Richard Barbieri: la mia musica non è per tutti

di Alceste Ayroldi

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Richard Barbieri (foto di Ben Meadows)
Richard Barbieri (foto di Ben Meadows)

Dai Japan ai Porcupine Tree, il ritratto di Richard Barbieri, un artista che mette il rapporto tra le persone al centro della sua attività musicale

Innanzitutto, il suo cognome tradisce legami con l’Italia.
E mi fa piacere! Mio padre e mio nonno erano italiani, di Milano.

«Planets+Persona» è il titolo del suo ultimo lavoro discografico. Potrebbe spiegarcene il significato?
È dedicato al dualismo ed è un concept album, ma era particolarmente difficile trovare un titolo che spiegasse questo dualismo in maniera originale. Mi sono reso conto che esistono differenti livelli di dualismo: c’è il dualismo dell’essere umano, tra bene e male, odio e amore; e abbiamo anche il dualismo tra i pianeti dell’universo e il sistema solare. Così, ho deciso di chiamare questo album «Planets + Persona», come se fosse una specie di yin e yang o di bene e male: ho pensato che, per tutti i brani che l’album conteneva, fosse il titolo perfetto.

C’è un po’ d’Italia nel suo disco, a parte lei. Infatti, troviamo due musicisti italiani: Luca Calabrese e Christian Saggese. Come mai ha scelto proprio loro?
Casomai sono stati loro a scegliere me! A parte gli scherzi il grosso della band è svedese ed è un collettivo formato da dieci-dodici musicisti. In occasione di un concerto in Svezia hanno invitato ospiti da ogni parte del mondo per suonare la loro musica. Hanno invitato qualsiasi tipo di strumentista, che suonasse il sassofono o la tromba, il vibrafono o la chitarra. Anch’ io ho suonato con loro. Luca e Christian sono membri di questo collettivo e con loro mi sono trovato molto bene, di conseguenza ho deciso di invitarli a suonare nel mio disco.

Un disco registrato in Inghilterra, Italia e Svezia. C’è una ragione specifica per questa scelta?
Sì, ho voluto realizzare il mio disco alla vecchia maniera, perché oggigiorno le tecnologie ci condizionano fin troppo ed è diventato quasi impossibile allacciare i giusti rapporti umani. Quindi ho voluto incidere un album basandomi sulle interazioni con le persone. Mi è piaciuto, e sono stat contento di viaggiare per recarmi a lavorare in tre diversi studi di registrazione. E in studio puoi comunicare molto più velocemente con i musicisti e far comprendere loro ciò che desideri.

Richard Barbieri (a destra) con Steve Hogarth, cantante della band Marillion (2011).
Richard Barbieri (a destra) con Steve Hogarth, cantante della band Marillion (2011).

Ha avuto un’attenzione particolare per il suono, tanto da riuscire a disegnare dei paesaggi visibili come in New Found Land. Ed è chiaro che dietro a tutto questo vi è una ricerca. Ha trovato il suono che cercava?
Rispetto ai miei precedenti lavori il sound è sicuramente di più ampio respiro, perché ho lavorato in un ambito diverso. Non ultimo perché ho utilizzato strumenti acustici e sono stato presente, lavorando a fianco dei musicisti, anche con la voce. Penso di essermela cavata abbastanza bene. L’immagine globale è molto soddisfacente ed è sottolineata dalla copertina dell’album, che mi sembra rappresenti le sensazioni del lavoro. Per me si tratta del perfetto connubio tra immagine e musica.

Forse è per questo che il suo disco sembra essere la colonna sonora di un film. A proposito, se si fosse trattato davvero di una colonna sonora, quale sarebbe stata la trama del film?
Domanda interessante, perché uno dei brani, The Night Of The Hunter, ha lo stesso titolo di un celebre film noir degli anni Cinquanta con Robert Mitchum. Il mio album richiama queste atmosfere, e penso proprio che potrebbe essere la colonna sonora di un film noir: sarebbe una mia ambizione.

Perché preferisce le voci sintetizzate?
In verità, in questo album alcune delle voci sono autentiche, realizzate da Lisen Rylander Löve in studio utilizzando una lingua che non è una vera lingua: parole prive di senso compiuto ma che le sono venute spontanee in studio mentre registrava con gli altri musicisti. A ogni buon conto, uso voci che ho ascoltato, di amici e colleghi musicisti, le sintetizzo e le manipolo e le utilizzo immergendole nei suoni che creo, secondo il mio particolare gusto. In questo lavoro, invece, non volevo che vi fossero dei testi riconoscibili.

Sempre in The Night Of The Hunter possiamo sentire molte influenze musicali che vanno dalla cultura giapponese all’avanguardia contemporanea fino anche al free jazz. Che storia racconta questo brano?
La storia che racconta è quella del film di Charles Laughton cui facevo riferimento. In sintesi, è la lotta tra il bene e il male. Ed è forse per questo che ho lasciato confluire tante musiche e vi sono tante variazioni: è la lotta, le strategie che cambiano.

