Roberto Ottaviano & Alexander Hawkins, un duo monumentale

Il Monumental Duo celebra Lacy, Waldron e il jazz sudafricano

494
Roberto Ottaviano e Alexander Hawkins, foto di Eleonora Birardi

Firenze, Sala Vanni

12 novembre

Evento di spicco della quinta stagione di A Jazz Supreme, rassegna promossa dal Musicus Concentus con la direzione artistica di Simone Graziano e Fernando Fanutti, il concerto di Roberto Ottaviano e Alexander Hawkins ha messo nettamente in luce alcuni punti chiave del percorso artistico dei due protagonisti. Monumental Duo non è una denominazione autoreferenziale; piuttosto, esprime l’intento di evidenziare attraverso la propria identità il legame con alcune figure chiave, decisive nell’iter artistico del sassofonista barese e del pianista inglese. In altre parole, monumenti o pietre miliari che dir si voglia.

Ottaviano e Hawkins avevano inaugurato la loro proficua collaborazione nel 2014 con «Forgotten Matches», doppio Cd edito dalla Dodicilune ed espressamente dedicato a Steve Lacy. Da Lacy il duo ha certamente ereditato l’asciutta spigolosità nel disegno di certi temi e la meticolosa esplorazione del suono, presente anche in certi passaggi informali contraddistinti da clusters e impennate sui sovracuti o sui registri estremi dei sax soprano e sopranino. Il rigore spartano e l’amore per la sintesi (quando non addirittura per la sottrazione) erano tratti distintivi della poetica del pianista Mal Waldron, protagonista di memorabili duetti con Lacy. Di Waldron è stata riproposta un’intensa versione di What It Is. Non casualmente, perché con Waldron Ottaviano aveva avuto modo di collaborare. A questo proposito si ricorda un loro concerto in quartetto proprio alla Sala Vanni nel 1994, nell’ambito della rassegna Tradizione in Movimento.

Roberto Ottaviano, foto di Eleonora Birardi

Waldron è anche uno degli ispiratori di Hawkins, che infatti concentra la propria azione prevalentemente sulle ottave centrali del piano con accordi pregnanti, frasi scarne e un tocco percussivo, a tratti sferzante. Quindi, sostiene le progressioni del collega con linee di basso prodotte dal dinamico gioco della mano sinistra sul registro grave, contrapponendovi occasionalmente punteggiature acuminate e concedendosi rare divagazioni, comunque mai all’insegna del virtuosismo. Sopranista sopraffino, Ottaviano possiede un fraseggio fluido, sempre logicamente strutturato e dotato di un’ampia gamma di sfumature timbriche, con il quale alterna contrazioni e distensioni, tratti abrasivi e spunti melodici. Quando passa al sax alto, spesso l’approccio si fa più sanguigno, caratterizzato com’è da timbriche taglienti qua e là paragonabili alla poetica dell’inglese Mike Osborne, sparito dalle scene nel 1982 e morto in disgrazia nel 2007.

Alexander Hawkins, foto di Eleonora Birardi

Osborne costituisce un credibile collegamento con quella colonia di musicisti sudafricani espatriati in Inghilterra che scrissero pagine indimenticabili per il jazz europeo. A loro si richiamano Ottaviano e Hawkins sia quando citano il tema suadente di The Wedding di Abdullah Ibrahim, sia quando imbastiscono fitti scambi di chiamata e risposta o costruiscono capienti impianti ritmico-armonici pervasi da gioiose melodie dal respiro ampio, innico. Così facendo, traducono in materia viva lo spirito di alcuni grandi sudafricani scomparsi prematuramente: il pianista Chris McGregor, i contrabbassisti Harry Miller e Johnny Dyani, il sassofonista Dudu Pukwana e il trombettista Mongesi Feza. In definitiva, le caratteristiche salienti dell’operato del duo sono proprio l’interazione simbiotica, la capacità di recepire e trasmettere nuovi stimoli, l’afflato corale.

 

Enzo Boddi