Novara Jazz 2022: dalle orchestre ai solo

La rassegna di Novara si è tenuta dal 2 al 12 giugno. Noi abbiamo seguito i concerti dal 10 al 12.

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Foto di Emanuele Meschini

Se si escludono il mainstream ed i protagonisti internazionali di grande richiamo promossi dal mercato jazzistico, a Novara Jazz si può ascoltare di tutto. In questa diciannovesima edizione, dopo una settimana dedicata soprattutto alla perlustrazione e alla valorizzazione di luoghi del territorio provinciale con nomi italiani e stranieri mai banali, la programmazione dell’ultimo week end si è concentrata nel centro storico, permettendo di scoprire sedi di grande suggestione, non destinate abitualmente allo spettacolo, e presentando gruppi e solo performance di indubbio interesse. Dal 10 al 12 giugno una rete diversificata di concerti si è dipanata a ritmo incalzante nel corso della giornata sui palcoscenici di volta in volta più opportuni; il centralissimo cortile del Broletto (destinato di giorno a concerti di gruppi locali) ha accolto gli appuntamenti serali di maggiore affluenza, iniziando e concludendo con due formazioni orchestrali di notevole impatto, espressione della ricerca europea più intrigante e nel contempo più comunicativa degli ultimi anni.  Attiva dal 2006 sotto la direzione del tastierista Marco Barroso, il Lisbon Underground Music Ensemble è una compagine di una quindicina di elementi, che ha all’attivo incisioni per la Clean Feed. Fin dai primissimi brani del concerto novarese è risultato subito chiaro il suo messaggio, che sembrava conciliare Frank Zappa e Michael Nyman: del primo ha replicato la creatività visionaria e surreale, del secondo ha ricordato la cronometrica precisione delle entrate a incastro dei diversi fiati. Ma altri riferimenti ancora si potrebbero individuare nelle intenzioni e nel retroterra culturale di questa vitalissima formazione: le ardite combinazioni del Microscopic Septet di Phillip Johnston, la slabbrata ironia dei Compani guidati da Bo Van De Graaf, oltre alla compattezza e alla propositiva energia di tante altre band dello Swing, del free, del R&B, del punk…  Ritmi sostenuti e un volume prevalentemente elevato non hanno ostacolato l’esposizione di intricate linee melodiche, contrasti dinamici e un frenetico incalzare di idee diverse, compreso qualche mirato inserimento elettronico. Gli arrangiamenti ferrei si sono avvalsi della pronuncia strumentale esasperatamente free dei singoli, facendo della musica del L.U.M.E., trasversale, smodata, rigorosa e visionaria allo stesso tempo, una delle proposte orchestrali più sorprendenti oggi in circolazione.

Peter Evans
Foto di Emanuele Meschini

Nelle tre giornate, oltre alle due orchestre si sono svolti altri appuntamenti imperdibili, a cominciare da una sfilata di cinque solo performance, diversissime l’una dall’altra ma tutte fortemente caratterizzate. Immancabile il concerto mattutino nella Basilica di San Gaudenzio sotto la vertiginosa altezza della cupola dell’Antonelli, la cui ampia risonanza richiede di essere opportunamente affrontata dall’interprete. Cosa che ha saputo fare Peter Evans, imboccando dapprima un trombino a quattro pistoni (detta piccolo nei paesi anglofoni). Le frasi lente e brevi hanno lasciato percepire l’eco riverberato delle note finali; poi l’articolazione dell’eloquio si è andato complicando con una sequenza di frasi concatenate, ripetitive ma sempre diverse. Il percorso concepito con la tromba ha proceduto in una diversa direzione: le note iniziali, isolate, sporche ed eccentriche, hanno lasciato gradualmente il posto a un’esposizione ora evocativa dal sapore ancestrale, ora ostinata, nervosamente puntuta. Particolarmente efficaci, dai toni quasi umani, sono risultati i lamentosi glissando ottenuti con la mano davanti alla campana. In definitiva l’improvvisazione di Evans ha eretto con intelligenza una sublime costruzione, frastagliata, ardita ma sempre ben leggibile, meno compatta, estrema e satura rispetto ad altre sue esibizioni solitarie del passato.
Una produzione originale del festival, in un’altra sede, ha coinvolto il trombettista americano accostandolo al trio italiano Acre, coordinato dal batterista Ermanno Baron e completato da Ginomaria Boschi, chitarra ed effetti, e Marco Bonini, laptop, nastri e theremin. L’inedito connubio ha intrapreso una ruvida, movimentata improvvisazione radicale di stampo rumorista, ottenendo risultati di grande efficacia sotto il profilo timbrico e dinamico.
In rappresentanza dell’etichetta We Insist, che proprio ora sta compiendo il quarto anno di vita, nel cortile di Casa Bossi Alberto Braida ha affrontato una solo performance, a cui si dedica dal 2004, ma proponendola dal vivo con molta parsimonia. Il concerto ha rappresentato un distillato del suo mondo interiore, del suo rapporto con il pianoforte e con l’inestricabile dipendenza fra composizione e improvvisazione. Un tocco pianistico di grande sensibilità, ora delicato ora tumultuoso, un uso appropriato dei pedali e soprattutto una profonda concentrazione lo hanno portato a decantare e a far convivere situazioni diverse.

