta fuori era tutt’altro che routine. Infine direi «Ron Carter’s Great Big Band» (Sunnyside, 2011), del quale sono molto contento: sia per la musica per largo organico che avevo scritto, sia per l’apporto dei musicisti, che mi hanno seguito fino in fondo con fiducia encomiabile. Con quel progetto ho cercato di far suonare una big band come se fosse un quartetto: sedici componenti che si aspettavano il meglio da loro stessi e da me. Li ho portati anche al festival di Detroit lo scorso anno, come hai potuto vedere, e loro hanno risposto con un entusiasmo straordinario. Suonavano compatti: ecco perché mi sembrava di dirigere un quartetto e non una big band!

Due parole, infine, su due grandi musicisti dalla vita difficile e sfortunata, con i quali lei ha suonato a lungo producendo bellissima musica: Eric Dolphy e Lee Morgan.
Con Eric ho fatto diversi dischi, ma non ricordo di aver mai suonato dal vivo. Con lui si discuteva sempre su cosa fosse bello oppure no. Per lui tutto ciò che suonavamo era bello. Io gli dicevo: «Ma non è possibile, Eric! C’è sempre la possibilità di fare qualcosa di meglio, altrimenti il metro di giudizio va a farsi benedire!» Lee, invece, era uno di quelli che vanno veloci: nel suonare, nel gestire la propria vita. Ma, pur avendo tutto questo entusiasmo, gli mancava la qualità della socializzazione. Con lui non si riusciva a stare a lungo assieme, a parlare, a cenare dopo un concerto. Era fatto così. Ricordo una volta che eravamo nello studio di registrazione di Rudy Van Gelder. Era un sabato, il giorno in cui di solito non si lavorava da Rudy, il quale non amava incidere il fine settimana. C’era anche Ike Quebec, che produceva la seduta. Quella stessa sera, alle 19, io avevo un concerto a Camden, New Jersey, con James Brown – sapevi che suono io sulla versione originale di It’s A Man’s Man’s Man’s World? – e quindi dovevamo finire abbastanza in fretta. La seduta iniziò a mezzogiorno, e anche se mi dicevano che avrei fatto in tempo, io fremevo. Be’, sai come vanno le cose in sala d’incisione: il tempo passa, le takes vanno rifatte, poi rifinite. Io non ero capace di insistere con gli altri sull’urgenza che avevo: non è il mio modo di agire. Finimmo alle 17, per via di Lee che si fermava sempre a metà pezzo: prima andava di corsa, poi voleva rifare. E James Brown voleva avere i suoi musicisti con lui almeno un’ora prima del concerto, quindi alle 18. Arrivai trafelato alle 18.30, scappando letteralmente dallo studio di Rudy. Per fortuna Brown non mi mandò via, pur facendomi sentire ridicolo. Ci si doveva cambiare d’abito, a quei tempi: saltai sul palco giusto in tempo per attaccare il primo pezzo. Volevo bene a Lee e certamente lo stimavo come musicista, ma eravamo molto diversi. Così come sono state molto diverse le nostre vite.

Enzo Capua

Ron Carter
Ron Carter – foto Daniela Crevena