Il jazz di Riccardo Schwamenthal tra composizione e improvvisazione

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Bergamo, Italy - 1972/03/18 - Teatro Donizetti - Rassegna Internazionale del Jazz - Art Blakey - Photo © Riccardo Schwamenthal / CTS images.com - Phocus

Nell’edizione 2017 Bergamo Jazz con la mostra fotografica Il jazz di Riccardo Schwamenthal tra composizione e improvvisazione rende omaggio ad un amato concittadino recentemente scomparso, fotografo di jazz di levatura internazionale e presenza fissa ed appassionata fin dalle prime edizione del festival di Bergamo Jazz.

L’inaugurazione della mostra fotografica, a cura di Luciano Rossetti, è mercoledì 22 marzo 2017, alle ore 18 presso il Teatro Donizetti, Ridotto Gavazzeni a Bergamo.

Riccardo Schwamenthal (1937-2016), notissimo ai lettori di Musica Jazz, era uno dei più importanti fotografi internazionali di jazz ma la sua vita è sempre stata caratterizzata da grande curiosità intellettuale, come emerge in questo incontro del 2000, fino a oggi dimenticato nel cassetto, nel quale racconta e ricorda i tanti episodi, gli incontri e le passioni che più lo hanno coinvolto.

Sei stato l’unico fotografo ad accogliere Duke Ellington alla Stazione Centrale di Milano nel 1963!

E qui, subito, ti correggo. Se devo essere sincero, credo che in quell’occasione fosse presente anche Roberto Polillo, perché ho visto due e o tre fotografie sue. Le mie erano venute benissimo. Penso che mi avesse avvisato Bruno Schiozzi ed eravamo andati in tanti ad accoglierlo alla stazione. La sera ho scattato altre fotografie al teatro del Conservatorio. Il Duca lo rividi l’anno dopo, a Sanremo, quando suonò con un ottetto con bassista e trombettista europei (Bibi Rovère e Rolf Ericson). Pensa che ero convinto che Roberto fosse un grande appassionato di musica afroamericana, ma non era così perché andava solo per il piacere di scattare e soprattutto senza lo scopo di vendere le foto ai giornali. Al contrario mi viene in mente Ugo Mulas, che era già famoso, e la cui passione era tale che me lo ritrovai in buca a teatro nel 1956 a sgomitare per riprendere Miles Davis.

Poi torniamo alla fotografia, ma la tua attività è sempre stata di tale eclettismo da meritare subito un cenno.

Sì, è così, mi sono sempre occupato di molte cose. Ricordo un mio libro edito da Baldini e Castoldi con i finali dei romanzi più famosi. Comunque il mio vero lavoro consisteva nel vendere pubblicità sulle Pagine Gialle. Intorno agli anni 1964-65 mi ero stancato un po’ del jazz e ho iniziato a collaborare con Michele Straniero, un amico di Torino, per la stesura del dizionario dei proverbi italiani, che è arrivato alla quarta edizione. Era anche il periodo nel quale chiedevo agli amici – per esempio Franco Fayenz – di Roberto Leydi, perché avevo sentito parlare della musica popolare e volevo capirne qualcosa di più, in quanto mi sembrava strano che un’espressione culturale così importante fosse dimenticata. La prima cosa che ho fatto è stata di farmi prestare un registratore da un amico e ho combinato una seduta di registrazione a Negrone, un piccolissimo paese della bergamasca dove confluiva la gente del posto e, bevendo qualche bicchiere, si è cantato. Questa è stata la prima registrazione. Poi ho incontrato personalmente Roberto Leydi, che insegnava etnomusicologia a Bologna, e gli ho sottoposto le registrazioni. C’erano cose molto interessanti e da lì è nata una collaborazione che mi ha consentito di conoscere, come dicevo, Michele Straniero. Sono quindi seguite molte registrazioni che sono oggi conservate alla biblioteca civica S. Tomaso di Bergamo. Ho poi voluto cercare di costruire una storia del jazz a Bergamo e ho proceduto con il magnetofono per raccogliere testimonianze orali. Ho svolto anche attività pubblicistica per Ritmo e sono sempre stato appassionato di cinema: andavo al festival di Venezia e inviavo articoli al Giornale di Bergamo. Ho smesso nei primi anni Sessanta per motivi politici, perché avevo scritto una recensione negativa su Romano Mussolini, che aveva suonato al teatro Duse, a Bergamo. Io Romano l’avevo già conosciuto alla Bussola di Viareggio. Suonava con Amedeo Tommasi, del quale ero molto amico, Dino Piana e altri e non mi era dispiaciuto. Quella sera al Duse, strapieno di nostalgici, il pubblico applaudiva a qualsiasi cosa suonasse Romano e la sua esibizione divenne eccessivamente sguaiata. Nel mio pezzo dissi al redattore che dovevo dare atto del fatto di cronaca, ma costui mi confermò il veto del direttore. Questo decretò la volontaria fine della mia collaborazione.