Alberto Braida
Foto di Emanuele Meschini

Si sono così succeduti momenti di poesia interiorizzata e struggente, poderosi crescendo percussivi, temi melodici occulti o espliciti, ripensamenti e lontane citazioni… Il tutto sostenuto da un’evidente attenzione per gli aspetti melodici, timbrici e dinamici. Non mi pare fuori luogo riconoscere l’ombra di Monk alle spalle di questo tipo di intima ricerca, di questo mondo pianistico misterioso, un po’ sghembo e allucinato, ma anche affermativo.
Nella chiesa di San Giovanni Decollato, su un organo del 1836 recentemente restaurato, il trentaseienne Kit Downes ha imbastito un percorso organistico complesso, tortuoso, sviluppando le molteplici potenzialità dello strumento. La sua performance, in buona parte improvvisata includendo però temi folclorici di vari paesi europei, da un punto di vista dinamico ha dato corpo a masse sonore variabili, quasi contrapposte, passando da sospiri sfumati da improbabili glissando a linee melodiche intimiste, a pienissimi risonanti di armonici. Gli impasti armonici hanno esplorato soluzioni inconsuete, sibilanti o allucinate, accostandole a maniere organistiche più canoniche. Un singolare risultato ottenuto da questa esibizione del britannico, che ha pienamente rispettato e convalidato l’aspetto aulico e sacro della tradizione dello strumento e dell’ambiente, è stato quello di replicare talvolta quelle sonorità ondivaghe a cui l’elettronica ci ha abituato negli ultimi decenni.

