
Per carità, quest’anno nessuno può capirlo più di me, il bravissimo direttore artistico dell’Alba Jazz Festival Fabio Barbero. Quando mi capita mi parlare di donne nel jazz il primo pensiero è quello di non voler essere ghettizzata in un ruolo – ‘donna che parla di donne’ – e allora mi invento di tutto per non fare la parte della vetero-femminista, o peggio di quella che incensa musiciste solo per far emergere le differenze e le villanie, che naturalmente tutti sappiamo purtroppo esistano in molti casi.

Analogamente, un giorno a un direttore di festival – grande estimatore di strumentiste, una su tutte la grande Renee Rosnes – viene voglia di improntare la sedicesima edizione della propria rassegna albese proprio sulle donne nel jazz. E allora pensa di staccarsi dal gruppo e differenziare l’offerta facendo conoscere al pubblico quanto eclettismo ci sia in quella scelta: jazz che affilia e crea sorellanza e interplay, soprattutto nel caso di interscambio di componenti interne alla formazione originale; oppure jazz che fa capolino da un tessuto progressive potenziato e nobilitato; jazz che celebra se stesso attraverso una femminilità meravigliosa e prorompente; infine, jazz di delicatezza e splendente conoscenza e cultura.
Sister In Jazz con Stefania Tallini. Anika Nilles. Tia Fuller. Rita Marcotulli. Il gioco è fatto.
Tutto parte giovedì 29 giugno proprio con Sisters In Jazz International, gruppo formato da Alexandra Lehmler al sax, Izabella Effenberg al vibrafoni, Roz Macdonald al contrabbasso e Dorota Piotrowska alla batteria, che in questa circostanza incontrano il pianismo ispirato della nostra bravissima Stefania Tallini e ne scaturisce una bella performance davvero molto apprezzata dal pubblico, in questa serata di debutto sotto minaccia delle condizioni meteo: ma tutto si è svolto come previsto all’Arena Estiva Teatro Sociale. Una serata sfavillante, di suoni e atmosfere.

Non è stato invece così la sera successiva, venerdì 30 giugno: già dal pomeriggio la pioggia incombeva e dunque tutto è stato spostato all’interno del Teatro Sociale per il concerto davvero molto atteso della batterista tedesca Anika Nilles insieme al suo gruppo: Anita Nilles & Newell presentano in quest’occasione il recente lavoro Opuntia. Per quanto ne sappia, ‘opuntia’ è il nome scientifico di una pianta appartenente alla famiglia dei cactus, bellissima alla vista e spinosa, e subito mi appare come una metafora perfetta di cui raccontarvi a proposito non solo della musicista – giovane, bionda, simpaticissima e dotata di un entusiasmo trascinante benché muscolare – ma anche del suo suono, così sorridente ma denso di sonorità, scorrevole e distonico al tempo stesso. A ogni attacco il mio primo rimando era Joe Satriani (anche se qui c’ è molta più “pacca” nella batteria, che però Nilles enfatizza senza essere eccessiva), se non ci fosse stato il percussionista Santino Scavelli a ricamare in profondità portando il suono in un’altra dimensione. Un concerto “hard-jazz” – come l’ha definito il mio vicino di poltrona – pieno di suggestioni e le due tastiere suonate da Simon Grey e Patrick Rugebregt volano in alcuni brani, mentre altri pezzi sono decisamente costruiti per rimarcare i riff del basso elettrico con Jonathan Cuniado, o della chitarra con Joachim Schneiss. Qualcosa di vagamente lontano dal mio genere di cui però ho apprezzato tutto, anche le faccette buffe di Anika quando le capita di sbagliare una battuta, e poi si scusa piano con le labbra: questo proprio non mi era mai capitato durante le esecuzioni dei colleghi e me la rende davvero unica e speciale. Il pubblico acclama un bis e poi un ter, scandisce i titoli delle sue canzoni, punteggia con applausi copiosi le due ore circa di un concerto della cui opportunità ringraziamo Fabio Barbero.

