
Bologna, EuropAuditorium
31 ottobre
L’apertura del Bologna Jazz Festival ha coinciso con un evento di assoluto rilievo. Sotto la denominazione A MoodSwing Reunion Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade formano un quartetto di prima grandezza, che infatti ha richiamato un pubblico numeroso ed entusiasta. «MoodSwing» (Warner Brothers) è il titolo di un disco inciso da Redman nel 1994 con questa formazione. A dispetto delle apparenze, il concerto bolognese non costituiva affatto una riunione, quanto piuttosto la continuazione di un percorso comune. Non a caso, nel 2020 il quartetto ha pubblicato «RoundAgain» per la Nonesuch, contenente – al pari del disco precedente – solo composizioni originali.
Da quei due lavori è stato estratto il repertorio eseguito per l’occasione. Nel corso degli ultimi cinque lustri ognuno dei membri ha maturato una propria identità sia come strumentista che, soprattutto, come compositore e leader di propri gruppi.
Redman ha affinato il proprio linguaggio, sfrondandolo in buona parte da orpelli e patterns. Ben cosciente della tradizione e ben distante dall’eredità del padre – il grande Dewey – nell’approccio al sax tenore Redman sembra aver superato abbondantemente (a differenza di altri suoi coetanei) l’influenza di Coltrane e i conseguenti stilemi di maniera. Il suono sembra a tratti richiamare vagamente Warne Marsh, ma il fraseggio è sanguigno e in certi frangenti infuocato, innervato di blues feeling, stridente e strozzato sui sovracuti, sui quali talvolta Redman indulge eccessivamente. Al soprano possiede un timbro secco, asciutto, col quale disegna frasi sghembe e prive di accenti narcisistici.
In un contesto dove spesso è la poetica di Redman a prevalere (sono infatti sue molte delle composizioni), Mehldau gioca un ruolo di alter ego, capace al tempo stesso di contribuire con discrezione al processo collettivo. Lo conferma il suo apporto, giocato in punta di piedi, al tessuto modale di Sweet Sorrow e al groove quasi soul jazz di Silly Love Song, entrambe firmate da Redman. Al momento giusto Mehldau sfodera la sua mirabolante capacità di esplorare i risvolti dei nuclei armonici e di costruire (come, ad esempio, nella sua Father) dei percorsi alternativi che aprono letteralmente nuove prospettive di sviluppo. Come sempre, sfoggia una sorprendente interdipendenza nell’azione delle due mani, da cui scaturiscono anche linee contrappuntistiche.
Un discorso a parte merita la ritmica, benché sia riduttivo chiamarla così. McBride e Blade imbastiscono un fecondo e costante dialogo con i colleghi, in un continuo scambio di stimoli e suggerimenti. Il contrabbassista tesse trame fluide, ricche di spunti melodici con il suo pizzicato agile e corposo ad un tempo. Blade stupisce ogni volta per la varietà di soluzioni proposte. Elabora figurazioni cangianti con efficaci controtempi, scomponendo continuamente le linee ritmiche. Inoltre, applica un’ampia gamma dinamica contrapponendo uno swing leggerissimo sul piatto ride ad accenti sferzanti sul rullante. L’interazione con McBride produce un flusso torrenziale, convogliato in un alveo capiente in cui Redman e Mehldau possono avventurarsi senza perdersi. Ne è un’altra dimostrazione lampante Obsession, basata su un up tempo nervoso e incalzante.
In breve, Redman, Mehldau, McBride e Blade sono musicisti ormai divenuti maestri dei rispettivi strumenti, nonché depositari e fautori di un dinamico rapporto tra tradizione e modernità del linguaggio jazzistico.
Enzo Boddi
Foto: cortesia del Bologna Jazz Festival