Bruno Chevillon
Foto di Emanuele Meschini

Una sala della Galleria d’arte moderna Giannoni, sotto una tela di Filiberto Minozzi, ha ospitato un’esaltante apparizione di Bruno Chevillon. Rispetto alle analoghe esibizioni di decenni passati, il suo approccio attuale si è rivelato meno fisico e melodico-ritmico, meno basato su un’avvincente continuità narrativa. Sono prevalsi invece la consapevolezza nella stesura di una composizione istantanea, la ricerca sulla connessione di nuclei tecnico-tematici diversi, tesi ad esasperare soprattutto le componenti strutturali e timbriche del processo creativo. A tal fine il bagaglio tecnico-espressivo messo in campo e la variegata modulazione del suo sound hanno rivestito sempre una funzione esemplare. Avvolta in un’atmosfera di concentrazione e di silenzio assoluti, l’improvvisazione del contrabbassista francese ha assunto una dimensione rituale, combinatoria, quasi concettuale; l’intensità della sua intima partecipazione non ha mancato di trasmettersi magicamente in un analogo comportamento da parte del pubblico.
Sabato sera c’era attesa per il Soundsystem Setup dell’anglo-giamaicano Theon Cross, per la seconda volta fuori dal Regno unito in questa veste. Al Broletto, su un contesto sonoro elettronico perennemente offuscato e riverberante e su trame ritmiche altrettanto elettroniche e dal timbro metallico, il tubista ha elaborato linee melodiche piuttosto singolari, lentamente sviluppate e non banalmente accattivanti. Mettendo successivamente in loop frasi più o meno complesse, compresa la citazione del tema di A love Supreme, ha ottenuto mondi sonori sempre più saturi e stratificati. L’elevata amplificazione e il filtro tecnologico hanno tuttavia avuto l’esito di deformare l’intonazione dello strumentista e il senso complessivo della sua narrazione melodica. Ne è risultato un flusso sonoro gonfio, ipnotico, opprimente, in parte inquietante, in  parte solo invadente.
Meritano la dovuta attenzione infine tre gruppi più o meno giovani dell’attuale panorama italiano, ognuno dotato di una propria linea espressiva ben connotata. Già da anni si è messo in evidenza il quintetto romano Storytellers, coordinato dal contraltista Simone Alessandrini e documentato da due cd di Parco della Musica. Le storie raccontate oggi da questo organico, di varia ispirazione e forse più scanzonate e astruse di un tempo, hanno messo in luce soprattutto i disinvolti e audaci intrecci che reggono l’interplay della front line: Federico Pascucci al tenore e Antonello Sorrentino, oltre al leader. L’agile lavoro di Riccardo Gola e Riccardo Gambatesa, rispettivamente basso e batteria, ha ordito un adeguato e cangiante contesto ritmico.
Archipelagos è invece la denominazione del progetto della batterista Francesca Remigi, avviato a Bruxelles nel marzo 2019. I brani proposti, tratti dai due cd a nome della batterista, di cui il secondo, The Human Web, appena uscito, ed ispirati a testi di Noam Chomsky, William McNeill, Zygmunt Bauman… ma anche al pianismo di Vijay Iyer, hanno presentato impianti compositivi stagliati con decisione, assegnando ruoli ben precisi ai bravi collaboratori, che hanno contribuito alla piena riuscita della visione della leader. Fra unisoni compatti, frasi reiterate e cambi di direzione hanno così avuto modo di mettersi in evidenza strumentisti di notevole valore: il clarinettista Federico Calcagno, il pianista Filippo Rinaldo e il contrabbassista Stefano Zambon, mentre una specifica coloritura è stata aggiunta dalla voce e dagli effetti azionati da Claire Marie Parsons.
Nell’appartato chiostro della Canonica del Duomo, sotto un volo vorticoso di rondini, si è tornati anche quest’anno prima del tramonto col trio paritario She’s Analog. Il gruppo, che vanta un album della Auand alle spalle, è formato dal chitarrista Stefano Calderano, dal piano e synth di Luca Sguera, dalla batteria ed elettronica di Giovanni Iacovella. Il loro coeso lavoro ha perseguito un ambito sonoro peculiare, coinvolgente, alonato, a metà strada fra acustico ed elettrico, mettendo in scena una successione di circostanze autentiche: limpide trame minimaliste, evocativi panorami di sapore ambient, fragili ripiegamenti poetici, masse sonore dense e compatte…
Nella serata conclusiva, al L.U.M.E., ascoltato due sere prima sempre al Broletto, ha fatto da contraltare l’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, giovane formazione franco-svizzera di una dozzina di elementi, in cui sono bandite le ance per puntare su un trio d’archi, due chitarre, un flicorno, un trombone e quattro percussioni di varia natura, oltre al contrabbasso del leader Vincent Bertholet. Ogni elemento del gruppo, che vede una nutrita presenza femminile (cinque musiciste su dodici), si dedica anche alla voce, in particolare la violinista Liz Moscarola che riveste un ruolo di cantante solista. Nell’atteggiamento su palco come nella proposta musicale la formazione persegue un’evidente impostazione collettiva e comunitaria, che la accomuna ad altre formazioni francesi di ieri e di oggi.
Gli arrangiamenti stringenti non lasciano posto alcuno all’improvvisazione individuale o collettiva, pur avviando l’esasperato e fisico vitalismo del messaggio sonoro. Le strutture dei brani sono piuttosto semplici, basate su riff, reiterazioni, ossessive scansioni ritmiche… Quello che conta sono la forte motivazione dell’organico, i crescendo di energia e soprattutto la precisone ritmica con cui vengono sottolineati i vari passaggi, nonché le repentine conclusioni dei brani. Tutto questo al Broletto ha prodotto una comunicazione ipnotica e contagiosa, portando ad una sequenza di bis ad libitum, di fronte al pubblico danzante. Questa edizione di Novara Jazz si è chiusa quindi nel segno della festa più sfrenata, annunciando la prossima che sarà quella del ventennale.
Libero Farnè