A proposito di jazz, quali sono i suoi rapporti con questa musica?
Odio e amore. In realtà non ho mai odiato il jazz né lo odio adesso. Mi piace, ma non alla follia. Adoro il jazz minimalista, amo Bill Evans, Chet Baker, Miles Davis per quello che hanno fatto. Penso che in questo mio ultimo lavoro vi sia la sensibilità del jazz, così come credo che questa sensibilità sia presente anche in altri miei dischi.

Japan
I Japan nel 1979: da sinistra, seduti, Steve Jansen, lo scomparso Mick Karn e Barbieri; in piedi, sempre da sinistra, Rob Dean e David Sylvian.(Foto: George Wilkes/Hulton Archive/Getty Images)

Nel brano Interstellar Medium perché ha preferito suonare da solo?
Ho voluto utilizzare alcuni effetti, strumenti per cercare di rappresentare un sogno, che è venuto inconsciamente: di conseguenza, non potevano esserci altri al mio fianco.

A suo avviso, quanto è importante l’uso dell’elettronica nell’evoluzione della sua musica?
Non è particolarmente importante, ma è il mio strumento. Ricordo che quando suonavo nei Japan qualcuno mi disse: «Tu non suoni uno strumento ma un’attrezzatura». Penso che avesse ragione. Brian Eno ha sicuramente contribuito allo sviluppo dell’uso del sintetizzatore. Nell’elettronica non ci sono regole, non ci sono barriere; invece, in questo album ho voluto dare maggiore voce agli strumenti acustici.

Com’è iniziata la sua carriera di musicista?
È nato tutto a scuola, quando iniziai a interessarmi alla musica e ne rimasi affascinato. A scuola si finisce sempre per mettere su la prima band. Poi ho avuto le giuste motivazioni, ho trovato le persone e i luoghi giusti. E, improvvisamente mi sono ritrovato a fare il musicista.

Chi è il suo mentore?
Non ho avuto insegnanti, né i miei genitori erano musicisti. Posso parlare di influenze e, sicuramente posso citare Brian Eno. I Roxy Music e la loro musica hanno determinato un cambiamento fondamentale nella scena di quegli anni. Brian mi ha fatto capire che si può fare tanto nella musica senza essere troppo tecnico o troppo professionale.

Parliamo dei Japan e della scena musicale degli anni Ottanta. Ritiene corretta la classificazione della band nel genere New Wave?
Penso che si debba dividere la carriera dei Japan in tre diverse fasi. La prima si identifica nell’album d’esordio, che ha influenze New Wave, di punk americano, di funk e rock. Avevamo una sensibilità punk perché guardavamo ai New York Dolls, a Iggy Pop, ai Television, a Patti Smith. La seconda fase del gruppo è quella di «Quiet Life» e «Take Polaroids», in piena epoca New Romantic. La terza fase è rappresentata dall’album «Tin Drum» che portò nuovi cambiamenti.

Quali erano le radici musicali dei Japan e quali gli obiettivi?
In realtà non avevamo degli obiettivi né particolari ambizioni. Noi volevamo una vita tranquilla, forse per questo sembravamo diversi: non eravamo alla ricerca della notorietà. Poi la fama è venuta, ma era la musica che ci interessava davvero.

Richard Barbieri «Planets+Persona»
Richard Barbieri «Planets+Persona»

Vista la sua grande conoscenza della musica, rispetto a quegli anni la scena musicale è cambiata in meglio o peggio?
Penso che la musica non sia cambiata ma siano cambiati i musicisti e la prospettiva di chi la consuma. La gente non vuole trovare necessariamente musica che la emoziona. È cambiato il modo di approcciarsi alla musica, di consumare la musica, di scaricarla anche non legalmente, purtroppo. E penso che nel futuro ci sarà sempre meno attenzione nei riguardi del prodotto musicale fisico. Quando avevo tra le mani un 33 giri era un’esperienza incredibile perché raccontava una storia.

Dopo la sua esperienza con i Japan arrivano i Porcupine Tree. Vorrebbe parlarcene?
Non si è trattato di un cambiamento nella mia musica. Ho incontrato nuove persone e un nuovo modo di accostarsi alla musica. Steven Wilson mi tracciò il progetto dei Porcupine Tree e questo mi persuase: mi piacevano tutti gli aspetti della loro musica. Amo la musica rock e mi interessa moltissimo.

Tra le sue numerose esperienze musicali, quale ritiene la migliore e quale la peggiore?
In ogni progetto si trova un punto di forza e uno di debolezza, dove la direzione cambia. La mia esperienza con i Japan è stata sicuramente significativa e sono stato davvero bene in studio nel fare gli album: era tutto molto professionale, quasi perfetto. Così anche con i Porcupine Tree abbiamo fatto dei concerti fantastici e registrato dischi che ritengo speciali.

Tornerà mai a collaborare con David Sylvian?
No, non credo!

Alceste Ayroldi

[da Musica Jazz, aprile 2017]