Come vedi i lavori dei tuoi grandi colleghi statunitensi?.

A me piaceva moltissimo William Claxton. Uno dei primi libri che mi sono procurato è suo. Il più bel libro di fotografie jazz è però per me Plaisir du jazz di Dennis Stock. Herman Leonard è pure un grandissimo. Ho scoperto che una delle più belle foto di Ellington l’ha scattata lui a Parigi nel 1958, quando io ero in platea, in controluce. E ti dico che ho tratto soddisfazione da una natura morta che ho scattato – il riferimento è la celebre foto di Claxton – che è stata usata come manifesto per una mia mostra.

Raccontami delle fotografie che abbiamo davanti, sparse sul tavolo.

Questo è Monk al Lirico nel 1961. Qui, oltre a Bud Powell, si vede Buttercup, la sua compagna, ad Antibes, dove sta ascoltando Mingus. Ecco Mingus a Bologna, nel 1964. Milt Jackson alla Taverna Messicana, Art Farmer con Mulligan, Helen Merrill, un giovanissimo Ray Charles, Lester Young, Freddie Hubbard con Wayne Shorter a Sanremo, Miles all’Arena di Verona, Louis in camerino a Milano, la Reno Dixieland Jazz Band con Cicci Foresti, Lucio Dalla giovanissimo e Pupi Avati magrissimo …

Ma, da appassionato, a cosa sei più legato?

Devo dire che il mio periodo preferito sono gli anni Sessanta. Dopo Coltrane ce ne sono pochi che mi entusiasmano. Prima ascoltavo un disco di Uri Caine. Con Coltrane, però, arrivo a «A Love Supreme»… Mi piacciono sempre molto Sarah Vaughan e Lester Young, con tutto il rispetto per i sassofonisti odierni. La mia idea sul jazz di oggi è che tecnicamente sono tutti bravissimi, e non si parla solo di Wynton Marsalis ma anche di italiani ed europei. Una volta era tutto molto più avventuroso. Si tenevano concerti a Milano e Monza, organizzati da Madini nei saloni superiori del bar Motta. Ci sono passati tutti, da Jannacci a Gaber, da Bruno De Filippi a Eraldo Volonté. Si sentivano anche delle cose belle. Una sera suonò un gruppo di dilettanti che interpretava la musica di Stan Kenton, i Pisistratus, che per noi erano diventati un mito e nel quale, secondo me, c’era qualcuno che faceva finta di suonare! Per intenderci, probabilmente erano cose orripilanti ma con una passione straordinaria. Oggi pure il più sciagurato suona benissimo, ma forse con un appiattimento che prima non c’era. I grandi non venivano da una scuola, erano autodidatti. Sulla tecnica di Monk si può forse obiettare, ma è indiscutibile che lui abbia creato una grande scuola.

L’ultima cosa che hai ascoltato, dopo Uri Caine?

Proprio oggi, uno dei miei musicisti preferiti, Pietro Ceragioli, ovvero Pete Jolly, un pianista californiano. È straordinario. Aveva una magniloquenza unica ed è stato uno dei primi a usare la fisarmonica.

Ermanno Baldassarre

Bergamo – Italy, 1974/03/21 – Teatro Donizetti – Rassegna Internazionale del Jazz – Art Ensemble of Chicago – Joseph Jarman bc, Lester Bowie t, Famodou Don Moye d, Roscoe Mitchell as, Malachi Favors b – Foto © Riccardo Schwamenthal / CTSimages.com – Phocus