
Firenze, Sala Vanni
12 novembre
Evento di spicco della quinta stagione di A Jazz Supreme, rassegna promossa dal Musicus Concentus con la direzione artistica di Simone Graziano e Fernando Fanutti, il concerto di Roberto Ottaviano e Alexander Hawkins ha messo nettamente in luce alcuni punti chiave del percorso artistico dei due protagonisti. Monumental Duo non è una denominazione autoreferenziale; piuttosto, esprime l’intento di evidenziare attraverso la propria identità il legame con alcune figure chiave, decisive nell’iter artistico del sassofonista barese e del pianista inglese. In altre parole, monumenti o pietre miliari che dir si voglia.
Ottaviano e Hawkins avevano inaugurato la loro proficua collaborazione nel 2014 con «Forgotten Matches», doppio Cd edito dalla Dodicilune ed espressamente dedicato a Steve Lacy. Da Lacy il duo ha certamente ereditato l’asciutta spigolosità nel disegno di certi temi e la meticolosa esplorazione del suono, presente anche in certi passaggi informali contraddistinti da clusters e impennate sui sovracuti o sui registri estremi dei sax soprano e sopranino. Il rigore spartano e l’amore per la sintesi (quando non addirittura per la sottrazione) erano tratti distintivi della poetica del pianista Mal Waldron, protagonista di memorabili duetti con Lacy. Di Waldron è stata riproposta un’intensa versione di What It Is. Non casualmente, perché con Waldron Ottaviano aveva avuto modo di collaborare. A questo proposito si ricorda un loro concerto in quartetto proprio alla Sala Vanni nel 1994, nell’ambito della rassegna Tradizione in Movimento.

Waldron è anche uno degli ispiratori di Hawkins, che infatti concentra la propria azione prevalentemente sulle ottave centrali del piano con accordi pregnanti, frasi scarne e un tocco percussivo, a tratti sferzante. Quindi, sostiene le progressioni del collega con linee di basso prodotte dal dinamico gioco della mano sinistra sul registro grave, contrapponendovi occasionalmente punteggiature acuminate e concedendosi rare divagazioni, comunque mai all’insegna del virtuosismo. Sopranista sopraffino, Ottaviano possiede un fraseggio fluido, sempre logicamente strutturato e dotato di un’ampia gamma di sfumature timbriche, con il quale alterna contrazioni e distensioni, tratti abrasivi e spunti melodici. Quando passa al sax alto, spesso l’approccio si fa più sanguigno, caratterizzato com’è da timbriche taglienti qua e là paragonabili alla poetica dell’inglese Mike Osborne, sparito dalle scene nel 1982 e morto in disgrazia nel 2007.

Osborne costituisce un credibile collegamento con quella colonia di musicisti sudafricani espatriati in Inghilterra che scrissero pagine indimenticabili per il jazz europeo. A loro si richiamano Ottaviano e Hawkins sia quando citano il tema suadente di The Wedding di Abdullah Ibrahim, sia quando imbastiscono fitti scambi di chiamata e risposta o costruiscono capienti impianti ritmico-armonici pervasi da gioiose melodie dal respiro ampio, innico. Così facendo, traducono in materia viva lo spirito di alcuni grandi sudafricani scomparsi prematuramente: il pianista Chris McGregor, i contrabbassisti Harry Miller e Johnny Dyani, il sassofonista Dudu Pukwana e il trombettista Mongesi Feza. In definitiva, le caratteristiche salienti dell’operato del duo sono proprio l’interazione simbiotica, la capacità di recepire e trasmettere nuovi stimoli, l’afflato corale.
Enzo Boddi