Anche nella serata di sabato 1° luglio la protagonista è un’artista che per la prima volta si esibisce in Italia, sebbene anche da noi sia piuttosto conosciuta per aver interpretato e doppiato musicalmente il personaggio della sassofonista Dorothy Williams nel lungometraggio Soul della Disney, nonché per essere stata una delle componenti della band femminile di Beyoncé: Tia Fuller. In quest’occasione possiamo così tutti saggiare le potenzialità di questa donna straordinaria, il suo groove unito a una forza spirituale non indifferente e a una profonda indole pedagogica, dimostrata dai frequenti piccoli sermoni offerti al pubblico rispetto alla metafora contenuta nel suo ultimo lavoro Diamond Cut, tra l’altro prodotto da Terri Lyne Carrington: un diamante non nasce tale, ma viene indotto a risplendere da un lavoro accurato e la preghiera è quella che noi si possa sempre lasciar riflettere quella luce. Affascinante tanto quanto il suo suono, un concentrato di pienezza e sapienza tra passaggi alla ‘Trane e qualche rimando a Joshua Redman, almeno nel mio sentire. Il trio che l’accompagna è particolarmente coeso e spesso propina qualcosa di raffinatissimo tra note libere e una ritmica lucida e pulsante. La situazione è davvero particolare: Roberto Tarenzi al piano (sulla brochure era indicato ‘Orrin Evans’, ma Tarenzi va di pedali e spunti per tutto il concerto, e non lo lascia rimpiangere) e i bravissimi Luca Fattorini al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria sostituiscono il parterre di strumentisti dell’album originale, si chiudono in un tranquillo luogo langarolo con Tia qualche ora prima del concerto, si immedesimano in una musica non loro e producono in serata una performance piena di interpretazioni, entrate in punta di piedi nei passaggi più temibili, un certo grado di riservatezza a cui non siamo avvezzi. Il risultato è un concerto in parte travolgente e in parte lontano, ma non in senso negativo. Anche la raffinatezza può sommergerti. Subito dopo arriva Tia, che nel presentare il pianista lo chiama ‘Roberto Tazzini’ e sorride comprendendo di avere sbagliato, il trio non fa una piega e io decido di amare follemente questo momento di corrispondenza celeste tra lei e il trio, tra noi e loro, tra il suono magnifico e la non perfetta conoscenza delle parti.

L’ultima serata preclude all’abbandono del direttore Barbero sulla prima poltrona disponibile, visto che per quattro sere di fila lo abbiamo visto correre in ogni direzione, saggiare il suono, accertarsi che tutti fossero a proprio agio (pubblico, musici, addetti ai lavori e i numerosissimi fotografi) e credo di aver veduto pochissime volte qualcuno così intimamente legato alla propria creatura jazzofila. Stasera è il turno della delicatezza, si diceva prima, ma unita a una competenza e a una potenza sapiente sullo strumento da lasciare il pubblico attonito a seguire la direzione proposta. Rita Marcotulli è tra gli strumentisti che amo proprio per questa personale commistione di cultura garbata e ripercussioni marcate e incisive sullo strumento, e il concerto che propone stasera ha in sé la levità di un incontro con sodali (si confermano di livello altissimo Furio Di Castri al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria) e poco importa se la riuscita del concerto sia maggiormente legata al piacere di suonare di nuovo insieme che a una progettazione vera e propria nel dipanarsi dei brani e nell’esecuzione: il pubblico comprende perfettamente questa dichiarazione di intenti e premia il trio con applausi entusiasti.
Tra brani di Rita e un paio di Di Castri – The Happy Beat in cui la ritmica incalza come in una milonga e Fado Curvo dove compare anche un frammento di elettronica) si inseriscono capolavori arrangiati magnificamente come Lady Madonna dei Beatles, lo standard I’m Through With Love e soprattutto la struggente I Think It’s Going To Rain Today di Randy Newman, che Marcotulli rende completamente sua e ti fa volare. Nel bis, le spazzole ‘concrete’ di Gatto lasciano il posto a una ritmica più sostenuta e sembra proprio che in questo ultimo pezzo si liberi tutta l’energia possibile. Un ottimo modo per declinare tutte le forme di questa amatissima musica, e per salutarci tutti cercando di indovinare cosa si celi nella mente del direttore Fabio Barbero per la diciassettesima edizione dell’Alba Jazz Festival.
Lorenza Maria Cattadori